06 Ottobre 2020 Fonte: Fare Futuro on line Autori: Enrico Argentario, Amb. Gabriele Checchia
INVESTIMENTI ESTERI E INTERESSE NAZIONALE Su Charta minuta, giornale on line di Farefuturo, approfondimento di Enrico Argentiero sui temi degli investimenti esteri e dell’interesse nazionale. L’Italia è ancora oggi un Paese strategico nello scacchiere internazionale per rilevanti motivi geopolitici ed economici. Catalizza interesse e attrae investimenti esteri, i cosiddetti IDE (Investimenti Diretti Esteri, appunto). Sul fronte dell’internazionalizzazione passiva, IDE in entrata, sono oltre 14.000 le imprese a controllo estero residenti nel Bel Paese, con oltre 1.300.000 dipendenti, un fatturato che supera i 500 miliardi di euro ed un valore aggiunto di oltre 100 miliardi di euro. Pur rappresentando solo lo 0,3% circa delle imprese attive in Italia, il loro peso sale a quasi l’8% degli addetti, a oltre il 15% del valore aggiunto prodotto e a poco più del 18% del fatturato complessivo.Numeri importanti, quindi, e ben vengano gli investimenti esteri oggi più che mai! Anzi dovremmo essere in grado di attrarne di più perché, in generale, qualificano le nostre filiere produttive. Basti pensare che, in media, le imprese a capitale estero presentano delle performance di gran lunga migliori in termini di valore aggiunto per addetto (86 mila contro 38 mila euro), grazie alle maggiori dimensioni medie di impresa (90 addetti per impresa, contro i 4 delle imprese domestiche). In generale, poi, gli IDE portano anche maggiori e diverse competenze, tecnologie, capacità manageriali, vantaggi di scala e di network.Ciò premesso, non è tutto oro quel che luccica e, a volte, dietro apparenti vantaggi si nascondo pericolose insidie. Se ne è parlato ad esempio, nel recente passato, con l’investimento della cordata franco indiana Arcelor Mittal in quella che era la più grande acciaieria d’Europa, l’ILVA di Taranto e i risultati attuali sono sotto gli occhi di tutti. Sempre restando a Taranto è di pochi giorni fa la notizia degli interessi cinesi per il suo porto e per la gestione della relativa logistica, cosa che ha subito fatto drizzare le antenne agli americani (in zona ci sono importanti presidi militari strategici per l’area del Mediterraneo). Oggi la notizia dell’acquisto, da parte dei tedeschi di Hhla, del pacchetto di maggioranza del terminal multifunzionale del porto di Trieste, altra infrastruttura strategica molto ambita (anche dai cinesi, per altro). Nelle operazioni appena citate, cosa non banale, non ci sono solo privati ma anche i rispettivi Stati di provenienza.Ecco che, allora, entra in campo l’interesse nazionale, o almeno così dovrebbe essere. Nel contesto attuale le infrastrutture materiali (come ad esempio i porti) e immateriali (ad esempio le tecnologie 5G), assieme ai settori strategici, rappresentano infatti degli asset fondamentali per i singoli Paesi.Questo all’estero sembra che lo sappiano bene mentre a livello governativo italiano pare non esserci al momento la stessa sensibilità. Diverso, invece, il clima che si registra in Parlamento, grazie all’azione meritoria portata avanti negli ultimi tempi dal COPASIR. Ma non basta, perché l’attività di monitoraggio va fatta prima, sulla base di azioni preventive che abbiano da un lato l’obiettivo di incentivare e promuovere gli investimenti che fanno bene all’Italia e, dall’altro, “attenzionare” con maggiore efficacia e nel caso stoppare quelle operazioni potenzialmente lesive dell’interesse nazionale.Ecco che, allora, andrebbero promosse anche specifiche commissioni parlamentari con compiti sia di vigilanza, sia di indirizzo generale rispetto al tema della tutela dell’interesse nazionale in ragione dei tentativi di incursione di potenze straniere portate avanti anche attraverso gli IDE.In parallelo andrebbe promosso un vero e proprio “Osservatorio Italia Internazionale” che monitori l’andamento degli investimenti esteri in Italia e italiani all’estero, per fornire non solo un cruscotto di dati ma un vero e proprio supporto tecnico ai decisori politici, cosa diversa dall’attuale Caie.E mentre aumentano le insidie nei settori strategici delle infrastrutture, dai porti al 5G ma non solo, diminuiscono per effetto della crisi gli IDE buoni, quelli che creano valore per il Paese: nel 2019, in epoca cioè pre-Covid, l’Italia è scesa dal 15esimo al 16esimo posto a livello mondiale, che in soldoni vuol dire da 33 a 27 miliardi di dollari (fonte Unctad) con una perdita secca di 6 miliardi di investimenti rispetto all’anno precedente.*Enrico Argentiero, collaboratore Charta minuta Puoi seguire le attività di Farefuturo oltre che sul sito, anche sui canali social Facebook, Twitter, Linkedin, Instagram |
IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE IN ITALIA
Questo saggio di Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria. Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente».
Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico.
Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei). Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II.
Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).
Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento.
In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso. Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente». Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese.
Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata.
È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.
Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche.
Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione. Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).
Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.
Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita d Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.
Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).
Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione. Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine.
In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015.
Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza. Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA).
È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline». In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente». Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto).
I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando). Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane. Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN.
Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti. Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa.
Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.
È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense.
Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale. Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto
*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato