1° Settembre 2015
Mino Mini
Medioevo e dintorni – 7
SIMMACO E L’ALBA DEL MEDIOEVO
L’articolo di Adriano Scianca comparso sul web per ricordare il giorno dell’Ara della Vittoria, fatta erigere in Senato da Augusto il 28 agosto dell’anno 724 ab Urbe condita (a.U.c. ; 29 a.C.) ed il richiamo al “dibattito teologico-politico” fra Quinto Aurelio Simmaco ed il vescovo Ambrogio, offre il destro per più approfondite considerazioni. Soprattutto in relazione a quanto sta avvenendo nel tempo presente. Per il dispiegarsi della nostra dissertazione occorre far riferimento almeno a questi cinque punti fondamentali:
1. La coincidenza temporale (29 ante era volgare – a.e.v.) fra l’erezione dell’Ara Victoriae e la erezione del Miliarum Aureum a testimonianza della mensuratio totius orbis (misurazione dell’Orbe romano);
2. La Constitutio Antoniniana che traduceva sul piano del diritto positivo il principio dell’uguaglianza degli uomini;
3. La proliferazione dei culti religiosi ospitati a Roma a seguito dell’evocatio e dell’introduzione delle religioni dei popoli divenuti cittadini romani;
4. La raggiunta totalità dell’ecumene e l’esigenza di una totalità di livello superiore;
5. Il rifiuto del mondo in attesa della parusìa da cui l’odio cristiano contro Roma città dei demoni.
Dice giustamente Scianca che la Vittoria aveva a Roma un culto antichissimo, precedente alla fondazione della città. Ebbene non fu un caso che Augusto lo richiamasse nel 29 a.e.v. in coincidenza con la erezione del Miliarum Aureum. Con questi due atti, infatti, procedette a ratificare la terza fondazione di Roma dopo quella di Romolo replicata da Furio Camillo nell’anno 387 ab U.c., ristabilendo la pax deorum. Ci spieghiamo brevemente: la fondazione romulea stabilì l’orientamento cosmico di Roma mediante una croce di fondazione orientata, secundum coelum, sui quattro punti cardinali. Istituì un modus, ovvero una misura basata sul piede romano (29,6 cm), che delimitava un quadrato replicato all’infinito lungo i quattro assi della fondazione. Questo quadrato – la centuria di 2400 piedi di lato – fu l’unità di misura base di cui Augusto si servì per misurare tutto l’Orbe romano secundum naturam ovvero secondo l’orografia del territorio solcato dal sistema stradale romano. Quest’opera grandiosa fu esaltata da Elio Aristide, un greco dell’epoca di Marco Aurelio:
<< Avete misurato tutta la terra, avete gettato dovunque i ponti sui fiumi, costruite le vie nei monti, coperti i deserti di popoli, e tutto nobilitato con l’ordine e la disciplina>>.
L’ordine e la disciplina erano l’organizzazione gerarchica dello Stato, il mos maiorum e lo ius gentium.
Venne Caracalla, l’ultimo degli Antonini, che nel 212 e.v. promulgò la Constitutio Antoniniana con la quale concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Fino ad allora la cittadinanza non veniva concessa a tutti e ancor meno a livello individuale. Ciò è comprensibile se si tien conto che lo stato romano , sin dalla sua primitiva fase di formazione, considerava il cittadino un individuo sovrano, ovvero una totalità; esigeva pertanto, secondo il mos maiorum, che fosse consapevole e responsabile nell’espletamento dei comuni doveri nell’ambito della totalità di livello superiore rappresentata dallo stato. Con lo stesso principio fu realizzato, in una successiva fase di formazione a livello extra-territoriale, lo stato etico come stato federativo di molte città, e, nella fase ancora seguente, di stati sovrani ciascuno con proprie leggi, propria cultura, propri costumi, propri dei, resi complementari rispetto alla legge: lo jus gentium. Uno stato etico che si impose sì al mondo, ma soprattutto si inserì nel mondo irretendo nella propria politica tutti gli altri stati e ponendosi, per converso come stato ecumenico, ovvero stato etico universale. Ne conseguiva che la cittadinanza romana equivaleva alla integrazione ed identificazione con Roma stessa: stesse leggi, stessa cultura, stessa religione statale, stessi diritti e stessi doveri. La Constitutio Antoniniana, invece, estendendo la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, annullava la individualità dei popoli decadendo da un sistema di stati ad un insieme indifferenziato di singoli individui greci,egizi, siriaci o barbari.
