25 Aprile 2016
Fonte: Alberto Fornaciari, Paolo Baroni http://www.centrosangiorgio.com/piaghe_sociali/comunismo/pagine_articoli/atrocita_partigiane_in_italia.m
postato: 11 febbraio 2012
Pierina Donadelli, Anna Maria Bacchi, Ida Govoni (dei sette fratelli Govoni), Ines Gozzi, Jolanda Pirondi, Dina Parenti, Italina Bocchi Morisi …. e tante altre
sepolte vive: Rosaria Bertacchi Paltrinieri, Jolanda Pignati
Presentazione Ero poco più di un adolescente quando, a metà degli anni ’70, andai a trovare alcuni lontani parenti che vivono ad Intra, una ridente località del novarese che si affaccia sul Lago Maggiore, una zona che fu teatro durante l’ultima guerra di duri scontri tra le truppe nazifasciste e le formazioni partigiane (basti pensare alla celebre repubblica dei quaranta giorni della Val d’Ossola…). Uno di questi parenti, sapendo che venivo da Ferrara, mi chiese – certo di ricevere una risposta affermativa – se ero comunista. Il mio «no», gentile ma fermo, gli spense il sorriso sul volto. Si sarà certamente chiesto come mai un abitante della rossa Ferrara non fosse un «compagno». La sua considerazione di fondo non era poi del tutto sbagliata, se si considera che nella mia città i sindaci comunisti si sono succeduti ininterrottamente dal 1949 ad oggi, e che il Partito Comunista (e ora il PD) è sempre stato il primo partito alle elezioni. Le ragioni di questa mia non-appartenenza non sono di natura prettamente partitica, prova ne è che non ho mai avuto nessuna tessera, né ho mai fatto alcun genere di attività in qualche formazione politica. Semmai esse sono in larga parte di carattere familiare, e più precisamente sono dovute alle parole che ho udito dalla viva voce di mio padre Edmondo. Anche lui, come me, non era mai stato iscritto ad alcun partito, né era mai entrato in politica, pur avendo le sue idee. Dopo l’8 settembre 1943 e il conseguente scioglimento del suo reparto corazzato, mio padre non aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, e nemmeno si era unito ai partigiani che si erano dati alla macchia. Per scampare alla probabile deportazione in Germania e per sfamare i genitori era entrato nel Corpo dei Vigili del Fuoco prestandovi servizio fino all’età della pensione. La sua posizione «neutrale» gli aveva così permesso di essere testimone oculare negli anni 1943-1946 di fatti sanguinosi, come i barbari quanto inutili (da un punto di vista bellico) bombardamenti della città operati dall’aviazione anglo-americana o la rovinosa ritirata dei tedeschi. Ma il ricordo che ancora oggi porto scolpito nella mia memoria è la sua reazione quando si toccava l’argomento «Resistenza». Gli occhi spiritati, il volto rosso acceso, le vene del collo ingrossate, mi raccontava in modo concitato di come – nonostante la sua divisa di pompiere – si era visto in più di un’occasione puntare addosso le armi da persone che, con un’espressione piena di ripugnanza, definiva lazarun (colorita espressione in dialetto ferrarese che sta per «delinquenti», «farabutti»), che autoproclamatisi «liberatori» dettavano a destra e a manca la loro legge: quella del mitra. Mi parlava di come le nostre zone erano state lasciate dagli alleati alla mercé di questi individui, molti dei quali, come diceva lui, erano partigian dal lùni («partigiani del lunedì»), ossia i soliti opportunisti (molti dei quali fino all’anno precedente indossavano la camicia nera…) entrati nella Resistenza il 25 aprile, quando l’ultimo tedesco era annegato nel Po o si era arreso alle truppe di colore che precedettero l’arrivo degli alleati. Mi raccontò dei prelevamenti notturni di ex fascisti dei quali non si seppe più nulla, ma anche di gente per bene che non aveva mai torto un capello ad anima viva, dei processi-farsa, dei «tribunali del popolo», delle scorrerie (soprattutto nelle campagne) e delle brutalità operate da questi prepotenti che con il fazzoletto rosso al collo, la stella rossa nel cappello e al canto di O bella ciao o Bandiera rossa uccidevano, rubavano, stupravano e impazzavano in mezzo ad una popolazione in preda al terrore e all’omertà. Poi, con la voce piena di disgusto, mi narrava come a guerra finita questi assassini, il più scolarizzato dei quali non era andato oltre la terza elementare, grazie al loro passato di «partigiani» e alla loro tessera rosso-sangue, erano stati assunti dall’amministrazione comunale, magari andando ad occupare posti di rilievo e percependo quello che si dice un signor stipendio. E, colmo dei colmi, ogni 25 aprile questi signori hanno ancora il coraggio di andare a sfilare in piazza con tanto di medaglie «al valore» appuntate sul petto, vantando un passato che per molti di loro è solo vergognoso. Questa porzione della nostra Storia è una delle tante zone d’ombra su cui non è ancora stata fatta piena luce e soprattutto non è stata resa giustizia. Anche oggi, nonostante l’Unione Sovietica sia solo un brutto ricordo, e che il comunismo locale sia ormai un fenomeno sempre più allo sbando e in via di estinzione, pochi sono quelli che hanno il coraggio di dire la verità su questi fatti dolorosi smascherando uno dei movimenti più infami che ha insanguinato le nostre terre. Possa la lettura di questo stringato articolo aprire gli occhi a tanti giovani a cui, dopo sessant’anni, non è ancora stata detta la verità storica.
