26 Ottobre 2020
Fonti: Google, libreriaantiquaria.com, abebooks.it, ebay.it, xflottigliamas.forumfree.it, picclik.it, aobii.com, amazon.it, italia-rsi.it, libreriaparolini.com, filad.it, core.ac.uk
› download › pdfPDF Politiche di propaganda britanniche e storie di prigionia … – Core, fondazionersi.com, Biblioteca patriottica e testi sulle guerre d’Italiapatriottismo.forumcommunity.net ›, Archivio diaristico nazionale. Inventario – II2.42.228.123 › dga › uploads › documents › StrumentiPDF, https://prigioniero.weebly.com/foto.html
Memorie da far conoscere
L’indimenticabile giornalista de “Il Tempo” LEONIDA FAZI
… Il fatto che in India, e proprio a Yol, venissero concentrati tutti gli ufficiali (inferiori), di cui molti camicia nera non facilitò il compito agli Inglesi. Gli “irriducibili”o Hostiles, come venivano chiamati, non si piegarono dal primo all’ultimo giorno. Una parte dei prigionieri (33.000) venne spostata in Australia nel 1944, sia per bisogno che per una grave crisi alimentare che colpì l’India nel 43. Dal 1940 all’8 settembre 1943 le regole dell’Aja garantivano anche ai fascisti la loro diversità da Prigionieri. Dopo fu solo polemica, tutt’ora irrisolta. Con la firma dell’armistizio e la dichiarazione di “cobelligeranza” la condizione di questi prigionieri non migliora; le clausole armistiziali sottoscritte prevedono la liberazione dei nostri ex nemici ma non la reciprocità. La cobelligeranza è una parola inventata dagli italiani che per gli alleati ha tutt’altro significato. L’Italia continua ad essere considerato un paese sconfitto e in stato d’occupazione e i soldati italiani interessano come manodopera da utilizzare nelle situazioni più diverse. Saranno liberati prima della fine della guerra solo alcune decine di migliaia di prigionieri: quelli residenti in Sicilia catturati nell’estate del 1943 nel sud dell’Italia, 16.000 tra malati e anziani e 15.000 per ricostituire unità armate in sostituzione di truppe alleate trasferite sul fronte francese, ma niente che riguardasse l’India. La maggior parte dei 600.000 prigionieri (militari) presi in tempi diversi fino al 43 potrà rientrare a casa solo a guerra conclusa…
Su L’Europa della Libertà anche:
Dopo l’8 settembre, negli USA. Soldati italiani e crimini americani. Il film su Rai Storia chi l’ha visto?s
23 Agosto 2013 Fonti: Rai Storia, “Beppe Niccolai”, Il Foglio, Il Giornale, Il Corriere della Sera, Comites Houston (USA) Michele Anselmi, Giovanna Grassi Nota di Domenico Cambareri Ci sono crimini e crimini. Quelli dei “liberatori” sono tra i peggiori e…
Civili italoamericani e tedeschi nei campi di concentramento USA e delle Americhe, II guerra mondiale. 2
06 Gennaio 2018 Fonte: Texas Histocial Commission Blog Menu Donate Home About Us Commissioners The Texas Historical Commission Library Our Divisions Reports Texas Statewide Preservation Plan Publications Contact Us Staff Directory Forms You are here…
Civili italoamericani e tedeschi nei campi di concentramento USA e delle Americhe, II guerra mondiale. 1
05 Gennaio 2018 Fonte: German American Internee Coalition Una Storia Segreta: the Secret history of Italian American Evacuation and Internment during World War II DiStasi, Lawrence, ed. Una Storia Segreta: the Secret history of Italian American Evacuation and…
LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA
LA MANNAIA SUL SILENZIO da LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992.