Fu il punto di caduta del sistema. Gli uomini, infatti, non sono tutti uguali, né tutti degni nello stesso modo di usare del bene pubblico. Non potevasi pretendere che uomini di cultura e formazione tanto diverse divenissero tutti, in senso paritetico, cittadini del mondo in universale e contemporaneamente, come prescriveva il mos maiorum, individui sovrani per di più consapevoli, per editto imperiale, dei propri doveri. Ne scaturì l’anarchia militare che dall’uccisione di Caracalla nel 217 e.v. si dilatò per 69 anni fino a Diocleziano nel 286 e.v. Potremmo chiamarla la “Sindrome di Caracalla”. E’ il disturbo mentale che affligge, oggi, il mondo moderno con particolare evidenza per quello europeo: l’annullamento della individualità, o identità, dei popoli in un insieme indifferenziato di individui
Siamo giunti al terzo punto: la proliferazione dei culti religiosi. Roma aveva la propria religione che traeva fondamento da una coscienza antropocosmica e si esprimeva non simbolicamente, ma concretamente in riti tendenti a mantenere l’equilibrio cosmico come in illo tempore ,così come prescriveva il mos maiorum. Però nella sua vicenda di conquistatrice aveva portato nell’Urbe – come ospiti – le divinità dei popoli sconfitti che aveva “invitato” con la evocatio. Dopo la Constitutio Antoniniana, però, culti degli imperatori di origine danubiana, siriaca e altro invasero Roma che divenne una sorta di Pantheon delle religioni praticate nell’impero soffocando la religione originaria riesumata da Augusto e di cui la Vittoria nella Curia Julia era una manifestazione. Non apparteneva alla categoria degli “ospiti” il cristianesimo. Non era la religione di uno dei popoli dell’impero e quindi si sentiva estranea a qualunque dettato del pontefice massimo, massima autorità religiosa dell’Urbe, che regolava i culti ivi praticati. Da qui, sin dalle origini, si forma la radice malata dei rapporti conflittuali fra cristianesimo e Roma caratterizzati da disobbedienza civile-religiosa e dalle nove persecuzioni conseguenti che si concludono con Diocleziano.
Siamo giunti al quarto punto: l’esigenza di una totalità di livello superiore. La raggiunta totalità dell’ecumene, svilita – come si è detto – da Caracalla, aveva portato alla esigenza di pervenire a valori assoluti che, per loro natura non erano del mondo relativo che il romano sin dalle origini aveva costruito sottraendolo al caos e dandogli forma rendendolo cosmo. Occorreva superare l’insieme informe di culti che si era venuto formando a Roma ricercando una sintesi superiore. Il mondo pagano più maturo, in particolare quello ellenistico, pervenne alla concezione neoplatonica dell’Uno, principio trascendente da cui deriva il cosmo. Il fondatore fu Ammonio Sacca, ma il suo maggiore esponente fu il suo allievo Plotino nato sotto Settimio Severo, vissuto sotto Caracalla e durante l’anarchia militare fino all’elezione al soglio imperiale di Aureliano. Il cristianesimo, che sin da Paolo di Tarso, si era inserito come un’entità estranea all’interno dell’impero, non si poneva come sintesi superiore, ma come concezione antitetica a quella cosmica discendendo, il mondo, da un Dio creatore morto sulla croce per opera di Roma. In attesa della parusìa, ovvero del ritorno di Cristo alla fine dei tempi – ritenuta imminente – il cristiano poteva affrontare serenamente il martirio per accedere al premio della vita eterna. Un atteggiamento particolarmente esasperato di adesione al credo che portava ad eccessi e alla più rigida intolleranza nei confronti di chi sosteneva religioni diverse. Atteggiamento che ha un nome: fanatismo. Un tale orizzonte della fede spogliava il cristiano della consapevolezza e della responsabilità del cittadino come richiesto dal mos maiorum rendendolo un eversore in potenza. Il protrarsi nel tempo della parusìa fece sì che dalla potenza si passasse all’atto facendo dell’eversione la ragione politica del cristianesimo.