Sono ormai trascorsi cinquant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nell’aprile del 1945, finivano ufficialmente le ostilità in Italia, che ne usciva sconfitta, a causa della congiura di palazzo ordita il 25 luglio del 1943 dai componenti il Gran Consiglio del fascismo e il consequenziale tradimento perpetrato da Pietro Badoglio (1871-1956) nel tragico 8 settembre dello stesso anno. Quest’atto provocò la «rottura» dell’Italia in due parti; una, col governo del Sud, si schierò coi nemici di ieri, gli anglo-americani; l’altra, con la Repubblica Sociale Italiana capeggiata da Benito Mussolini (1883-1945), continuò a combattere a fianco della Germania nazista. I fatti narrati in questo libretto sono strettamente collegati con questi avvenimenti; gli italiani, accecati da odî personali e da sete di vendetta, si schierarono con l’una o con l’altra parte in conflitto. La memoria storica attesta che i venti mesi che vanno dal settembre del 1943 all’aprile 1945 furono tra i più oscuri e sanguinosi dell’intera Storia d’Italia. Gli atti di valore, e anche i delitti più efferati, furono da ambo le parti numerosissimi, e lasciarono un triste strascico che si manifestò anche dopo la fine della guerra fino al 1948, costellato da episodi criminosi che insanguinarono le nostre contrade. Il triste ricordo degli eccidî bestiali perpetrati dalle bande comuniste, nel famigerato «Triangolo della morte» in Emilia-Romagna, richiama alla mente gli orrori della guerra fratricida.
Fu quello il tempo di Caino! I comunisti, che ricevevano ordini da Mosca, volevano «bolscevizzare» e scristianizzare l’Italia, e perseguivano l’obiettivo di accorpare il nostro Paese al blocco sovietico. Decine di migliaia di innocenti, colpevoli solo di aver servito con amore un ideale, di avere ricoperto cariche nel passato regime, o semplicemente di portare la veste talare pagarono spesso con la vita. Purtroppo, tutti quei delitti sono fino ad oggi rimasti impuniti. A cinquant’anni da quelle tristi esperienze, auspichiamo che la perversa spirale degli odî e delle vendette sia spezzata per sempre, e venga finalmente stesa una coltre misericordiosa su quelle vicende che costarono tanti lutti e tanto sangue, con la speranza che gli italiani, in attesa del giudizio infallibile di Dio e della Storia, si ricompattino in un ritrovato clima di concordia, di fratellanza e di pace. Premessa Non sono uno scrittore, non ho velleità e non ho ambizioni di alcun genere; sono solo orgoglioso della libertà che ritengo di possedere e che mi fà parlare di quello che pochi hanno avuto il coraggio di dire sulle terrificanti verità della guerra civile in Italia. Voglio parlare delle vittime, di quelle per le quali non sono state installate lapidi di marmo, non sono stati alzati monumenti alla loro memoria e non sono state dedicate strade, piazze e scuole. Intendo parlare delle vite spezzate dalla ferocia dei partigiani comunisti nella nostra terra emiliana. Dopo l’8 settembre 1943, i comunisti hanno combattuto una loro «guerra privata» con scopi e finalità ben diversi da quelli che avevano animato i partigiani delle altre formazioni antifasciste, applicando, con disumana ferocia, una tecnica della guerra civile che è costata agli italiani e agli stessi antifascisti non comunisti un numero spaventosamente alto di vittime innocenti. Perché ho scritto queste pagine? Non certo per rinfocolare odî e rancori. Sono cattolico credente, cresciuto nell’Azione Cattolica; predico, nel limite delle mie possibilità, il perdono e l’amore. Sono contro tutte le guerre e tutte le violenze, ma credo sia giusto che anche queste vittime siano ricordate; ci sono ancora genitori e figli che piangono i loro cari dei quali era proibito parlare. I giovani non sanno e non hanno visto le barbarie della guerra. Ho parlato con un insegnante di cultura civica; insegna in una scuola professionale ed è dirigente di partito. È nato dopo la guerra, e non conosce, se non in parte, i fatti accaduti in quel periodo doloroso. Non ha avuto materiale per documentarsi; i tanti libri scritti sulla guerra civile sono di parte, distorcono la verità e tacciono su tanti episodi. Visione e interpretazione dei fatti sono solo di ispirazione partigiana. Debbo dare atto al senatore Giorgio Pisanò (1924-1997), che pur essendosi trovato dalla parte che ha perduto, nella sua Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), presenta, elenca e documenta i fatti e i misfatti compiuti da entrambe le parti in lotta; credo sia uno dei pochi, se non l’unico in Italia, ad averlo fatto. A questa sua fatica attingerò in parte per il mio modesto lavoro. Sul mio tavolo ho il libro dell’On. Franca Gorrieri intitolato La resistenza nella bassa modenese; quello di Sara Prati e Giorgio Rinaldi Quando eravamo i ribelli; Il tempo di decidere, di Ilva Vaccari. Dalla lettura di questi testi si ricava che i protagonisti di una parte sono tutti vittime o eroi, mentre gli altri tutti delinquenti e assassini. In Il tempo di decidere della Vaccari, si parla ampiamente dei rapporti tra il clero e la Resistenza e si annotano scrupolosamente anche piccoli particolari di poca importanza, ma non ho trovato neppure un accenno ai sacerdoti modenesi seviziati e uccisi barbaramente dai partigiani comunisti.
