25 Agosto 2014
Fonte:ISPI
Matteo Villa
ISPI
L’ISPI, fondato nel 1934, è tra i più antichi e prestigiosi istituti italiani specializzati in attività di carattere internazionale, con sede a Palazzo Clerici a Milano. È un’associazione di diritto privato, eretta in Ente morale nel 1972, operante sotto la vigilanza del ministero degli Affari Esteri e, per quanto concerne la gestione, sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Corte dei Conti.
La produzione scientifica dell’ISPI si è sempre contraddistinta per un forte orientamento pragmatico (basato sul monitoraggio delle diverse aree geopolitiche e sull’interpretazione delle principali tendenze in atto nello scenario globale, con l’obiettivo di fornire indicazioni e chiavi di lettura agli operatori politici ed economici), un approccio interdisciplinare (assicurato dalla stretta collaborazione tra specialisti in studi economici, politici, giuridici, storici e strategici, provenienti anche da ambiti non accademici) e la partnership con prestigiose Istituzioni e Centri di ricerca di tutto il mondo.
Nell’ultimo rapporto “Global GoTo Think Tank Report – 2013” realizzato dall’Università di Pennsylvania l’ISPI è risultato primo al mondo tra i Think Tank di medie dimensioni (budget annuale inferiore ai 5 milioni di dollari) e quarto nella categoria “Best policy study produced” (dopo Brookings Institution, Chatham House e McKinsey Global Institute). Ottimo piazzamento anche nelle categorie “Best Think Tank network” (ottavo), “Best new idea or paradigm developed by a Think Tank” (dodicesimo), “Best Conference” (quattordicesimo) e “Best use of social network” (ventisettesimo). Nel 2012 l’ISPI era stato inserito tra i top 100 Think Tank worldwide (non-US) e al 34esimo posto nel ranking mondiale per “Best Policy Report produced by a think tank” nel medesimo ranking.
Nell’ambito della Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, i prossimi 16 e 17 ottobre si terrà a Milano il summit Asia-Europe Meeting (ASEM). Al vertice parteciperanno, tra gli altri, i 28 membri dell’Unione Europea, i 13 membri dell’ASEAN, la Commissione europea, insieme ad altri paesi asiatici ed europei (tra cui Cina, India e Russia). In occasione dell’evento, l’ISPI realizza una serie di iniziative in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e altri prestigiosi partner. L’8 luglio si è tenuto presso Palazzo Clerici l’executive briefing “Verso l’ASEM. Quali opportunità per l’Italia dall’Asia emergente”, promosso da ISPI e Assolombarda. Il workshop mirava a far conoscere meglio il contesto politico ed economico dell’Asia emergente e le relazioni con l’Europa, presentando le opportunità di business che ne derivano, con un focus specifico su India, Cina e sui paesi ASEAN. Gli interventi di inquadramento sono stati a cura di Alessandro Pio (Consigliere scientifico ISPI e già direttore del North America Representative Office dell’Asian Development Bank) e Romeo Orlandi (Vice Presidente di Osservatorio Asia e Docente ISPI), cui seguiranno approfondimenti e testimonianze di Alessandro Fichera (Managing Director di Octagona) e altri operatori. Il 16 ottobre, invece, presso Palazzo Clerici si terrà il workshop “The Asia-Europe Meeting: Making Plans for a Pacific Century”, promosso da ISPI in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, la Rappresentanza della Commissione europea a Milano e la Asia-Europe Foundation (ASEF). Al workshop parteciperanno eminenti personalità dai principali think tank asiatici ed europei. In parallelo, ISPI ospiterà anche la settima Editors’ Roundtable dell’ASEF, alla quale prenderanno parte alcuni tra i principali giornalisti europei e asiatici.