Dal fanatismo intollerante all’odio il passo fu breve. Se ne ebbero le prime avvisaglie nell’oscuro simbolismo dell’Apocalisse di San Giovanni (cap. XVIII) composto a Patmos sul finire dell’impero di Domiziano dopo la prima persecuzione religiosa contro i cristiani. Ma più veementi furono le imprecazioni che alcune sètte cristiane diffondevano sotto forma di carmi chiamati Sibillini. Una forma di pseudoepigrafia per dare autorità alle loro fosche previsioni: Roma deve perire, la sua ricchezza dissolversi, il fuoco invaderla tutta. Il dileggio del cantore erompe feroce: “dove sarà allora il tuo Palladio? Dove saranno allora Giove e tutti gli dèi che tu adoravi? “(VIII, 43-5). E contro gli dèi ascosi nei templi, nelle statue consacrate, ma soprattutto contro gli artisti che li hanno creati, creature importate dal diavolo secondo Tertulliano ( De idolatria, 3), che deve scatenarsi la furia del cristiano. Agli artisti devono essere amputate le mani esecrande (De Idolatria, 7). Siamo nel 212 e.v. e non nel 2015 ai tempi dell’ISIS. E, come il califfato nei tempi nostri, il cristianesimo non ha ancora vinto. Simmaco, ricordato da Scianca come difensore dell’Ara Victoriae, verrà al mondo solo tra 133 anni.
La nascita di Quinto Aurelio Simmaco (345), a cristianesimo trionfante, anticipa di pochi mesi l’editto riportato nel Codice Theodosiano che stabiliva fosse dannato a morte chiunque adorasse templi pagani, chiunque compisse sacrifici agli dei: gladio ultore sternatur (abbattuto dal gladio vendicatore) (Cod. Theod. XVI, tit.10,4). Di poi è tutto un susseguirsi di editti nei quali la morte, le pene maggiori o i più acerbi supplizi vengono minacciati ai sacrificanti (num. 4,6,7,9,12,13,23).
Ricorda Adriano Scianca nel suo articolo che nel 357 e.v. Costanzo II, figlio di Costantino, ordina la rimozione della Vittoria. Per 37 anni si svolge il dramma dell’Ara Victoriae in cui la figura di Aurelio Simmaco si staglia a grande altezza come l’ultimo difensore dello spirito di Roma che fa parlare metaforicamente davanti all’imperatore. <<Questo culto fece cadere il mondo sotto il mio impero, questi riti hanno respinto Annibale dalle mura e i Galli dal Campidoglio>>. Ed è con un antico spirito di tolleranza che nonostante l’offesa subita dalla religione romana continua: << Per gli Dei patrii, per gli dei indigeti, chiediamo la pace. E’ giusto credere in un unico essere, quale che sia. Osserviamo gli stessi astri, ci è comune il cielo, ci circonda il medesimo universo: cosa importa se ciascuno cerca la verità a suo modo? Non c’è una sola strada per raggiungere un mistero così grande>>. Ma mentre perorava con tali accenti la causa della antica religione, nella Gallia san Martino di Tours marciava alla testa dei suoi monaci per distruggere i templi, gli idoli e gli alberi sacri (Sulpicio Severo nei Dialogi III, nn.9 e 10; De Beati Martini vita, nn. 10-14). Ad Alessandria, (ne parla Eunapio il biografo degli ultimi neoplatonici e lo riporta Teodoreto di Ciro nella Historia ecclesiastica,V,22.) il vescovo Teofilo si scagliava con furia selvaggia contro il tempio di Serapide. Lo ridusse un mucchio di rovine, depredò le ricchissime spoglie (vedi caso), distrusse la gloriosa biblioteca di Alessandria, ricca di 200.000 volumi, tutto il patrimonio inestimabile della sapienza ellenica. E la Chiesa , a posteriori, attribuì questo ultimo misfatto ai conquistatori arabi.
E sarà l’alba livida del medioevo che, privo della luce dell’arte, si protrarrà per quasi un millennio.