Il settimanale diocesano Nostro Tempo, a firma di Casimiro Bettelli, riporta, in occasione del 25 aprile 1983, tre episodi di sacerdoti seviziati e uccisi, fatti veri che ricorderò io pure, ma non specifica il colore della mano assassina, anzi, riportando nel titolo la parola «svastica», lascia credere che sia stata l’opera dei tedeschi, mentre, con questi tre episodi, i tedeschi proprio non hanno nulla a che fare! Da ambo le parti, ci sono state persone oneste, gente che ha agito in buona fede e che si è battuta per un ideale, anche se non buono, ma creduto tale; da ambo le parti, ci sono pure stati delinquenti e assassini della peggior specie, che hanno infierito barbaramente su persone innocenti e indifese. La data del 25 aprile 1945, oggi commemorata come festa nazionale a ricordo dell’avvenuta restaurazione antifascista, comprende in realtà un periodo della nostra Storia che va dal 21 aprile (giorno in cui gli alleati occuparono Bologna) al 5 maggio successivo, allorché si arresero nell’Italia del Nord le ultime formazioni della R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana). Un periodo paurosamente tragico, durante il quale alcune decine di migliaia di italiani, fascisti o presunti tali, caddero massacrati in una terrificante repressione che non ha precedenti nella nostra Storia. Per tutti quanti elevo una preghiera, per le vittime di ogni colore o di nessun colore, nella speranza che per queste il premio eterno non sia mancato. Per gli altri, gli assassini, ripeto o Signore le Tue parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). È bene precisare Prima di ricordare episodi dolorosi, messi sotto silenzio, accaduti in Emilia, di alcuni dei quali ho conosciuto personalmente i protagonisti o parlato con i parenti delle vittime, ritengo opportuno precisare alcuni dati di carattere generale falsati dalla propaganda dei regimi succedutisi dalla fine della guerra; tutte le menzogne e tutte le falsificazioni hanno trovato diritto di cittadinanza. La verità sulla guerra civile in Italia, che gli italiani hanno il diritto di conoscere, comincia ad apparire in parte solo ora, a quarant’anni dalla data dei tragici avvenimenti. Il partigianismo non fu un «movimento di popolo», sorto a contrastare la violenza di un pugno di sanguinari oppressori; va subito detto che i partiti antifascisti non-comunisti manifestarono solo molto di rado la loro presenza attiva, mentre il Partito Comunista fu il vero protagonista. Furono i comunisti a provocare la scintilla che fece esplodere in modo incontenibile la tragedia della guerra civile. Alla R.S.I. aderirono più di 1.200.000 italiani, ai quali bisogna aggiungere tutti coloro che, fuori dal territorio della R.S.I., restarono fedeli dopo l’8 settembre a Mussolini. I partigiani non superavano, invece, anche nei momenti di maggiore sviluppo del movimento, le 100.000 unità; difficile, quindi, considerate le cifre, parlare di un popolo che insorge per quanto riguarda il fenomeno partigiano. I comunisti imposero la loro presenza alle popolazioni usando l’arma del terrore; essi rappresentavano l’80% della forza partigiana; il restante 20% apparteneva a formazioni autonome o di altri partiti. Ogni attentato effettuato dai partigiani contro le truppe tedesche, oltre a non mutare la situazione bellica, e quindi inutile a questo scopo, portava quasi sempre a brutali rappresaglie da parte dei tedeschi; chi ne subiva le conseguenze era la popolazione civile. I tedeschi, ormai in rotta su tutti i fronti, si erano trasformati in barbari e belve, ma non avrebbero fatto nulla senza l’inutile provocazione dei partigiani; quindi, anche i partigiani sono colpevoli, almeno moralmente, degli eccedî compiuti dalle forze militari germaniche. Debbo aggiungere che anche dalle nostre parti i partigiani erano soliti sparare e poi sparire, lasciando la popolazione inerme a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. La strada dei comunismo è lastricata da decine e decine di milioni di cadaveri; anche ora, dove arriva, porta lutti e rovine.
Emilia Romagna: 10.000 massacrati Questo è il sanguinoso bilancio delle giornate che videro la fine della guerra civile in Emilia. Le stragi volute, organizzate ed eseguite da uomini del Partito Comunista portarono a 3.000 i massacrati nel bolognese, 2.000 nel reggiano, 2.000 nel modenese, 1.300 nel ferrarese, 600 nella provincia di Piacenza, 500 in quella di Ravenna, 200 nel forlivese e 600 nel parmense. Mentre in Piemonte e in Lombardia, la strage infuriò per pochi giorni, esaurendosi entro il mese di maggio, e mentre nella Venezia-Giulia la barbara ondata slava durò praticamente quaranta giorni e si arrestò allorché Trieste e Gorizia passarono sotto il controllo anglo-americano, la regione emiliana venne funestata ancora per lunghi mesi da atroci fatti di sangue. Causa principale di questo fenomeno fu la presenza, nella regione, di centinaia di vecchi esponenti comunisti. Con l’arrivo degli americani a Bologna, gli enti locali, i sindacati, le cooperative, gli organi di polizia, tutto passò nelle mani di uomini di fiducia del Partito Comunista. La conseguenza fu che il terrore, di pretta marca bolscevica, si abbatté sulle popolazioni. Antichi rancori, vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un’atroce, incredibile e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome. Nel modenese ebbe il suo epicentro nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto nel bolognese. «Nella provincia di Modena, i partigiani comunisti, arrestati e processati per omicidi e reati comuni, furono più di seicento. Molti furono condannati e finirono in galera. Moltissimi ripararono a Praga, tramite l’ufficio espatri clandestini della federazione comunista modenese» 2. Da non dimenticare Voglio iniziare con il racconto del sacrificio di alcuni sacerdoti. Va detto che le gerarchie ecclesiastiche, prese tra due fuochi, si astennero dallo schierarsi ufficialmente con l’una o l’altra delle parti in lotta; così, la mancanza di precise direttive costrinse ogni sacerdote a decidere autonomamente. Assommano a sessantasei i sacerdoti uccisi dai tedeschi e dai fascisti, mentre quelli eliminati dai partigiani sono novantatre, durante e dopo la guerra fratricida. Nel modenese, abbiamo la splendida figura di don Elio Monari (1913-1944), fucilato dalla polizia speciale fascista del Maggiore Mario Carità (1904-1945). Io ho conosciuto molto bene questo sacerdote; fu lui ad indirizzarmi verso l’Azione Cattolica. Fu il mio primo direttore spirituale e fui legato a lui da profondo affetto. Non discuto la sua scelta; posso solo dire che la sua unica arma fu la corona del rosario, e questo mi basta! Su don Elio Monari è stato scritto molto; scuole e strade portano il suo nome. Gli è stata conferita anche una medaglia d’oro. Nel modenese persero la vita altri sacerdoti; la mano assassina aveva altro colore. Non mi risulta che a queste vittime, colpevoli soltanto di essere fedeli servitori del Crocefisso, siano state scolpite lastre di marmo.