Sicurezza energetica: Obama (non) ci salverà
Lo scorso 8 luglio il Washington Post ha reso pubblico un documento confidenziale(1) in cui i funzionari europei impegnati nei negoziati per il TTIP, il potenziale accordo commerciale con gli Stati Uniti al centro di numerose polemiche, chiedono agli americani di aprire uno specifico capitolo negoziale sulle materie prime e l’energia. Lo scopo, si legge nel documento, sarebbe eminentemente geopolitico: gli Stati Uniti sono «tra i più stretti alleati» dell’Europa, e ridurre le restrizioni bilaterali nel commercio delle risorse energetiche permetterebbe all’Unione europea di «espandere la sua strategia di diversificazione».
Non è la prima(2) e non sarà certo l’ultima volta che i funzionari europei esprimono il desiderio che gli americani condividano parte delle loro fortune con un alleato in difficoltà, acconsentendo a esportare gas naturale liquefatto (GNL) verso gli impianti di rigassificazione europei, a oggi fortemente sottoutilizzati. E non sarà l’ultima volta che, nel corso dei prossimi mesi, sentiremo parlare del possibile ruolo di Washington nella diversificazione delle forniture energetiche europee.
Con la rivoluzione dello shale gas la produzione statunitense di gas naturale, prima in declino, negli ultimi otto anni è schizzata a 688 miliardi di metri cubi all’anno(3) – un aumento del 35% e un record assoluto nella secolare attività estrattiva americana. La dipendenza energetica dalle importazioni di gas si è via via ridotta dal 18% del 2005 al 6% degli ultimi mesi. È quindi inevitabile che, alla luce del recente blocco totale delle forniture di metano all’Ucraina da parte di Gazprom, la prospettiva di un autunno in cui mezza Europa possa restare di nuovo al freddo induca gli analisti a soffermarsi su quello che potrebbe essere il ruolo degli Stati Uniti per ridurre in qualche modo il potere di ricatto di Mosca.
Tuttavia il divario tra le aspirazioni e la realtà rimane ampio, per molte ragioni. Innanzitutto, a rallentare la velocità con la quale gli Stati Uniti costruiscono impianti di liquefazione per esportare GNL ci si mette una serie di leggi e regolamenti. Anche se le regole non sono ferree quanto quelle sulle esportazioni di petrolio, per esportare gas naturale verso i paesi (come quelli europei) che non hanno siglato un accordo di libero scambio con Washington bisogna pur sempre ottenere un’autorizzazione dal Dipartimento dell’Energia. Quest’autorizzazione passa attraverso uno stretto vaglio politico che deve valutarla anche sulla base “dell’interesse nazionale” americano.
L’amministrazione Obama sta lavorando(4) per snellire le procedure e ha già dato il suo nullaosta nei confronti di importanti investimenti in nuovi impianti di liquefazione, mentre le richieste di permessi di costruzione e riconversione ormai superano la quarantina(5). Ciononostante l’opposizione alle esportazioni resta diffusa, non solo in campo repubblicano ma anche tra le frange democratiche moderate (che vogliono dimostrarsi attente agli interessi della loro constituency) e, nella società civile, tra gli attivisti ambientalisti. Vista la polarizzazione del Congresso americano e il livello di stallo politico degli ultimi anni, lo spazio per ulteriori mosse dell’amministrazione Obama appare esiguo.
Accanto al problema della fattibilità politica c’è poi quello della capacità: sia in termini di tempi, sia di volumi. Secondo le più recenti proiezioni dell’Energy Information Administration (EIA), almeno in potenza gli Stati Uniti diventeranno un esportatore netto di gas naturale solo poco prima del 2020. Se è vero che, una volta ottenuti i permessi, le prime esportazioni di GNL potrebbero cominciare già nel 2016(6) (a patto di compensarle con maggiori importazioni dal Canada), non si sarebbe comunque in tempo per rispondere alle contingenze della crisi ucraina. A meno che questa si protragga per altri due anni, e c’è ovviamente da augurarsi che non sia così.
