24 Gennaio 2016
Fonti: RaiNews, Europae
Nota di Domenico Cambareri
UN BREAK DOPO SETTE MESI, PER UNA TAZZA DI THE E PER UNA CHIAROVEGGENZA TUTTE “BRITONS”
PRIMA GIUSTO RISPETTO PER NORME E PROCEDURE, POI DECIDERE
DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA DI S.M., SUL PIANO POLITICO LA STRADA DEL GOVERNO MAY POTREBBE ESSERE TUTTA IN SALITA?
TUTTO QUESTO PER PERSEGUIRE UN MEGALOMANE SOGNO DI UN LIBERISMO SFRENATO E ANTIEUROPEO CHE SAREBBE COMUNQUE SCHIACCIATO DAGLI USA, DALLA CINA E INFINE PERFINO DALL’INDIA, E NON SOLO?
LASCIAMO STARE LA RUSSIA DEL BRIC, (Brasile, Russia, India, Cina), GIACCHE’ LA RUSSIA E’ NON SOLO NEL G8 MA E’ PARTE DELL’EUROPA E ENTRERA’ IN QUESTO PROCESSO DI ALLARGAMENTO EUROPEO. QUESTA RUSSIA CONTRO CUI IN QUESTI ANNI HANNO SEMPRE TRAMATO I GOVERNI INGLESI AL SERVIZIO DELLA CASA BIANCA E DELLA SPECULAZIONE DEI PADRONI USA.
Senza più potere sfruttare paura e rabbia degli incapienti, del proletariato e dei lavoratori ivi da tempo immigrati come il menefreghismo degli autoemarginati provincialotti benestanti e parassitari, il governo inglese è costretto dalla legge a portare in parlamento la decisione finale sul Brexit. – Una parte dei deputati conservatori pro Brexit dimostrerà adesso maggiore previdenza, sagacia e lungimiranza? – Si illuderà dei “rapporti speciali” con Washington, diventati a parole perfino “molto speciali” con Trump e la May? Vorrà ancora svolgere il ruolo di zerbino alla porta d’ingresso della White House e di Wall Street? O capirà quale formidabile prospettiva storica si offre al popolo anglosassone con la rinuncia ai privilegi ricattatori vantati dai suoi governanti di turno? Preferirà prendere ordini quale mero agente commerciale da Washington, più che trattare con l’oligopolio USA, o preferirà essere sicura espressione un’Europa ancora più forte e unita che non ha bisogno di ricorrere alle speculazioni di non lungo respiro del liberismo sfrenato della May? Preferirà rinunciare con preveggente e sano realismo, assieme alla Francia, al posto permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da cui entro poco più di un decennio potrebbero essere cacciati tutte e due in modo sbrigativo e con forza dalle nuove potenze mondiali e preferirà porsi alla guida di un’Europa radicalmente rinnovata, coesa e forte che saprà trattare alla pari con USA e con Cina, che saprà commerciare con tutti i popoli attraverso tutti gli oceani senza più il tardo retaggio colonialista, o si attarderà nella megalomane impresa di un disonorevole tramonto? O preferiranno, tutti i parlamentari conservatori, schierarsi a pro del Regno Unito dei Paradisi Fiscali e avviare una guerra economica aperta con l’Unione Europea costretta a tutelarsi? E non solo? Nel frattempo, gli inglesi euroscettici” avranno capito che i loro rappresentanti non avranno problemi per rimanere sia a Londra che a Bruxelles perché negli USA hanno ottime alternative e troveranno scranni e laute ricompense ad hoc per loro? Farage non “explain” nulla? – D.C.
Il PRO E IL CONTRO. BENVENUTA BREXIT! FINALMENTE IL DADO … www.europadellaliberta.it/…/il-pro-e-il-contro-benvenuta–brexit-finalmente-il-dado-e-… Copia cache 27 giu 2016 – Il PRO E IL CONTRO. BENVENUTA BREXIT! FINALMENTE IL DADO E’ TRATTO! PRO EUROPA! …
Il verdetto
La Corte Suprema boccia la linea di Theresa May sulla Brexit: “Per uscire serve voto del Parlamento”
I Supremi giudici del Regno Unito ordinano un dibattito per avviare il negoziato con la sull’uscita dall’Unione. Confermata la decisione di primo grado. Governo “deluso, ma rispettermo la decisione“.