Sacerdoti seviziati e trucidati Nei tristi mesi che precedettero e seguirono la liberazione, vari sacerdoti della nostra diocesi pagarono con il sacrificio della vita l’assurdità di una situazione dove l’odio dava la mano al tradimento e l’omertà alla paura. Così muoiono i preti, i ministri di Dio. Come il parroco di Crocette, un’assolata frazione di un migliaio di anime, a 3,5 km da Pavullo (Modena). A Crocette, don Luigi Lenzini, sessantenne, c’era da molto tempo e lo consideravano tutti per la sua parola decisa e il suo dire pane al pane e vino al vino. Tipo chiaro e nodoso, come certi quercioli che non piegano a nessun vento. Tardissimo – saranno state le 2,00 dopo mezzanotte – sentì bussare alla porta e andò alla finestra in camicia da notte. Gli dissero di scendere che avevano bisogno. Voci sconosciute e indistinte. Si scusò di non poter scendere per la vecchiaia e l’ora tardissima. Ma quelli non si diedero per vinti. Dopo aver insistito invano, si buttarono contro la porta della canonica; poi sfondarono una finestra ed entrarono. Quanti erano? Due o tre? Don Lenzini, che aveva intuito subito tutto, cercò di sgusciare per la canonica nella chiesa e si appiattì dietro l’altare maggiore. Ma qualcuno era pratico di tutto. Lo presero. «Lasciate almeno che mi vada a vestire». Niente! Lo trascinarono via com’era, in camicia. Il venerando sacerdote si raccomandava e qualcuno pare abbia udito i suoi lamenti nella notte. Fuori era caldo. Si allontanarono dal paese e lo spinsero a calci e urtoni in una vigna vicina. Lì lo sottoposero a torture che qui non abbiamo il coraggio di descrivere: il pudore ce lo impedisce. Poi gli levarono gli occhi e lo seppellirono, dopo averlo strangolato. Nella tragica vigna si vedeva una testa che emergeva dal terriccio smosso. Qualche giorno dopo se ne accorsero tutti e alcune persone pietose gli diedero sepoltura. – Il canonico don Giuseppe Guicciardi era parroco sull’Appennino, a Mocogno (Modena), un paesetto a 2,5 km da Lama, a 800 metri sul livello del mare. Questo fatto capitò precisamente il 10 giugno 1945. Fu una sera. Il parroco andò ad aprire ad alcuni tizi, i quali, entrati, gli chiesero da mangiare, dicendo di essere affamati. Mise loro davanti quel che aveva in casa. Poi, quelli, mangiato che ebbero, chiesero vestiti, coperte e soldi; volevano anche un grammofono. E poiché il prete tergiversava, andarono di là nello studio e presero quei soldi che trovarono, il poco denaro della fabbriceria destinato ad un «ufficio». Rovistarono da ogni parte e portarono via quello che faceva loro comodo, anche la biancheria personale del parroco. Parevano sazi, ormai, e stavano per andarsene. Si avviarono all’uscio e il parroco già ne ringraziava Dio nel suo cuore, quando uno di loro, voltandosi improvvisamente, come per salutare, gli scaricò addosso una pistola, così a freddo. Il vecchio sacerdote cadde bocconi e non si mosse più. Uno di loro, sbattendo l’uscio, disse un po’ eccitato: «Perché l’hai fatto? Ce n’era proprio bisogno»? Ma l’assassino rispose: «I preti bisogna ucciderli tutti: uno alla volta; ma bisogna toglierli di mezzo»! E si perdettero nel buio con la refurtiva. La canonica di Mocogno è un po’ lontana dall’abitato centrale. La gente si accorse dell’efferato delitto solo la mattina dopo, perché la Messa non suonava come al solito. Fra le carte del santo parroco fu trovato una specie di diario in cui egli aveva offerto la propria vita al Papa, durante i tragici mesi del fronte, per la salvezza dei peccatori e la fine della guerra. Il suo assassino fu pescato, un giorno, mentre passava per strada. Individuato, i carabinieri lo inseguirono. Cercò prima di fuggire, poi tentò di liberarsene sparando su di loro, ma fu freddato prima che ne avesse il tempo. Indosso aveva ancora la camicia del povero parroco massacrato quella notte del 10 giugno!
Altri omicidi – Anna Maria Bacchi, di ventisei anni, laureanda in medicina, assassinata dai partigiani comunisti il 6 aprile 1945. Anna non si era mai interessata di politica, benché suo fratello Gianfranco fosse divenuto ufficiale della Guardia Nazionale Repubblichina. La mattina del 5 aprile, la giovane donna venne avvicinata da tre individui, i quali la informarono che suo fratello, gravemente ferito in uno scontro con i partigiani, era degente all’ospedale di Modena e desiderava parlarle. Anna Maria Bacchi non dubitò un momento della veridicità della comunicazione e seguì i tre individui. Da quel momento scomparve. Il suo cadavere venne ritrovato solo due anni dopo in un campo, a Villa Freto di Modena. Le indagini svolte dai carabinieri portarono all’identificazione dei tre assassini, gli ex partigiani comunisti Cesare Cavalcanti, Enzo Leonardi e Giancarlo Zagni, detto «Luigi». Questi sostenne di avere ricevuto l’ordine di esecuzione dai suoi capi. Ma venne condannato a ventiquattro anni di reclusione. Le donne fasciste – o presunte tali – trucidate dai partigiani nel modenese, furono complessivamente oltre un centinaio. Tra le uccise vi furono, il 27 aprile, Rosaria Bertacchi Paltrinieri, segretaria del fascio femminile repubblicano, e la fascista Jolanda Pignati. Prelevate nelle loro abitazioni, la Bertacchi Paltrinieri e la Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli e quindi condotte vicino al cimitero: là furono sepolte vive.
