Unione Europea. I mille e mille chiaroscuri

09 Agosto 2017

Enea Franza

Interessi nazionali e costruzione europea.

Il “fastidio” di essere in Europa

 

 

 

L’Europa e la partecipazione del nostro Paese al processo di unificazione europeo sono stati negli ultimi anni un argomento centrale che ha trovato l’unanime condivisione da parte di tutte le classi dirigenti. Tanto era forte la condivisione della bontà di tale processo, che le poche voci contrarie sono state spesso tacitate, come se parlare dell’argomento fosse diventato un nuovo tabù e l’Europa una scelta indiscutibile, anche quando la percezione comune era che da quelle scelte si attivava un impoverimento collettivo in luogo di un maggiore benessere promesso. Naturalmente la crisi ha peggiorato il tutto e le nuove indagini sulla volontà degli italiani di rinunciare all’Unione mostra dati in crescita e fino a pochi anni fa impensabili.
C’è in fondo sicuramente un problema di comunicazione, ma anche l’elusione di una domanda fondamentale che è, in buona sostanza, se, ed eventualmente per quale ragione, vale la pena stare insieme e continuare nel percorso di unificazione europea. In altre parole, la questione è quale interesse comune possano avere oggi i 27 paesi della Ue .
Non sono pochi coloro che evidenziano come nel nostro Paese sia alta la percezione che stare in Europa si sia tradotto solo in danni, evidenti a partire dall’adesione all’Euro. Esemplare, a tale riguardo, sono i vincoli sulle politiche di bilancio, la mancanza di una politica bancaria comune che metta in sicurezza le banche europee da crisi sistemiche, l’esistenza di differenti politiche fiscali ecc.
Da ultimo è messa sotto accusa anche l’inesistente politica estera. In molti contestano come sbagliate e contrarie ai nostri interessi le scelte fatte dalla UE, in materia di Libia e Ucraina. In particolare, le misure di boicottaggio a danno della Russia, decise di fatto dalla sola Germania, hanno portato conseguenze negative in termini di commercio estero per il nostro Paese.
Ma almeno per questo secondo caso le cose non stanno proprio cosi.
Come è noto, a seguito della crisi ucraina, l’Unione Europea ha adottato una serie di sanzioni verso singoli individui russi. Dal punto di vista industriale, i limiti all’export sono stati fissati in campi assai mirati. Riguardano l’industria di estrazione del petrolio, in particolare le tecnologie per i complessi campi dell’Artico, e le armi. La Russia ha risposto colpendo principalmente l’agroalimentare dell’Unione e degli Stati Uniti (51 categorie di prodotti bandite), oltre ad alcune misure protezionistiche che vincolano l’equivalente della pubblica amministrazione ad acquistare pellami, prodotti dell’industria leggera o dispositivi medici da industrie domestiche.
Secondo Confindustria, dal primo anno di vigenza dell’embargo fra agosto 2014 e luglio 2015 l’export italiano di agroalimentare si è contratto del 36% rispetto allo stesso periodo di un anno prima.
Per la verità, in percentuale, altri hanno fatto peggio: Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna si stima che abbiano perso rispettivamente il 38, 29, 46 e 24 per cento. Danimarca, Irlanda e Finlandia son quelli che hanno sofferto di più. In definitiva, nel complesso, le nostre esportazioni sono scese nel 2015 del 25,2% rispetto all’anno prima, fermandosi a 7,1 miliardi.
Di fronte alla inevitabile suggestione di tali argomenti, non mancano le ragioni a favore dell’Unione Europea. E di questo vorrei dare conto.
La certezza banale che, dal dopoguerra ad oggi, i grandi attori della prima e della seconda guerra mondiale, si siedono tutti insieme ad un tavolo e lì, di volta in volta, negoziano ed evitano di scontrarsi con le armi è uno dei tanti argomenti che non sono scontati, ma che sono il frutto dell’unione che ha sottratto il nostro continente agli scontri che si sono combattiti praticamente dalla fine dell’impero romano.
Dalla riunificazione della Germania in poi, tuttavia, l’Europa sembra non essere più un consesso tra pari, posto che ciò essa sia mai stata, ma appare egemonizzata dalle iniziative tedesche e dalla supremazia economica di quel paese. Palese, al riguardo è la questione dei surplus commerciali, che la Germania non ritiene assolutamente argomento di discussione.
Inutile ricordare come la Ue abbia chiesto a Berlino più volte di ridurre il peso delle esportazioni per non ampliare la frattura con gli altri Paesi dell’Eurozona, che, per limitarsi al 2015, si è chiuso con un avanzo di 248 miliardi di euro. Va evidenziato, che è dal 2002 che la Germania produce un saldo delle partite correnti positivo (quindi esporta più di quanto importa) ma è da più otto anni consecutivi che lo fa, con ciò violando le regole europee che prevedono che non si possa generare un saldo positivo superiore al 6% del Pil nella media di tre anni.
Contemporaneamente, dalla parte dello stesso Paese, si chiede a Francia, Spagna ed Italia (e, stendiamo un velo pietoso per i sacrifici chiesti alla piccola Grecia) una politica di rigido rispetto del deficit di bilancio entro i limiti previsti dalle medesime norme che contengono anche il limite del surplus, evidenziano dunque un atteggiamento quanto meno bipolare. Aspetto inerente ancora più importante da mettere in risalto è quello che per tale via si annulla un qualsiasi eventuale “effetto locomotiva” a beneficio delle economie dei Paesi dell’Unione più deboli.