Parte III Le solitudini Cap. II: La mannaia sul silenzio Leonida Fazi (pp. 301-304) ….. Non si seppe mai chi ebbe per primo l’idea espressa da Nardi di «un campo tutto per noi». Forse nacque in questo e in quello contemporaneamente e nacque nei tre anzi nei quattro Campi, il 25, il 28, il 27 e anche nel 26, il «cimitero degli elefanti». L’idea era semplice e ovvia: visto che noi siamo delinquenti, visto che vi avete dato l’ostracismo e visto che non cederemo mai, mandateci in un campo riservato a noi soltanto, prima che succeda qualche cosa di brutto. La richiesta fu avanzata in molti modi, sia ai supervisori, a voce, sia agli inglesi e perfino alla Croce Rossa Internazionale usando i moduli per la corrispondenza con le famiglie. Ai colonnelli non parve vero e si affrettarono a persuadere gli inglesi che con quella richiesta i repubblicani si erano autodistrutti. Come? Semplicissimo: per liberarsi di quei fastidiosi ribelli sarebbe stato sufficiente avvertirli che la loro richiesta sarebbe stata accolta solamente se avessero dichiarato ufficialmente, dinanzi agli inglesi, di essere fascisti e nemici degli Alleati. E chi mai, argomentarono, avrebbe avuto il coraggio di rilasciare, oggi, una simile dichiarazione che li poneva, prigionieri com’erano, alla mercé di Londra e del regio governo badogliano, senza possibilità di difesa? Il generale Laird, comandante del Gruppo Campi, si convinse che i supervisori avevano ragione e dette le sue disposizioni ai “maltesi”. La faccenda fu condotta al 27 e al 25, nonché fra i pochissimi ribelli del «cimitero degli elefanti», con modalità diverse. Al Campo 25, per esempio, i prigionieri sfilarono davanti al “maltese” capitano Speranza (*) che poneva loro al domanda: “Fascista?” Il prigioniero doveva rispondere sì o no senza aggiungere altra spiegazione. Ma al Campo 28, Nardinocchi ebbe il lampo di genio. Fece distribuire una circolare preceduta dal sacramentale «In nome di S.M. il Re emano la seguente disposizione che ha valore di legge». Seguiva la disposizione: «Gli ufficiali che desiderano essere trasferiti in un campo omogeneo sono tenuti a riempire e firmare le allegate domande redatte in lingua italiana e in lingua inglese per l’inoltro di entrambe al Comando britannico del Gruppo Campi e la successiva trasmissione al Governo britannico e al Regio governo italiano. Le domande, nel testo integrale, dovranno essere presentate al comando italiano del Campo 28 entro e non oltre trenta giorni a partire dalla data del presente foglio disposizioni». Insieme con la circolare furono distribuiti i fogli di domanda, già dattiloscritti. Erano così compilati, in lingua italiana e in lingua inglese: «Il sottoscritto P.O.W. numero… grado… cognome… nome… Campo… Ala… chiede di essere trasferito in un campo riservato ad elementi di fede fascista – pro Asse. – Firmato…». Rigirandosi fra le dita circolare e moduli, Chichibio chiese: – Chi ha da scrivere? Ho finito l’inchiostro. Ehi, tu, aspetta un momento – disse poi al latore dei fogli. – Ma non c’è fretta! – – Ce n’è, altro se ce n’è! – esclamò Maposi riempiendo e firmando i moduli, imitato da Rominasi. – Voi? – chiese il latore a Niccolai e a Giovannoli. Costoro non risposero e continuarono a leggere e a rileggere circolare e moduli. Quella sera, a mensa, si fece un gran parlare e un gran discutere. Corsero parole grosse. Due si accapigliarono. – Dove ci manderanno? – chiese Chichibio a Maposi. – Be’, c’è già il terzo recinto del Campo 25. Ci manderanno lì. – – Speriamo che il mese passi presto. Non vedo l’ora di essere libero. – – Libero? – – Qua dentro siamo prigionieri due volte. Là, una volta sola. – Ma, due sere dopo, Pizzi e Perla e gli amici delle Ali superiori si riferivano l’un l’altro la voce che circolava: in tutti i Campi stava accadendo l’impensabile. A decine, a centinaia, gli ufficiali già «badogliani» stavano inoltrando le domande. Al 25 in gran numero avevano risposto “sì” alla domanda “siete fascista?”