– Italina Bocchi Morisi, di sessant’anni, era madre del Dr. Francesco Bocchi, vice-federale repubblichino di Modena. La sera del 16 marzo 1945, Italina si avviò, come era solita fare, incontro al figlio che rincasava. Ma una pattuglia di «gappisti» 3, già da tempo in agguato, aprì il fuoco contro il Dr. Bocchi fulminandolo sotto gli occhi della madre. Italina Bocchi si gettò urlando sul corpo del figlio e i «gappisti», allora, uccisero anche lei. Le salme di Italina Bocchi e di suo figlio restarono abbandonate per la strada fino al mattino seguente. – Jolanda Pirondi, diciotto anni, di Carpi (Modena). Prelevata e uccisa dai partigiani comunisti il 30 marzo 1945. Jolanda era assolutamente aliena da ogni attività politica. Un partigiano comunista da lei respinto, si vendicò accusandola di essere una «spia». Jolanda Pirondi venne così prelevata da un gruppo di partigiani, trascinata in un campo nei pressi di Gargallo, violentata e uccisa con un colpo alla nuca. I suoi uccisori, identificati a guerra finita, furono processati, ma assolti per avere compiuto un’«azione di guerra» (?!). – Abitavo a Saliceto Panaro, così ho conosciuto Simoni Aldo, quarantanove anni, ucciso dai partigiani il 21 maggio 1946. Essendo un uomo onesto, con dieci figli da sfamare, fu assunto come casellante-guardiano del passaggio a livello delle ferrovie dello Stato su via Montanara. Abitavo a poche centinaia di metri dalla piccola casetta sulla ferrovia abitata da quella numerosa famiglia; ho giocato con i figli di quest’uomo che non ha mai fatto male ad alcuno. Dal fascismo aveva ricevuto solo del bene; per questo era fascista, quanto bastò perché fosse prelevato da due partigiani armati e condotto verso il fiume Panaro. Durante il tragitto, un acquazzone fermò il gruppo in cammino. Ricordo che entrarono nel cortile di casa mia e si fermarono sotto il porticato della stalla. Cessato il temporale, ripresero il cammino che terminò al fiume con la morte del Simoni. Uno dei figli, di pochi anni di età, seguì a distanza il gruppo che portava alla fucilazione il padre e fu testimone impotente di tanta atrocità.
– Era un bravo veterinario; è entrato molte volte in casa mia. Amico di mio padre, veniva chiamato ogni qualvolta una mucca, nella stalla del contadino, partoriva il vitello. Svolto il suo lavoro, beveva un bicchiere di quello buono e ripartiva. In zona era conosciuto e stimato da tutti. Il 9 gennaio 1945, a San Damaso, un paesino a pochi chilometri da Modena, fu la volta dell’intera famiglia Pallotti, composta da Carlo Pallotti, veterinario, dalla moglie Maria e dai figli Luciano, di quattordici anni, e Maria Luisa, di dodici. Su questo tragico episodio ecco quanto ha scritto, sul settimanale Candido, del 30 maggio 1956, il giornalista Antonio De Carlo, già ufficiale in servizio permanente effettivo e addetto, dopo l’8 settembre, ai «servizi speciali» del Governo del Re, operanti nel territorio modenese agli ordini del Colonnello Duca: «Erano circa le 19,00 e la campagna del modenese, quella sera, era avvolta da una nebbia fittissima. Il contadino Fernando Vaschieri era intento a puntellare la porta della sua casa con un paio di paletti. Aveva salutato da poco il Dr. Pallotti, un veterinario di Modena, che, proprio quel mattino, era andato ad abitare al piano di sopra. Vaschieri stava quindi per chiudere l’uscio, allorché dovette alzare le mani, minacciato dai mitra di alcuni individui, sbucati dalla nebbia. Questi individui si avvicinarono sempre più ed entrarono in casa; i loro volti avevano quel beffardo sorriso di chi protegge la propria vigliaccheria puntando un’arma da fuoco contro un inerme. “Siamo partigiani – dissero – e abbiamo l’ordine di portare al nostro comando il Dr. Pallotti”. Vaschieri fu spinto in un angolo, accanto ai suoi familiari, ammutoliti dal terrore. I partigiani salirono al piano superiore dove abitava la famiglia del Dr. Carlo Pallotti. Questi aveva ottenuto due anguste stanzette, perché il giorno precedente era stato costretto ad abbandonare la villetta, dov’era sfollato, in seguito al tentativo di una squadra di “gappisti” di sfondare la porta. In quella occasione, i partigiani comunisti avevano preso a sparare sulle finestre e la bimba del dottore, Maria Luisa, di dodici anni, s’era messa a letto, spaventatissima, con una febbre da cavallo. L’altro figliolo, Luciano, s’era dimostrato più coraggioso, ma dopo aver chiamato in segreto il babbo, gli disse che aveva molta paura e che, per il bene di tutti, sarebbe stato meglio trasferirsi altrove. Il veterinario allora aveva chiesto provvisoriamente a Vaschieri quelle due stanzette. Salendo una scaletta, i tre armati raggiunsero lestamente il piano superiore. Vaschieri intese il grido di una bambina e il pianto disperato di un ragazzo. E poi ancora un grido di donna; vi fu un tramestio, come di seggiole violentemente sbattute e un tizio, rimasto di guardia alla porta, ad un tratto corse di sopra. Si udì allora un ordine secco seguito da alcune raffiche di mitra.