CondividiTweet Irlanda del Nord, Gerry Adams: con la Brexit salteranno gli accordi di pace nell’Ulster Brexit: Theresa May annuncia l’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo Corte suprema britannica si riunirà dal 5 all’8 dicembre per sentenza su Brexit Davies: il Parlamento britannico voterà prima della conclusione della Brexit Brexit, May: i parlamentari devono accettare il voto del referendum Brexit: la palla alla Corte suprema, ecco tempi e passaggi Brexit, alta Corte di Londra: su processo di uscita deve votare il Parlamento
24 gennaio 2017 La Corte Suprema di Londra ha disposto oggi in via definitiva che la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’avvio dei negoziati con l’Ue per la Brexit dovrà essere autorizzato da un voto del Parlamento britannico. Il verdetto conferma quello di primo grado dell’Alta Corte e dà torto al governo May che aveva presentato ricorso invocando il diritto ad attivare l’articolo 50 d’autorità, nel rispetto della volontà popolare del referendum del 23 giugno.
Che cosa stabilisce il verdetto
Il governo britannico guidato da Theresa May avra’ bisogno di un’autorizzazione del Parlamento per avviare i negoziati per la Brexit. Lo ha stabilito la Corte Suprema del Regno Unito. La decisione e’ stata presa a maggioranza (8 a 3). “Una legge del Parlamento e’ necessaria per autorizzare i ministri a comunicare la decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione Europea”, spiega la Corte Suprema in una nota. In primo grado l’Alta Corte di Londra aveva dato ragione a un comitato di cittadini guidato dalla donna d’affari e attivista europeista Gina Miller, che chiedeva appunto un dibattito e un voto parlamentare. Ma quella sentenza era stata poi impugnata di fronte alla Corte Suprema (ultima istanza di giudizio) dal governo May: che rivendicava il diritto ad attivare l’articolo 50 d’autorità, nel nome del rispetto della volontà popolare favorevole al divorzio da Bruxelles espressa nel referendum del 23 giugno.
Governo deluso ma rispetta la decisione
“Il governo è deluso” dalla decisione della Corte suprema britannica, che ha stabilito il Parlamento di Londra debba approvare l’avvio dei negoziati per l’uscita dall’Unione europea, “rispetterà il verdetto e farà tutto il necessario per applicarlo”. Lo ha dichiarato il procuratore generale, Jeremy Wright. Borsa Londra +0,2% dopo Corte Suprema
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Come si è espressa prima della sentenza la voce di giovani studiosi italoeuropei:
Brexit significa Brexit: Londra dice addio al mercato comune
Luca Barana 20 gennaio 2017 479 Views
Dopo mesi di incertezza, il governo britannico ha scelto: l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si tramuterà presto in una “hard Brexit”, un processo che porterà Londra a uscire dal mercato comune europeo, in attesa di un nuovo accordo commerciale con Bruxelles.
Questo il messaggio finalmente recapitato dal Primo Ministro Theresa May all’elettorato britannico e ai 27 partner nell’UE in un discorso che sancisce una svolta nel percorso, finora più retorico che concreto, di divisione fra Londra e Bruxelles. Il governo britannico farà scattare la procedura sancita dall’articolo 50 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea ed entro due anni si dovrà contrattare l’uscita più ordinata possibile del Regno Unito dall’UE.
“Brexit means Brexit”
“Brexit significa Brexit”, questo il mantra ripetuto più volte dal Primo Ministro negli ultimi mesi. Il discorso di pochi giorni fa elimina alcune delle ambiguità che si erano addensate sul processo di separazione: in particolare, May ha definitivamente chiarito come, nel trade off fra totale controllo sui flussi migratori dall’UE e accesso al mercato unico, la priorità del governo riguarda l’immigrazione.