. Il colonnello Nardinocchi è disperato, il colonnello Gambuzza non sa più da che parte rivolgersi. Alle domande perplesse di Chichibio, Perla spiegava: – Sai che cosa è successo? Che in tanti si sono ricordati di avere le palle sotto. Si considerano insultati. In sostanza dicono questo: credevano che io avessi paura, mi hanno preso per un vigliacco? Fascista-pro Asse? Sissignore! Fascista pro Asse e mandate i moduli con la mia firma a chi vi pare, a Churchill, a Badoglio, al Papa, a Dominiddio! Questo dicono. E pare che gli inglesi ce l’abbiano con i colonnelli che li hanno informati male. Le domande seguono alle domande, è una frana. Va a finire che in minoranza sono i badogliani. In un mese di tempo quanti diventeremo? – – E’ la riprova che a dividerci sono stati i colonnelli, Dio li fulmini! – brontolò Rominasi. Ma i colonnelli, ovviamente d’accordo con gli inglesi, decretarono che il termine per la presentazione delle domande era anticipato ad una settimana dalla distribuzione dei moduli e che nessun’altra domanda, dopo tale termine, sarebbe stata presa in considerazione. Allora i repubblicani della prima ora fecero un po’ di conti e si avvidero, con qualche approssimazione, che da duecento ch’erano all’inizio si trovavano adesso, grosso modo, in 2000. – Duemila di fede fascista-pro Asse! E’ un bel botto per Gambuzza e per Nardinocchi. Perché non fanno un altro telegramma al loro Re? – E Perla, con la pancetta che sussultava dal gran ridere: – Ma vi siete accorti quanto è fesso Nardinocchi? Quella che, secondo lui, è l’Italia, cioè quella di Vittorio e di Badoglio, è in guerra con la Germania, si fa per dire. E lui non ti va a parlare di fede pro Asse? Dunque l’Asse esiste, dunque l’Italia che conta è sempre quella di prima, è, salvognuno, la Repubblica Sociale Italiana! – Nonostante questi commenti e questa ilarità e nonostante la innegabile soddisfazione di non essere più mosche bianche annaspanti nella tenebra della resa e dello sfacelo, i primi repubblicani non dettero, in fin dei conti, eccessiva importanza all’accaduto. Per quanto riguardava ciascuno di loro, infatti, non era cambiato niente. .…. *** (pp. 308-312)…..Andarono alla conta, come tutte le mattine e stavano uno accanto all’altro, come sempre, ma in silenzio a differenza del solito. Il “maltese” e il quartiermastro Tommy li contavano, tre per tre, mentre passavano nell’antirecinto. Pareva una mattina come tutte le altre se non fosse stato per lo strano mutismo che perdurò, una volta che si ritrovarono ammassati dall’altra parte. Poi, il maltese fece l’appello dei repubblicani che uscivano dalle file ad uno ad uno e si portavano là dove indicava il quartiermastro, in fondo all’antirecinto, presso il reticolato che dava sulla strada oltre il quale sorgeva il Campo 25. Ogni qualvolta uno di loro si allontanava dalle file qualcuno salutava. Le voci erano basse, le frasi monche. Finalmente, gli altri rientrarono nel recinto e i repubblicani rimasero soli. Il quartiermastro disse a Chichibio, con un largo sorriso: – Io accompagnare voi, io venire con voi. – – Ribelle anche lui! – vociò Perla. – You criminal fascist? – Il quartiermastro rise, dandosi una manata sulla coscia. Poi disse: – Io andare per vostri camerati altri wings. Aspettare qui. – Attesero una mezz’ora. Poi vennero giù per il camminamento di ronda i repubblicani delle ali superiori. Portavano le loro sacche in spalla e qualcuno una sgangherata valigia, ma si erano sbarbati e vestiti come meglio potevano. Qua e là, si vedevano i residui delle uniformi. Erano tutti ilari, come ragazzi diretti ad una gita. Ci furono saluti a gran voce e grida e risate. Bastiani, Burroni e Sabbatini ebbero una mezza ovazione. Poi il piccolo clamore, a poco a poco, si placò, si ridusse ad un mormorio. – I russi hanno lanciato un’altra offensiva – mormorò Maposi a Chichibio. – E allora? – – Pare con successo, dice lo Statesman. Va tutto a rotoli. – Talli, che con Camori, Mistretta e Fazi, era accanto a Chichibio, Maposi, Rominasi, Pizzi e Perla, disse: – I tedeschi, pare, reggono. Si ritirano ma reggono. E c’è il Giappone. Ma, tanto, chi spera più? Durerà a lungo, ma a marcia indietro. L’America, la Russia, l’Inghilterra, tutto il mondo