Poi, più nulla. Carlo Pallotti, sua moglie e i due bambini, giacevano riversi sul pavimento di mattoni, unendo i loro rivoli di sangue. Uno degli sparatori si chinò sul corpo crivellato del veterinario: era ancora caldo di vita; il sangue seguitava a uscire a fiotti dalla gola, e c’era pericolo che la bella giubba di pelle indossata dal morente si sporcasse. Allora Carlo Pallotti fu spogliato e il suo carnefice si rimirò con soddisfazione in uno specchio pendente da una parete. Alla signora Maria furono tolti gli orecchini, l’orologio da polso e le fedi. A Maria Luisa venne strappata una medaglietta della Madonna. Così terminò l'”azione di guerra”! I “giustizieri” ridiscesero le scale, diedero una voce a Vaschieri e scaricarono ancora i mitra contro una parete urlandogli: “Non ti muovere fino all’alba. Stattene tranquillo perché hai visto cosa succede ai nostri nemici”. Fernando Vaschieri si strinse presso i suoi familiari, inebetito, incapace di comprendere ciò che era successo. La fiamma di una candela fissata su di una bottiglia cominciò a sussultare perché la cera s’era tutta consumata. Il contadino ebbe terrore di rimanere al buio; si mosse, cercò una nuova candela, la accese e si rimise al solito cantuccio. Su una mensoletta una sveglia scandiva gli attimi interminabili di angoscia. Ma ad un tratto, Vaschieri avvertì un lamento: era una voce fioca che proveniva dal piano di sopra. Non c’erano dubbi: era la voce di Maria Luisa. Si trattava di un pianto sommesso, rotto a tratti da un’invocazione straziante: “Papà, mamma, perché non rispondete? Anche voi avete tanto male? E allora perché non vieni tu, Gesù, ad aiutarmi”? Vaschieri guardò l’orologio sulla parete. Era trascorsa appena un’ora dalla strage. La bimba di sopra chiamava; la sua voce era sempre più fioca: “Gesù, perché non vieni”? C’era da accorrere presso la bimba. Ma il contadino Fernando Vaschieri non aveva un cuore di leone e non volle disobbedire agli ordini dei carnefici. Non ebbe nemmeno il coraggio di affrontare il pericolo del coprifuoco per correre poco distante, chiamare aiuto e cercare un medico per la povera Maria Luisa: “Tanto è destinata a morire”, si scusò con sé stesso. E non si scosse nemmeno quando, all’alba, la piccina cessò di invocare Gesù». A guerra finita, i massacratori della famiglia Pallotti vennero identificati dalla polizia, e il 31 marzo 1949 il Prefetto di Modena indirizzò al Ministero degli Interni un dispaccio che terminava come segue: «L’orrendo crimine, per la qualità delle vittime e l’efferatezza con cui fu consumato, destò unanime raccapriccio e nulla fu lasciato intentato, sebbene senza risultato, per addivenire scoperti i suoi autori. D’ordine del Questore Marzano, indagini sono state riprese e condotte senza interruzione giorno e notte con massimo impegno e hanno portato a scoperta e arresto autori delitto. Hanno partecipato strage: Reggianini Michele, di anni ventotto; Maletti Dante, di anni ventinove; Sarnesi Savino, di anni ventitre; Benassi Ennio, di anni ventitre; Costantini Giuseppe, di anni quarantuno; Menabue Gerardo, di anni trentacinque, e altri due non ancora identificati facenti parte squadre S.A.P. e G.A.P.». I partigiani arrestati confessarono la strage. Sottoposti a diversi processi, solo il Reggianini e il Costantini vennero condannati rispettivamente a trenta e a sedici anni di carcere. Gli altri imputati furono assolti per aver agito in base agli ordini superiori e perché il fatto costituiva un’«azione di guerra» (?!). La tragedia della provincia di Modena non terminò con l’arrivo delle truppe anglo-americane. Per mesi interi, squadre di terroristi rossi seminarono ovunque la morte, macchiandosi di centinaia di delitti. Desidero terminare questo triste racconto con la dolorosa storia dell’eccidio della famiglia Govoni, abitante a Pieve di Cento, grosso borgo ai confini con la provincia di Ferrara. Sette fratelli seviziati e uccisi dai partigiani. Tutti abbiamo sentito parlare dei sette fratelli Cervi, partigiani uccisi dai fascisti, dopo essere stati catturati con le armi in pugno. Il Presidente Sandro Pertini (1896-1990) 4 si è recato più volte ad onorare questi caduti e a confortare i parenti, ma dei sette fratelli Govoni dove trovare un accenno? Pochi chilometri dividono le località delle due stragi. Sarebbe stato bello vedere il Presidente, che si diceva di tutti gli italiani, dopo Reggio, arrivare anche a Pieve di Cento, perché anche i nomi di questi martiri hanno diritto di essere ricordati 5. I sette fratelli Govoni La famiglia Govoni, di antico ceppo contadino, era una delle più numerose di Pieve di Cento, un grosso borgo quasi al confine con la provincia Dopo Dino veniva Marino, di tretatre anni. Era coniugato dal 1937 e aveva una figlia. Combattente d’Africa, aveva aderito dopo l’8 settembre alla R.S.I. Contro di lui non pendevano accuse di sorta. Terzogenita una donna, Maria, nata nel 1912. Fu l’unica a salvarsi degli otto fratelli perché, dopo sposata, si era trasferita con il marito ad Argelato, e i partigiani non riuscirono a rintracciarla. Veniva poi Emo, di anni trentadue, un artigiano falegname che non aveva aderito alla R.S.I. e che non si era mai mosso dal paese. Viveva in casa con i genitori. Il quintogenito, Giuseppe, di anni trenta, era coniugato da poco tempo, faceva il contadino e abitava nella casa paterna. Nemmeno lui era iscritto al Partito Fascista repubblichino. Quando lo uccisero, era diventato padre da tre mesi. Il sesto e il settimo dei fratelli Govoni erano Augusto, di ventisette anni, e Primo, di ventidue anni, ambedue ancora celibi, contadini, e vivevano con i genitori. Non si erano mai interessati di politica. L’ultima nata si chiamava Ida, e aveva vent’ anni. Si era sposata da un anno ed era diventata mamma solo da due mesi. Abitava ad Argelato. Né lei né suo marito avevano aderito alla R.S.I.. Va precisato che la strage dei sette fratelli Govoni e dei loro compagni di sventura non fu provocata solamente da un’esplosione di pazza criminalità, o da un odio furibondo accumulato da alcuni partigiani nei mesi della lotta fratricida, ma fu la conseguenza di un piano freddamente e cinicamente attuato in base alle direttive emanate dal Partito Comunista con lo scopo di seminare dovunque il terrore per giungere più facilmente al controllo totale della situazione.
