11 Settembre 2016
Fonte: Alessandro Clementi, Aracne Editrice
A. Clementi: 340 0980369
Un ennesimo contributo alla acritica e meramente emozionale partecipazione alla xenofilia alla moda? Animi che esprimono amore per l’uomo in disgrazia che viene da lontano e rimangono ciechi e sordi e muti per l’uomo in disgrazie che ti vive accanto o che incroci per la strada, anche tutti i giorni? Animi per i quali chi è parte del tuo popolo ti risulta invece estraneo? Non pare proprio, non pare proprio, per fortuna. Come pone in risalto Dante Maffia, in riferimento ai vibranti versi delle due autrici: l’esperienza del dolore si slarga in una comprensione e partecipazione corale, al di là dello spazio; in un afflato in cui i tempi risultano tutti contemporanei agli animi. Spazio e tempi in cui nessuna tragedia umana rimane dietro la porta, esclusa. – D.C.
Poesia: Daniela Fabrizi, Anna Manna
MIGRANTI a passi nudi, a cuori scalzi
Prefazione Dante Maffia
Introduzione Lorenzo Spurio
Saluto Jole Chessa Olivares
ARACNE EDITORE, settembre 2016
Il libro contiene commenti critici di Sandro Gros-Pietro, Ruggero Marino, Antonella Pagano, Luigi Tallarico, per” L’Esodo ” di Anna Manna e commenti critici di Dante Maffia, Giuseppe Mannino, Giovanni Pistoia per ” L’Esilio ” di Daniela Fabrizi .
“Quando la poesia bussa non si pone domande, non conosce risposte, non propone soluzioni. S’attarda in quel limite tremendo tra la vita e la morte, lo rende infinito : non è la soluzione che il poeta è capace di proporre. E’ umilmente, semplicemente, l’incontro tra il dolore e chi lo può in qualche modo raccontare. Emigrare dalla propria terra, dalla storia che ti ha costruito, significa migrare da se stessi. Anche il poeta emigra dalle proprie emozioni e approda nelle emozioni dell’alter. Un alter che non è un alieno però, ma un nostro simile, un appartenente alla grande famiglia umana. Che troppo spesso perde nei viaggi, in qualunque viaggio reale o metaforico, la dimensione dell’umanità e naufraga nell’apocalisse dei sentimenti che prova e che suscita.
Abbiamo voluto salvare dal naufragio almeno quel bagaglio terribile di emozioni: al poeta non è concesso altro. Ma nella speranza di salvare il bagaglio loro a volte abbiamo perso il nostro.
Ci siamo identificati provando a restare a a galla. Noi con le nostre penne traballanti, in un viaggio dell’anima che non risparmia la sofferenza vera della mente : quella capace di scrivere lo sdegno e la necessità di reagire allo scempio della nostra epoca tristissima.”
Così Daniela Fabrizi e Anna Manna firmano il loro libro di poesie, scritto insieme,”MIGRANTI a passi nudi, a cuori scalzi” per l’editore Aracne, pubblicato il 9 settembre.
La silloge di Anna Manna , dal titolo L’Esodo, apre il libro. Poi segue la silloge di Daniela Fabrizi dal titolo “L’Esilio”.
Non è il primo tentativo di scrittura allo specchio , già avevano pubblicato negli anni precedenti “Donne di luna e di scure-poesie nel web” per Il Convivio editore.
Dunque una simbiosi già collaudata, un’amicizia poetica che ha già sperimentato il dialogo.
Ed infatti questo libro ha sicuramente il pregio di mostrarsi subito come un’opera matura, composta, costruita, sostenuta con grande slancio dai molti commenti critici di alto livello.
La tematica drammatica del resto non poteva presentarsi in altro modo. E le poetesse sono state all’altezza del compito arduo e difficile. Senza mai scadere nell’ovvio, nel banale, nella cronaca , nella polemica. Le due poetesse hanno fatto poesia, confrontandosi ed immergendosi in una tematica di vasto respiro e di complessa costruzione poetica. Già una silloge a tema unico può spaventare il lavoro di un poeta, qui inoltre e di più, c’è la tragedia che incombe, il dolore che strazia, la visione di un’umanità che naufraga sulle sue idee e nei suoi marosi.
Riportiamo la prefazione di Dante Maffia, il famoso poeta Dante Maffia candidato al Premio Nobel per la letteratura, al libro :
Mi piace ricordare un gran signore della poesia contemporanea,
Nelo Risi, che spesso ripeteva: «Il poeta deve essere
un supremo realista». Nelle sperimentazioni esclusivamente
linguistiche, tutte affidate al significante, egli vedeva dei
giocolieri, della gente da circo equestre, e sorrideva.