Nei mesi scorsi, alcuni esponenti dell’esecutivo, come il Boris Johnson, avevano affermato che l’UE sarebbe stata disposta ad accettare limitazioni ai movimenti di persone in cambio della permanenza di Londra nel mercato comune, per non svantaggiare gli esportatori europei (compresi quelli di prosecco). Al contrario, gli Stati membri hanno più volte chiarito come le quattro libertà fondamentali alla base del mercato (libertà di movimento di beni, servizi, persone e capitali) siano inscindibili.
May ha affrontato questo dilemma di fatto seguendo l’orientamento dell’elettorato britannico, che ha votato, palesemente, per maggiori controlli sull’immigrazione: a questa necessità, il Primo Ministro è pronta a sacrificare i benefici dell’accesso al mercato unico ed eventualmente dell’unione doganale, una forma più blanda di intesa commerciale, ma comunque più approfondita di un mero accordo di libero scambio. May si è detta pronta a promuovere successivamente l’accordo di associazione più approfondito possibile, allo stesso tempo suggerendo un nuovo ruolo globale per Londra, pronta a firmare accordi commerciali vantaggiosi con le principali potenze commerciali mondiali.
L’altro punto dell’insofferenza britannica, la subordinazione alla regolamentazione europea, è stato poi soddisfatto da un altro annuncio del Primo Ministro, che ha negato qualunque possibilità di rimanere sotto la giurisdizione della Corte Europea di Giustizia. Sarà ovviamente eliminato anche il contributo finanziario al budget UE, a meno di un sostegno mirato a progetti specifici su cui si manterrà un buon livello di cooperazione.
Londra nuovo paradiso fiscale?
Di fronte alle preventivabili reazioni di chiusura da Bruxelles, la May ha anche agitato lo spettro di un paradiso fiscale alle porte dell’Europa: Londra vuole rimanere un ottimo partner per l’UE, ha detto il capo del governo, ma se i Paesi europei decideranno di “punire” il Regno Unito non solo si tratterà di un “atto di auto-danneggiamento”, ma il Regno Unito è pronto a varare una politica fiscale molto accomodante per attirare le imprese dall’Europa e tagliare i legami del business europeo con le risorse finanziare della City.
Difficile però valutare quanto sia realistica questa minaccia: in caso di uscita disordinata dall’UE, le imprese che scegliessero la bassa imposizione fiscale britannica sarebbero comunque ostacolate in uno dei primi mercati globali, quello europeo, e la stessa City rischia di perdere molti dei privilegi accumulati sinora, come la possibilità di operare liberamente sui mercati finanziari europei, pur avendo sede e maggioranza dello staff a Londra (il cosiddetto “passaporto UE”).
La sponda di Trump
Le ambizioni di una Gran Bretagna globale potrebbero trovare invece una sponda nella nuova amministrazione americana. Il Presidente Donald Trump ha già espresso la sua visione critica dell’UE, mentre dopo il discorso di Theresa May, Anthony Scaramucci, che fa parte del team di transizione di Trump, ha affermato che un nuovo accordo fra Regno Unito e Stati Uniti potrebbe essere facilmente raggiunto entro 6 – 12 mesi, dato che un’intesa con Londra sarebbe una delle priorità della nuova amministrazione.
Al netto della buona volontà americana, che dovrà però articolarsi in atti concreti, Londra è chiamata a un compito impegnativo: negoziare l’uscita dall’UE (dai dazi sugli autoveicoli ai sussidi agricoli, agli standard farmaceutici, solo per fare qualche esempio) e porre le basi per la firma di accordi commerciali con tutti i Paesi oggi legati all’UE: la competenza esclusiva in materia commerciale della Commissione ha infatti privato per decenni i governi delle professionalità necessarie per firmare nuovi accordi autonomamente. Con la Brexit, Londra è chiamata a una lunga corsa a ostacoli.
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Brexit: la sentenza dell’Alta Corte spiegata bene
Angelica Petronella 6 dicembre 2016 1,246 Views
Il 23 giugno 2016 il popolo britannico è stato chiamato alle urne per decidere della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Una permanenza che ha visto spesso il Paese tirarsi indietro nel processo di integrazione comunitaria, come nel caso dell’esercizio dell’opting out rispetto alla normativa di Schengen o alla disciplina economica e monetaria. Lo stesso premier David Cameron si è dimostrato incapace di assumere una posizione decisa rispetto alla scelta del “leave” e ha dapprima condiviso le ragioni dall’abbandono per poi parteggiare fortemente per il “remain” al momento del voto. Un atteggiamento ondivago che l’ha condotto alle dimissioni quando, con il 51,9% dei voti, i britannici euroscettici hanno prevalso e scelto di uscire dall’UE.