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Crisi ucraina: per il gas dell’Europa il problema non è la Russia Rimane poi da considerare il problema dei prezzi, che anche in questo caso è duplice. Sul fronte dei mercati internazionali dell’energia, a meno di un aumento del costo del barile di petrolio ben superiore rispetto a quello previsto negli scenari base dell’EIA, importare gas naturale dagli Stati Uniti sarà economicamente vantaggioso solo per il Messico, che lo riceverebbe via gasdotto, e per il mercato asiatico, in cui il costo del metano oggi è del 50% più elevato rispetto alla media dei paesi UE. Malgrado nelle questioni di sicurezza energetica la dimensione strategica possa talvolta avere la meglio su considerazioni prettamente economiche, l’Europa dovrebbe comunque valutare con attenzione quanto sarebbe disposta a pagare in più per allentare l’abbraccio con Mosca – al netto, tra l’altro, di cali improvvisi nelle forniture provenienti da altri paesi.Si spiegano alla luce di tutte queste considerazioni le ragioni per cui oggi l’amministrazione Obama non possa che limitarsi a incoraggiare i paesi europei a sviluppare le risorse non convenzionali a disposizione, e a ribadire che non è intenzione degli Stati Uniti abbandonare alleati in difficoltà. La realtà è che nell’immediato Washington non potrà avere alcun ruolo diretto nella diversificazione delle forniture di gas europee. E, anche in prospettiva, è bene che le diplomazie dei paesi dell’Unione continuino a battere strade più realistiche sul pressante fronte della sicurezza energetica.
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Vai al DOSSIER2. http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2013/july/tradoc_151624.pdf4. https://energycommerce.house.gov/sites/republicans.energycommerce.house.gov/files/BILLS-113hr6ih.pdf6. http://www.eia.gov/forecasts/aeo/MT_naturalgas.cfm#windprodDocumento: Tags: CrisiObamaShale gasUcraina
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Russia
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Stati Uniti
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Unione Europea
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Energia
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commentary_matteovilla_24.07.2014.pdf
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Matteo Villa, ISPI Research Assistant
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5. http://energy.gov/sites/prod/files/2014/06/f16/Summary%20of%20LNG%20Export%20Applications.pdf
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3. http://www.eia.gov/countries/country-data.cfm?fips=US#ng
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1. http://www.scribd.com/doc/233022558/EU-Energy-Non-paper
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Bisogna infine considerare le implicazioni politiche di un potenziale aumento dei prezzi dei combustibili fossili sul mercato americano. Dal momento in cui gli Stati Uniti iniziassero a esportare parte del loro gas, i prezzi al consumo dell’energia potrebbero subire ulteriori pressioni al rialzo. Sulla distanza ciò non rappresenterebbe un problema, dal momento che prezzi relativamente più alti rispetto ai record negativi del 2012 sono comunque il presupposto per continui investimenti nell’estrazione non convenzionale. Ma il governo americano è costretto a guardare al breve periodo a causa delle imminenti elezioni di mid-term, in cui il successo o la sconfitta dei candidati democratici in bilico potrebbe dipendere da un pugno di voti dell’elettorato moderato. E i prezzi al consumo di benzina e metano sono tradizionalmente un’arma importante in mano all’opposizione, che si ritrova nelle condizioni di poter sostenere che un loro aumento non soltanto comprimerebbe il potere d’acquisto della classe media, ma ridurrebbe anche la competitività di settori importanti come il petrolchimico, sacrificando posti di lavoro americani sull’altare delle buone relazioni in politica estera.
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Inoltre, se davvero gli Stati Uniti intendessero sostenere l’Europa in caso di un’eventuale riduzione delle forniture di gas da est, i volumi necessari sarebbero nell’ordine delle decine di miliardi di metri cubi: ammesso che nel corso di una crisi Washington reindirizzasse tutte le metaniere verso i paesi europei, è pressoché certo che la capacità di liquefazione americana non sarebbe sufficiente a coprire le mancate forniture russe.