Sorrideva con amarezza davanti allo sfascio in atto e le
nostre discussioni ritornavano quasi ossessivamente sulla
funzione della poesia. Se ha, se deve avere una funzione,
se l’ha avuta.
Leggendo le poesie di Daniela Fabrizi e di Anna Manna,
che affrontano un problema scottante, anzi il problema
principe dei nostri giorni, quello dell’esodo, le conversazioni
con Nelo Risi mi sono tornate tutte in mente. Sì, la
poesia ha molte funzioni, e il poeta, se tale è davvero, deve
essere un supremo realista. Ovviamente non nel senso in
cui la parola era intesa dai critici quando nacque la moda
della cronaca fatta romanzo o poesia, ma nel senso più
ampio e universale del termine, perché solo la poesia può
svelare, e Platone ce lo ha insegnato, i segreti del Divino, i
progetti che stanno nel divenire umano.
Io scrissi, mi si perdoni l’autocitazione, un intero libro
sui clandestini, circa venti anni fa. Lina Sergi lo mise in
scena nella sede del Sindacato Scrittori in Corso Vittorio
Emanuele a Roma. Adesso ritorna, con la regia di Anna
Teresa Eugeni, al Teatro dei Conciatori e perciò sono interessato
a opere che fanno sentire una forte indignazione
civile. Le due poetesse non parlano del metafisico e non
si muovono nelle confessioni personali; non cincischiano
sporcando il vocabolario con casuali accostamenti. Affrontano
le vicende disumane che stanno scuotendo il mondo
e lo fanno con quel pathos che è il timbro di garanzia di
autentiche vocazioni.
Questo il giudizio poetico di un grande della poesia. Ma l’introduzione di Lorenzo Spurio, critico letterario e poeta molto noto , si inoltra nella tematica
allargando lo sguardo alle vicende storiche.
Così il critico letterario Spurio :
Anna Manna Clementi e Daniela Fabrizi hanno deciso di
unire in un unico volume una serie di loro liriche accomunate
dalla tematica civile relativa al fenomeno ormai
planetario dell’immigrazione verso l’Europa vista da interi
popoli che fuggono la guerra, la dittatura, la povertà e la
disperazione, come un nuovo Eldorado. Le cronache degli
ultimi tempi non mancano di narrarci di quanti morti ogni
volta si contano nelle repliche delle tante tragedie per mare
dove imbarcazioni di fortuna sovraccariche di persone
stipate come animali finiscono per non reggere: il legno
si incrina e il barcone si spezza, affonda nelle acque scure
di un Mediterraneo indifeso che come una densa coperta
ricopre i tanti lutti e fa sciabordare le onde nell’illusione di
risollevare le vite assopite per sempre nei fondali.
Entrambe le poetesse hanno dedicato al tema la gran
parte dei componimenti inseriti in questa raccolta ma lo
hanno fatto in modo assai differente (ed è questo uno dei
punti di forza di questo libro). Anna Manna Clementi, che
apre la raccolta con la silloge dal titolo “Esodo”, si concentra
sull’elemento aquoreo ossia sul fenomeno migratorio
visto nella fuga per mare verso le coste dell’Europa.
L’elemento sensoriale al quale la Nostra sembra essere
particolarmente legata, quasi in maniera inscindibile, è
quello sonoro: Anna Manna con i suoi versi ci fa sentire
con nitidezza le urla rotte, le grida lancinanti, i rumori
assordanti e impetuosi, i gorghi rumorosi e affannanti del
mare, descrivendoci la tragedia dei barconi che si inabissano
in maniera diacronica: dal giorno dominato da un
sole all’apparenza timido allo scenario notturno, cupo e
privo di conforto nel migrante alle prese con l’avaria del
mezzo di trasporto. Così quelle urla, quegli SOS accorati
finiscono ben presto silenziati quando l’acqua, pregna di
sale, occupa in maniera opprimente i polmoni dei poveri
derelitti. Ciò avviene in maniera non molto diverso da ciò
che la compagine europea ed internazionale fa: parla del
fenomeno e si dice costernata per le tragedie impegnandosi
in summit allargati per ovviare a decisioni veloci da
prendere, salvo poi stanziare fondi ai paesi più coinvolti
dal fenomeno lasciandoli in balia di sé stessi a gestire l’inarrestabile
penosa avanzata. L’incapacità di intervento, la
mancata concretezza nella gestione del dramma finiscono
per mostrare un’Europa disattenta, fredda, razzista e connivente
in una certa maniera con la mercanzia delle anime,
con il crimine etnico. Crimine che è ancor più spietato e
schifoso per il fatto che è esso stesso merce di consumo
nel circuito informativo dove l’immigrazione diviene spesso
tema da talkshow nel quale dire tutto e il contrario di
tutto, acconsentire o dissentire, mostrarsi o accaparrarsi
la simpatia di fasce della popolazione, impiegare il tema,
demagogicamente, quale impegno del proprio partito in
una possibile campagna elettorale.