L’Articolo 50
Al di là delle ripercussioni che una simile decisione potrà avere, nel lungo termine, sugli equilibri politici ed economici dell’Europa, si è posto un problema in merito alla procedura interna di formalizzazione dell’uscita. L’art 50 del Trattato dell’Unione Europea disciplina la clausola di recesso, prescrivendo che ciascun Paese membro possa recedere volontariamente ed unilateralmente dall’UE notificando tale intenzione al Consiglio Europeo. Quest’ultimo predispone un accordo per definire le modalità dell’uscita. Dopo la negoziazione, l’accordo deve essere approvato dal Consiglio stesso a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento. In mancanza di intesa, l’uscita diventa comunque effettiva a due anni dalla notifica, a meno che lo Stato ed il Consiglio Europeo non siano d’accordo nel prorogare il termine.
Il Primo Ministro Theresa May avrebbe voluto invocare tale procedura nel prossimo marzo 2017, ma l’High Court of Justice di Londra, con sentenza del 3 novembre 2016, ha disposto la necessità di ottenere prima il voto favorevole del Parlamento. Non si tratta di un voto inutile, ma di un obbligo che discende dai principi costituzionali fondamentali e dalla natura consultiva del referendum di giugno. Il ricorso, presentato da un gruppo di attivisti pro UE guidati dalla donna d’affari Gina Miller, poneva alla Corte il seguente quesito: la Corona, attraverso il governo di turno, ha il potere prerogativa di attivare la procedura dell’art 50 TUE?
Le prerogative costituzionali
La risposta della Corte è stata negativa. Come ricordato dalla High Court, sebbene non sia scritta, la Costituzione del Regno Unito è una delle più rigide. Il principio costituzionale che regge l’intera impalcatura normativa britannica è che il Parlamento è sovrano e la legge promulgata dalla Corona, col consenso di entrambe le Camere, è suprema. Non esiste alcuna normativa che sia sovraordinata a quella del Parlamento a meno che quest’ultimo non lo consenta, come nell’unico e solo caso dell’ECA (European Communities Act) del 1972 con cui il Regno Unito è entrato a far parte dell’UE.
I resti della precedente autorità legale della Corona sono rappresentati dai prerogative powers, entro cui rientrano la conduzione delle relazioni internazionali e la decisione di concludere o meno un accodo. Al riconoscimento di questi poteri non consegue però che la Corona possa autonomamente modificare la normativa interna. È assolutamente escluso che, senza il consenso del Parlamento, la Corona possa riconoscere ovvero abrogare un diritto dei cittadini.
Uno stop alla Brexit?
Nel caso di specie, non vi è traccia di una simile concessione del Parlamento nel Trattato di ingresso nell’UE, da cui evidentemente sono scaturiti nuovi diritti per il popolo britannico. Né tale potere discende dalla legge del Parlamento con cui è stato indetto nel 2015 il referendum il quale, peraltro, ha natura consultiva, come specificato anche dalla relazione informativa allegata. Nell’ordinamento britannico, infatti, il referendum non è fonte primaria, non è attivabile dai cittadini, ed è vincolante solo se il Parlamento ha dato disposizioni in tal senso. Da tutto ciò si deduce che la Gran Bretagna potrebbe anche non uscire dall’UE qualora il Parlamento decidesse di non tenere conto del voto popolare.
La domanda finale è: i parlamentari decideranno di rispettare la volontà del popolo? È ovvio che la scelta dei membri delle Camera dei Lord e di quella dei Comuni non si baserà soltanto sulle opportunità ed i vantaggi che l’abbandono ovvero la permanenza nell’UE possono offrire al Paese, ma anche sulle conseguenze politiche di un simile voto: gli elettori potrebbero decidere di non confermare alle prossime elezioni quei parlamentari che, dissociandosi dalla maggioranza della volontà popolare, decidessero di votare secondo la propria coscienza.