Sicuramente balzeranno con evidenza agli occhi di ogni osservatore, anche il più equilibrato e cauto, i limiti di quello che oggi è l’Unione Europea.
L’Europa si mostra indecisa con i Paesi membri più forti e, le scelte, quando vengono adottate, non sono coerenti tra loro, come nel caso cennato “doppio binario” sul rispetto delle regole comuni.
Tuttavia, non solo sulle questione economiche l’Unione appare altalenante. Evidenza è la sottoposizione alle richieste della Turchia, lo spavento che dimostra di fronte all’ondata dei migranti, e l’incapacità di reagire o anche solo di agire di fronte alla minaccia islamica ed al conflitto in Siria.
L’Unione è, altresì, troppo complicata, come le tante istituzioni create si incaricano di mostrare. Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio dell’Unione Europea, Commissione europea, Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), Banca centrale europea (BCE), Corte dei conti europea, e da ultimo il   Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), appaiono soggetti costosi, burocratici ed ostaggio degli interessi delle lobbies europee. Le norme da questi soggetti prodotte sono tante, peraltro, complesse e quasi completamente estranee sia all’anima che alla pancia dei popoli di molti dei Paesi membri. Esse generano agli occhi dei cittadini, nel migliore dei casi, fastidio, quando non proprio ostracismo e vengono rigettate come costruzioni astratte ed inidonee a rispondere alle necessità concrete dei cittadini.
L’Europa certamente è calunniata e ciò starebbe anche nella logica delle cose, considerando che essa ha la funzione di sintetizzare gli nazionali interessi contrari e che cosi facendo, suscita il risentimento di chi si sente a torto o ragione penalizzato.
Ma vediamo quanto ciò che si sente in giro può essere pura calunnia o rimostranza di giusti interessi lesi. Per farlo portiamo un altro esempio. Le critiche per la mancanza di trasparenza dei rendiconti dei progetti sui programmi di cooperazione per la gestione dei flussi migratori nei Paesi del Mediterraneo e dell’Est Europa. Si tratta di 1,4 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. I giudici della corte dei conti europea hanno monitorato un campione di 23 progetti che riguardavano sei Paesi (Algeria, Libia, Ucraina, Marocco, Georgia, Moldavia) ed hanno trovato a dir poco lacune nei documenti a loro disposizione che evidenziano dubbi circa le spese sostenute e rimborsi a dir poco gonfiati. E non parliamo degli stipendi e delle prebende corrisposte agli euro burocrati !
Un’altra questione ci sentiamo di porre. L’Unione Europea è purtroppo quasi sconosciuta e, dei tanti vantaggi che si hanno nello stare nel mercato comune, poco si sa e molto si da per scontato.
Vediamo le fondamentali libertà di cui godono i cittadini europei e di cui negli anni si è certamente avuto un crescendo.
In primo luogo, la libertà di circolazione dei capitali che si è potuta attuare a partire dal 1° gennaio 1999 quando è stata introdotta nei Paesi Membri la moneta unica europea, che ha comportato la piena attuazione e realizzazione del c.d. 1° pilastro del trattato di Maastricht. Di fatto si è potuto realizzare un’ampia e notevole unione sociale, economica e territoriale tra i singoli stati membri e l’affermarsi sui mercati internazionali di una moneta, l’Euro, in maniera paritaria alla rispetto al dollaro ed allo Yen.
La libertà di circolazione delle merci che si è potuta concretizzare a partire dal 1° gennaio 2002, quando si è attuata una completa armonizzazione degli scambi commerciali, uniformando tra i diversi stati Membri, l’applicazione dell’IVA al 20% e al divieto di duplicazione dell’imposta durante i cambi tra i diversi Stati appartenenti alla zona Euro. In tal modo, Stati come la Spagna, oppure, il Portogallo che applicavano precedentemente l’I.V.A. al 16%, l’hanno aumentata di quattro punti percentuali. Invece, stati come Austria oppure Germania che la applicavano al 24% l’hanno diminuita sempre e, comunque, di quattro punti percentuali per una corretta ed idonea armonizzazione degli scambi commerciali.
La libertà di circolazione dei servizi, ovvero, lo svolgimento sia di attività non salariate che di attività retribuite di carattere industriale, commerciale, artigianale e delle libere professioni, che vengono svolte da una persona fisica oppure persona giuridica in uno Stato Membro diverso dallo stato ove ha sede, oppure luogo: la suddetta prestazione del medesimo servizio e delle persone che possono circolare, viaggiare e soggiornare liberamente nel territorio della Comunità è attuata in maniera uguale ed ugualmente libera. 
Inoltre, il diritto di doppia cittadinanza. Il singolo individuo, infatti, risulta essere titolare di una doppia cittadinanza attiva tale da essere oltre che cittadino della propria Nazione anche cittadino europeo. Di tal guisa, i diritti e i doveri che vengono riconosciuti già direttamente da ogni singolo Stato nei confronti dei propri rispettivi cittadini si sommano il diritto di voto ed eleggibilità presso il parlamento europeo, il diritto di godimento di una protezione diplomatica e consolare ed il diritto di petizione innanzi al parlamento e di rivolgersi al mediatore europea.
Un giudizio complesso, dunque, che lascia l’amaro in bocca ai tanti italiani che hanno seriamente contribuito (e sperato) in un’Europa dei cittadini e per i cittadini e che si trovano, adesso, di fronte ad un soggetto autocratico, troppo distante per essere compreso.