contro. Perla gridò: – E allora? Noi sputiamo in faccia al mondo! – Molti si voltarono a guardarlo e uno riassunse quanto tutti avevano dipinto in faccia: – Ecco, bravo. Hai creato il nostro motto araldico. – Poi, anche l’ultimo mormorio si spense. Ora tacevano tutti, in fila indiana lungo il reticolato, guardando di là. Quasi di fronte a loro c’era, di là dalla strada, il cancello del 2/B del Campo 25. Improvvisamente, quel cancello si aprì, tre o quattro soldati inglesi apparvero sul limitare e si fecero da parte. Allora, cominciarono ad uscire i badogliani, in silenzio, I repubblicani continuarono a tacere. I badogliani, man mano che uscivano e, in fila qua e là disordinata o compatta, prendevano a scendere giù per la strada, guardavano verso il reticolato del 28. Qualche voce si levò, da una parte e dall’altra e Chichibio temette che parole irose ed insulti venissero scagliati, ma quelle pochi voci si spensero subito lasciando tornare, pesante, il silenzio. Chichibio “vide” il silenzio come un ammasso informe, incolore, massiccio, che il reticolato, simile a una mannaia, spezzasse in due. Muti e immobili i repubblicani, muti i badogliani dai quali saliva soltanto lo scalpiccio disordinato dei passi. Chichibio guardò le innevate grandi montagne incombenti, i neri pali a forca, la distesa delle baracche dai lucidi tetti di lamiera, il cielo di smalto azzurro nel quale volteggiavano, alti e lenti, gli avvoltoi e i falchi e, dentro tutto questo, quell’Italia che erano loro, repubblicani e badogliani, quell’Italia cupa spezzata in due tronconi che si allontanavano l’uno dall’altro. L’Italia muore, pensò Chichibio. La disfatta, ormai, stava dietro di loro ma questa era la vera morte e quei due tronconi taciturni e sempre più distanziati le cantavano, con il loro silenzio, la Messa da requiem. Lacrime invano represse gli fecero velo e attraverso questo guardò l’ufficiale che precedeva i badogliani, isolato. Era avvolto in una mantellina grigioverde e portava un cappello alpino con la penna bianca, chissà con quanta fatica salvata sino a quel momento. Per un attimo lo sguardo di Chichibio s’incrociò con quello del colonnello alpino e Chichibio vide in quel volto triste sino alla disperazione il proprio volto. Pensò vagamente: «io bersagliere, lui alpino… anche qua degli alpini, anche là dei bersaglieri»… La sua mente fu invasa tutta da una parola esplosa come un boato: «Perché?» e voleva significare «perché hanno fatto questo?» Ma non disse parola. La fila badogliana continuava a scendere, scomparve laggiù dove la strada incurvava. Tommy il quartiermastro, molto serio, disse: – Come on – aggiungendo poi, gentilmente: – Volere venire con me. – Rientrarono nel recinto, lo attraversarono, sostarono dinanzi al cancello di uscita. Niccolai e Giovannoli erano già lì, con le sacche di Chichibio, di Maposi e di Rominasi. Altri badogliani si avvicinavano, salutavano questo e quello ma le parole, le frasi erano incerte, monche, piene dell’imbarazzo di chi non sa che cosa dire, che cosa augurare. Finalmente, il cancello si spalancò, Tommy fece segno ad una squadra di soldati inglesi di precedere, poi, ai repubblicani: «Come on, please». Automaticamente, d’istinto, si erano allineati in fila per tre. Uno disse: – Non come un branco. – E un altro: – Chi è il più alto in grado? – Il tenente colonnello dai capelli bianchi uscì dalla fila e gridò: – Signori ufficiali, attenti! – L’attenti delle tre file fu perfetto. Per qualche secondo, il vecchio ufficiale li guardò, poi comandò: – Signori ufficiali! Avanti, march! – La piccola colonna marciò, a passo cadenzato, attraversò il cancello, prese a salire la strada, sempre a passo cadenzato. Il tenente colonnello si volse un attimo e poiché il passo s’era qua e là scomposto, comandò «Unò, duè, unò, duè». Il passo ridivenne compatto. Tommy sorrise e prese la cadenza. I soldati inglesi lo imitarono. Dal Campo 28 non veniva una voce. Molti, di là dai reticolati, guardavano. Il passo cadenzato risuonava nel silenzio. Chichibio sorrise a Mariposi e questi gli sorrise. Gli parve di sentire il