«Drago», «Zampo», «Ultimo» e i loro partigiani non furono che gli esecutori di queste direttive che insegnavano, tra l’altro, come il terrore lo si semini maggiormente con i fulminei prelevamenti, le silenziose soppressioni, il segreto assoluto sulla sorte toccata alle vittime e sul luogo della loro sepoltura. Il mistero alimenta il terrore. Al tramonto del 10 maggio 1945, iniziarono i prelevamenti dei fratelli Govoni. Tutta la popolazione della zona era già talmente in preda al terrore, che i partigiani avrebbero potuto ammazzare chiunque e seppellirlo in pieno giorno con la sicurezza assoluta che nessuno avrebbe osato denunciarli. La strage dei sette fratelli Govoni venne preceduta da molti massacri; nessuno però ne parlava, anche se tutti sapevano. Il massacro dell’11 maggio, nel quale trovarono la morte anche i sette fratelli Govoni, venne preceduto, quarantott’ore prima, da un altro massacro in cui trovarono la morte dodici innocenti nei pressi di Argelato. È indubbio che la strage dei dodici costituì il preludio al massacro dei sette fratelli Govoni e degli altri dieci che ne divisero la sorte. Era giorno fatto quando il breve convoglio ripartì per Argelato con il suo carico di prigionieri. Ida Govoni cominciò a pregare che la lasciassero tornare a casa, dalla sua creatura. Non le risposero neppure. Verso le 8,00, i due automezzi raggiunsero il podere di Emilio Grazia, dove già si trovava prigioniero Marino Govoni. In un grande camerone adibito a magazzino, cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani: pugni, calci e colpi di bastone. Verso le 11,00 del mattino, un fulmineo prelevamento di altre dieci vittime, tutte di San Giorgio di Piano. Non è possibile riferire tutto ciò che accadde in quelle ore; basti dire che nessuna delle vittime morì per arma da fuoco. Le urla strazianti dei diciassette morituri risuonarono per molte ore. I partigiani della «Brigata Paolo» infierirono con una crudeltà e un sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero. Anche Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina. Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati. Quando le urla si spensero erano le 23,00 dell’11 maggio. Ebbe luogo, quindi – prosegue il testo della sentenza – la ripartizione degli oggetti d’oro in possesso dei prelevati. Per anni interi, sfidando le raffiche dei mitra degli assassini, sempre padroni della situazione, solo i familiari delle vittime cercarono disperatamente di fare luce su quanto era accaduto, nella speranza di poter almeno rintracciare i resti dei loro cari, primi fra tutti, la madre e il padre dei sette fratelli Govoni.
Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma inutile. Nessuno volle parlare, nessuno volle aiutarli; molti li cacciarono via in malo modo, coprendoli d’insulti. Ci fu anche chi osò alzare la mano su quella povera vecchia che cercava solo le ossa dei suoi sette figli. A Cesare e Caterina Govoni, sopravvissuti al più inumano dei dolori, lo Stato italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per i figli perduti, una pensione di 7.000 lire mensili: 1.000 lire per ogni figlio assassinato! 6. Volantini di questo tenore (vedi sotto), ispirati ad un violento anticlericalismo, vennero messi in circolazione nei primi mesi della guerra civile da gruppi comunisti: «Prete, tu con la scusa della tua fede hai vissuto alle spalle dei gonzi e creduloni. La volontà del popolo schiaccerà il mito dei falsi. Per un solo dio: il proletariato. Il Comitato Esecutivo». Mio cugino Arrigo Il Dr. Arrigo Muzzioli, laureato con il massimo dei voti, aveva trovato lavoro presso la ditta Ghisetti-Cancarini, produzione e lavorazione frutta, in via Canaletto, Modena; era addetto al personale. Il Dr. Arrigo era la rettitudine e l’onestà personificata; non si era mai prestato a trucchi o menzogne per coprire chi non faceva il proprio dovere come lavoratore. L’odio contro i «servi dei padroni», del quale era impregnata l’aria di quel tempo, troncò la sua vita a ventisei anni sulla porta di casa, in viale Moreali. Un colpo di arma da fuoco lo raggiunse la sera del 7 febbraio 1946. Non si era mai interessato di politica. Sacerdoti martiri nell‘oblio Desidero qui ricordare con venerazione e affetto i sacerdoti che durante la guerra civile in Italia (1943-1945), immolarono la vita per restare fedeli alla loro missione di apostoli di Cristo. Voglio ricordare quelli rimasti vittime della ferocia dei nemici della fede e della Patria, i partigiani comunisti. Così li definisce un volantino fatto stampare dai cattolici modenesi presso la tipografia Azzi di Pavullo l’8 agosto 1965 Ho raccolto e posto qui in elenco novantaquattro nomi, ma certo i sacerdoti uccisi da componenti le bande partigiane, o presunti tali, sono molti di più. Comunque, per questi che io riporto, c’è stato il silenzio assoluto! I giovani non debbono sapere; verrebbe demolita l’epopea costruita in questi anni intorno al movimento partigiano. A Modena, il 19 agosto 1984, si è ricordato, a Crocette di Pavullo, in occasione della festa della Madonna Assunta, patrona della parrocchia, don Luigi Lenzini, parroco della medesima, seviziato barbaramente e ucciso dai partigiani; ma nessuna autorità, né religiosa né civile, ha presenziato al rito. La stampa, compresa quella cattolica, non ne ha fatto cenno; silenzio assoluto anche dal settimanale diocesano Nostro Tempo…
Conclusione I giovani imparino a trarre lezione dalla Storia e ascoltino Colui che ha offerto la propria vita su di una Croce; imparino ad amarsi e sulla terra regnerà la pace. APPENDICE I Il primo aprile di quell’anno, Pasqua di resurrezione, don Olinto Marzocchini è già rientrato a San Valentino e al suo fianco è rimasto il giovane curato. Durante la Settimana Santa, Rolando ha partecipato alle celebrazioni liturgiche con grande entusiasmo. E giovedì, davanti all’altare dell’Eucarestia, ornato di fiori e di ceri accesi, ha pregato: «Grazie, Gesù, perché ci hai donato Te stesso nell’Ostia santa e rimani sempre con noi… Aiutami a ritornare presto in seminario e a diventare sacerdote». Il venerdì, baciando il Crocifisso, ha ripetuto l’offerta al suo grande Amico: «Tutta la mia vita per Te, o Gesù, per amarTi e farTi amare». Il giorno di Pasqua, durante le Messe, Rolando suona l’organo accompagnando i canti. Riceve Gesù nella Comunione. In sacrestia, il parroco gli dice: «Sei stato bravo, Rolando! Per tutti i servizi fatti nella Settimana Santa, accetta questo piccolo dono… E che il Signore ti benedica», e gli mette in mano una piccola somma. Si