18 Gennaio 2015
Fonte: Forum PA
Carlo Mochi Sismondi
Essere vigili
E’ più forte di me, appena vedo qualcuno buttato in pasto ad un giacobino giudizio popolare mi viene voglia di guardare dietro alla notizia, di essere attento, direi “vigile”. Già vigili: brutta storia quella dei vigili l’ultimo dell’anno a Roma. Ma forse vale la pena di guardarla meglio prima di trasformarci tutti in saccenti censori che non vedono l’ora di trovare il colpevole. Forse così troveremo anche qualche cosa da imparare, che è sempre meglio che sparare nel mucchio.
Non mi metto a fare le pulci ai numeri, anche se leggendo tutto quello che è stato scritto in queste due settimane non mi pare che ci sia chiarezza alcuna sulle cifre. Né mi interessa in questo momento ribadire nuovamente, e ovviamente, che chi ha dichiarato il falso o truccato le carte deve essere sanzionato. No, cerco invece di andare un po’ dietro l’immagine che ci è stata raccontata e come prima cosa mi chiedo come è potuto succedere che una grande organizzazione, fatta di quasi 6.000 persone, come i vigili urbani di Roma, si sia potuta ridurre in questo stato miserevole e innegabile di malessere.
Mi interessa quindi di più ragionare su alcuni punti relativi alla gestione del personale di cui sono profondamente convinto e che la mia ormai lunga esperienza di imprenditore mi ha confermato. Sono punti che a mio parere valgono per qualsiasi organizzazione, pubblica o privata che sia, ma su cui la PA è ancora estremamente carente.
Più di sei anni fa, commentando in maniera critica l’entusiasmo dei benpensanti per i tornelli di Brunetta, che muravano i dipendenti in ufficio, scrivevo:
“Tutte le grandi organizzazioni moderne riconoscono che sono le persone la vera ricchezza e che sia fondamentale guardare alle proprie risorse umane come ad operatori della conoscenza che accumulano la “saggezza” legata all’esperienza, grazie al loro essere continuamente in prima linea. L’artefice del Sistema Toyota, che forse è il più brillante esempio di questa strategia, Taijchi Ohno ha lasciato questo detto: “Le risorse umane sono qualcosa al di sopra di ogni misurazione. Le capacità di queste risorse possono estendersi illimitatamente quando ogni persona comincia a pensare”. Io davvero ci credo: nella mia, molto varia, esperienza professionale e nei miei trent’anni di direzione di piccole o grandi organizzazioni (dalla bottega artigiana a FORUM PA) non ho mai visto cartellini, tornelli, controlli che in sé bastassero a rendere un lavoro felicemente produttivo. Ma dirò di più non bastano neanche ad evitare al “padrone” (o datore di lavoro) di essere fregato da dipendenti presenti sul lavoro, ma assenti dal lavoro nei tanti modi che lavori manuali o intellettuali permettono sempre.
Sono un po’ più vecchio oggi, ma ne sono sempre più convinto. L’unico deterrente al caos e all’arbitrio è quello di creare un clima di lavoro in cui “queste cose non si fanno” . In generale, con le dovute eccezioni e scusandomi per essere un po’ approssimativo, penso che in ogni organizzazione ci sia un 20% che lavorerebbe bene anche sotto tortura: qui il motore che li spinge è soprattutto il rispetto di se stessi; c’è poi un altro 15% che cercherà sempre di lavorare il meno possibile, usando tutte le scappatoie che leggi e regolamenti consentono, e che sarà difficile convincere sia con premi sia con punizioni. Ma è il restante 65% che fa la differenza: se lo portiamo a sostenere “i buoni” alla fine avremo un consenso e un controllo sociale importante contro le furbate che metterà in minoranza i “monelli”, se lo convinciamo che tanto è tutto lo stesso si sposterà dalla parte dei peggiori che diventeranno la stragrande maggioranza, facendo sentire i diligenti come marziani scemi.
Ma come si fa a creare un clima positivo che valorizzi il meglio? La responsabilità è per il 90% della dirigenza che deve considerare il “benessere organizzativo” come un obiettivo chiave, un fattore critico di successo, non un orpello da gettare in pasto a qualsiasi pancia arrabbiata del Paese. I punti chiave sono pochi, ma richiedono una profonda e costante coerenza. Proviamo ad elencarne alcuni:
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Le regole devono essere chiare e uguali per tutti, ci deve essere la certezza della punizione se si sgarra, così come la fiducia in un riconoscimento se si fa bene il proprio lavoro.
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La conoscenza delle persone deve mettere il dirigente nella condizione di discriminare: se non è in grado di capire che “ci marcia” e a distinguerlo da chi è malato davvero e ha bisogno di un controllore esterno è meglio che faccia un altro mestiere.
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Il dirigente deve per altro prendere atto che gli strumenti per sanzionare e premiare ci sono, si tratta di avere il coraggio di usarli sfruttando al massimo quella autonomia e quella responsabilità che la legge gli affida e che per prassi viene trascurata.
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Ma per far questo dobbiamo scegliere bene i dirigenti: dobbiamo aver chiaro che il grado di conoscenza del diritto amministrativo è meno importante che non la loro attitudine al management o la loro capacità di coaching e di motivazione delle persone.
Purtroppo nella PA si può diventare dirigenti o comandanti senza aver mai studiato come si gestiscono le persone, senza nessun controllo esterno sulla qualità della propria leadership, senza nessuna verifica successiva alla nomina che tenga conto del giudizio dei sottoposti. In Google – eletta quest’anno come l’azienda al mondo in cui è più piacevole lavorare – un dirigente può essere cacciato dal cattivo giudizio (ovviamente controllato) dei propri collaboratori. Nella PA questo giudizio non è nemmeno richiesto.
Nelle aziende migliori c’è un’attenzione maniacale alla valutazione, al riconoscimento del merito, a scovare le eccellenze. I loro capi sanno che le persone sono il loro vero asset che fa la differenza. Nella PA la recente inchiesta sul benessere organizzativo pubblicata da ANAC mette in evidenza giudizi bassissimi dei dipendenti sulla fiducia che vi sia equità nella distribuzione delle responsabilità (voto 2.2 su 7); che le possibilità reali di fare carriera nel mio ente siano legate al merito (2,1 su 7); che il mio ente dà la possibilità di sviluppare capacità e attitudini degli individui in relazione ai requisiti richiesti dai diversi ruoli (2,5 su 7).
Di cosa ci meravigliamo quindi, quando può prevalere questo clima di sfiducia che sfocia nella disperazione (mancanza di speranza), se l’incomprensione genera mostri? Non possiamo e non dobbiamo giustificare i mostri, ma pensare di arginare il fenomeno affidando i controlli medici all’INPS o aumentando le sanzioni è come voler fermare una marea con le mani.
Non sono le regole che ci mancano, ma piuttosto la saggezza e il buon senso.