I vestiti degli sventurati si inzuppano di acqua e si fanno
pesanti, l’umidità addosso infradicia le ossa, il cielo è lì,
alto, come disegnato e sembra impossibile ricavarci una
qualche consolazione. Le carni sono pressate, il tormento
invade le menti, l’angoscia di non farcela macchia il
cammino della speranza mentre i bambini piangono e le
proprie madri si apprestano a dargli tutto ciò che possono,
il loro latte fattosi ormai acerbo dal disprezzo nei confronti
della vita.
La natura ambientale che accoglie la dipartita delle anime
ha assunto anch’essa gli stilemi di una depravazione
morale, di un’incompatibilità con la vita dell’uomo: colpiscono
le “viscide alghe”, ne percepiamo quasi la loro
ignavia e al contempo la vigliaccheria, il mare, pure, sembra
assumere peculiarità umane e rendersi fautore di un
“ghigno spaventoso”, bestiale e malefico, privo di redenzione.
Un’acqua di morte che nega il ciclo di rinascita, si
fa densa e piena di propaggini, mani che non aiutano né
sollevano o facilitano il galleggiamento, ma che, pesanti
e dalla presa diabolica, afferrano e trascinano nei fondali
più infimi. Una condizione apocalittica alla quale la Nostra
contrappone il suo fiero disappunto con foga e con un
dolore autentico che la conduce a vagheggiare istinti mortiferi
e annullanti l’intera umanità (“se fossi forte vorrei
spezzare il mondo”) per metter fine alla sperequazione della
speranza tra fortunati e disperati, ed esser tutti fratelli,
in un’angoscia comune che si può realmente conoscere
solo se la si vive.
Se il mezzo identificativo delle poesie di Anna Manna
Clementi è rappresentato da quel mare infingardo che
diviene pozza mefitica di certezze e sepoltura di massa,
l’altra poetessa, Daniela Fabrizi, si concentra in particolar
modo sull’elemento terra. Anch’essa ci parla del fenomeno
migratorio del nostro periodo storico visto, però, per
mezzo delle lunghe traversate per terra, principalmente
quella di siriani ed iracheni che sulle proprie gambe risalgono
ampi territori, passando per la Turchia e cercando
poi di immettersi nell’Europa attraverso la Grecia o, più
frequentemente nelle ultime settimane, proiettandosi verso
i Balcani quale meta finale per l’ingresso nei confini
della Comunità Europea. Per tali ragioni Daniela Fabrizi
non può non parlare del fenomeno eclatante di divisione,
una sorta di nuovo muro di Berlino, che il governo
del conservatore Orbán in Ungheria ha fatto costruire a
salvaguardia delle proprie frontiere.
Non solo viene negata l’assistenza e l’asilo al profugo
di guerra ma anche il passaggio per una nazione che possa
permettergli dopo settimane di duro cammino di poter
entrare in Croazia e dunque in Europa. La Nostra sottolinea
con particolare enfasi nelle sue liriche questa durezza
dei cuori che si esplica negli elementi di chiusura, recinzione,
allontanamento che non fanno altro che esacerbare
differenze tra etnie, culture e società contribuendo alla
segregazione di alcune e al dominio di altre: “Un certo
Abele mi chiamava fratello”, scrive nella poesia “Fratello”.
Il binomio di esperienze letterarie di Anna Clementi e
Daniela Fabrizi in questo caleidoscopio di riflessioni amare
su uno dei problemi sociali più cocenti e gravi del momento
è senz’altro riuscito. In esso, meglio di qualsiasi pagina
di giornale o foto di una qualche tragedia annunciata, è
contenuta la sofferenza e lo scoramento di due donne che,
pur appartenendo alla società civile di un mondo Occidentale,
fanno propria l’esigenza della battaglia per la vita. Un
esodo di dimensioni bibliche dove lo straniero viene visto
come minaccia pericolosa, un esilio per nulla romantico,
gravato da un desiderio impetuoso di fuga. Mentre la tv
ruggisce notizie più o meno simili di barconi spezzatisi
al largo del mare o di militari che sparano contro le orde
migranti in uno stupido e deprecabile confine, non c’è
più tempo di stare ad ascoltare. Per alcuni, per i cultori
della dialettica verbosa e inconcludente forse non siamo
ancora arrivati al collasso e—come dice la Fabrizi—“si
sta [ancora] aspettando il boato”.
Esso, però, si è già prodotto e giorno dopo giorno lo
percepiamo con sofferenza nella insanabile deflagrazione
dei cuori.”