sente nell’aria qualcosa di nuovo. C’è ancora la guerra, ma tutti sentono che volge alla fine. Nei giorni successivi, Rolando non manca mai alla Messa e alla Comunione. Poi, tornato a casa, esce con un libro sotto braccio e va a studiare presso un boschetto non lontano dalla sua abitazione. Il 10 aprile, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto, è già in chiesa: si celebra la Messa cantata in onore di San Víncenzo Ferreri, che non si è potuta celebrare il 5 aprile, giorno anniversario, essendo l’ottava di Pasqua. Suona e accompagna all’organo i cantori, tra i quali c’è anche il papà. Si accosta alla Comunione e si raccoglie in preghiera a ringraziare il Signore. Prima di uscire, prende accordi con i cantori, per «cantare Messa» anche l’indomani. Torna a casa. I suoi genitori vanno a lavorare nel campi. Rolando, con i libri sottobraccio, si reca come al solito a studiare nel boschetto a pochi passi da casa. Indossa, come sempre, la sua veste nera. A mezzogiorno, non vedendolo ritornare, i genitori lo vanno a cercare. Tra i libri, sull’erba, trovano un biglietto: «Non cercatelo. Viene un momento con noi, partigiani». Il papà e il curato di San Valentino, in forte ansia, cominciano a girare nei dintorni alla ricerca del ragazzo. Cosa sarà mai capitato?… Alcuni partigiani comunisti lo hanno portato nella loro «base». Rolando capisce con chi si trova. Quelli lo spogliano della veste talare, che li irrita troppo. Ora hanno davanti a loro un povero ragazzo di quattordici anni, tremante, vestito poveramente, come Gesù nel pretorio di Pilato. Alle loro beffe, Rolando risponde: «Sono un ragazzo, si, un seminarista… e non ho fatto nulla di male». Quelli lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Così era stato fatto, un giorno lontano, a Gesù. Rolando, innocente, prega nel suo cuore e chiede pietà. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare, perché è soltanto un ragazzo. Ma altri si rifiutano: prevale l’odio al prete, all’abito che lo rappresenta. Decidono di ucciderlo. Lo portano in un bosco presso Piane di Monchio (Modena). Davanti alla fossa già scavata, Rolando comprende tutto. Singhiozzando implora di essere risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice: «Voglio pregare per la mia mamma e per il mio papà». Si inginocchia sull’orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra, nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per Gesù, perdutamente amato… Poi la fine. Quelli lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare; poi sarà appesa, come trofeo di guerra, sotto il porticato di una casa vicina 7. Era il 13 aprile 1945, ricorrenza del giovane martire Sant’Ermenegildo, venerdì, come quando Gesù si immolò sulla croce. Rolando aveva quattordici anni e tre mesi. In quell’istante il cielo si apri e Gesù accolse nella sua gloria Rolando Maria Rivi, piccolo angelo, martire della fede. Con la vita, con la parola e perfino con il suo sangue aveva proclamato: «Quanto ho di più caro al mondo è Cristo: Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui»! APPENDICE II LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI La seguente lettera 8 è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.
E per concludere, ecco un volantino distribuito dal Partito Comunista alla vigilia del referendum monarchia-repubblica del 2-3 giugno 1946. Notare l’ipocrisia e la falsità di chi, pur avendo ancora le mani lorde del sangue di tanti sacerdoti uccisi in odio alla fede, rinnegava per motivi tattici l’ateismo, uno dei capisaldi della dottrina marxista-leninista. E d’altronde, per i comunisti anche la menzogna è lecita, purché utile al partito!
Note 1 Articolo a puntate intitolato 1943-1946: Gli anni dell’odio. Le atrocità partigiane in Italia, estratto dalla rivista Chiesa Viva (nn. 159, 160, 161, 162, 163 e 164, del 1986). 3 I cosiddetti «G.A.P.» (Gruppi Armati Proletari) erano bande terroristiche comuniste del tutto simili – sia nei metodi d’azione che alla formazione politica – alle famigerate Brigate Rosse degli anni ’70 e dei nostri giorni. I loro attentati e le loro efferate azioni avevano lo scopo preciso di guastare i rapporti tra la popolazione civile e le truppe tedesche. Inducendo queste ultime a terribili rappresaglie contro i civili, tali attentati spingevano le truppe germaniche a vedere in ogni italiano un possibile partigiano. Ma il fine ultimo delle uccisioni mirate era quello di eliminare i potenziali avversari che nell’immediato dopoguerra avrebbero potuto costituire un ostacolo all’instaurazione del bolscevismo di stampo sovietico in terra italiana. 4 Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini fu personaggio assai popolare e amato dagli italiani, anche se ben pochi sanno che il giovane socialista trovò parole di piena legittimità per l’assassinio di Mussolini trattandosi – disse – di un «tirannicidio». Peccato che nel caso di Stalin, invece, nel discorso ufficiale in occasione della morte del feroce dittatore sovietico in Senato egli invece disse che «Giuseppe Stalin è un gigante della Storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Sempre Pertini si attorniava di uomini a lui fidati quali, ad esempio, Giuseppe Marozin, delinquente comune nonché assassino tanto che, lo stesso quotidiano del P.C.I. L’Unità raccontò alcune bestiali azioni del braccio destro di Pertini. Una di queste fu, su preciso ordine di Pertini stesso, la spietata fucilazione degli attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti; sempre Pertini ebbe a dire qualche tempo più tardi, nel gennaio del 1948 in un discorso in Parlamento, che «i fascisti massacrati non erano stati abbastanza». La sua sete di sangue lo spinse addirittura ad ordinare l’eliminazione del Maresciallo Rodolfo Graziani e a chiedere pubblicamente la fucilazione di Umberto di Savoia: «Presidente di tutti gli italiani» lo chiamarono qualche anno dopo. Addirittura Pietro Nenni, compagno socialista di questo presidente, lo definì «un violento». 5 Come sarebbe stato giusto che, tra i suoi tanti viaggi per l’Italia, il Presidente Pertini avesse trovato il tempo per fare una visita alle foibe istriane e carsiche. In quelle voragini ci sono i corpi di 12.000 italiani uccisi dai comunisti di Tito. 6 Cfr. G. Pisanò, I giorni della strage. 7 Cfr. «A quarantacinque anni dall’uccisione del seminarista Rolando Rivi», in La Voce del Seminario, Modena 1990, gennaio-febbraio-marzo, pag. 38. 8 Questo testo è stato estratto da un volantino fatto ristampare a Pavullo (Modena) l’8 agosto 1965. |