piumetto sfiorargli, ondeggiando, la guancia destra. Cantò dentro di sé «Piume baciatemi, la guancia ardente, che al bacio un fremito, nel cor si sente, piume riditemi, di gloria i canti e ripetetemi…». La parola antica “Savoia” fu sostituita d’istinto: «…Italia avanti…». Non cantava, naturalmente, né parlava. Nessuno pronunciava parola. Quel passo cadenzato che per la prima volta risuonava nella città reticolata, era il loro canto. A Chichibio parve che non s’udisse altro suono nel mondo intero. Di là dal cancello del 2/B del Campo 25 li attendevano in molti. Furono grida, richiami, risate, stringersi di mani. Chichibio sussultò. Ma quel Colonnello piccoletto, in giubba grigioverde e pantaloni cachi, non era?… Sì, era lui. Gli corse incontro: – Signor Colonnello Pinto! – Quello lo guardò perplesso e Chichibio: – Non potete ricordarvi, Ma io vi ricordo. Comandavate il Campo di Bhopal! – – Vi ricordate ancora di me? – – Non ho mai dimenticato le vostre parole del primo giorno. Sono contento che siate qua! – – Anch’io!- Si strinsero la mano, ridendo. Poi Chichibio, sempre sorridendo: – E la dentiera, signor Colonnello? – – Uno schifo come sempre! – E si strinsero ancora la mano, allegrissimi. Un altro gruppo, proveniente dal Campo 27, sbucò dalla curva della strada. Anche questo, ordinato, silenzioso, allineato su tre file, marciava a passo cadenzato. – Ma si può sapere chi ha avvertito tutti di marciare al passo? – chiese Maposi. – E a noi chi l’ha detto? Nessuno. – Quel passo cadenzato fu il primo distintivo del Campo 25, la prima ed unica bandiera del Campo 25, della Repubblica di Yol di Kangra Valley, issata d’istinto, – Ehi! – gridò Nardi a Chichibio. – Che cosa ti avevo detto? Resurrecturis! – E rimase lì a guardarsi attorno, la faccia tagliata e illuminata da una risata silenziosa, felice e amara.LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Leonoda Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)
LA CITTADELLA ASSEDIATA da LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini Cap. III: La cittadella assediataLeonida Fazi (pp. 313-317)…..Quel 16 ottobre del 1944, cioè dieci mesi dopo l’uscita di Chichibio dal Campo 28, segnava una data piuttosto importante nella vita dei difensori di quella sorta di cittadella cinta d’assedio ch’era il Campo 25. Il giorno prima, per logica reazione alle ingiurie e alle minacce trasmesse da Radio Delhi e diffuse dagli altoparlanti, avevano risposto per iscritto alla traccia di vigliaccheria che delle ingiurie costituiva il succo. Poiché le accuse di ribellione non avevano fatto breccia, poiché le accuse di tradimento si prestavano, dopo il voltafaccia badogliano dell’8 settembre 1943, ad essere abbondantemente ridicolizzate dagli imputati, i colonnelli e la suddetta Radio Delhi avevano puntato sulla viltà. «Quei criminali» dicevano all’incirca «hanno paura di combattere ed è questa la ragione vera del loro rifiuto di cooperare con gli Alleati». I Venticinquisti finirono per aver piene le tasche della diceria e decisero di liberarsene una volta per tutte scegliendo l’unico modo possibile di combattere. L’aver rifiutato di riconoscere la resa senza condizioni, l’avere accettato di essere definiti «elementi di fede fascista-pro Asse» e l’aver firmato simile definizione così che, in futuro, non vi fosse possibilità di equivoci, evidentemente non era considerato sufficiente per non essere giudicati privi di coraggio? Occorreva, dunque, ancora un passo, per quanto pleonastico ormai fosse. Quale? Ebbene, quello di dichiararsi cittadini della Repubblica Sociale Italiana, dell’unico Stato, cioè, cui potevano riferirsi ed i cui motivi ideali – questo il punto di capitale importanza! – avevano addirittura anticipato quando esso non esisteva ancora. Si sarebbe in tal modo reso difficile, anzi impossibile a chiunque, definire vigliacca della gente che, mani e piedi legati, chiusa dentro reticolati vigilati materialmente dagli inglesi e idealmente dai colonnelli italiani, senza possibilità alcuna di scampo, si dichiarava solidale con chi, in Italia, contro inglesi e badogliani combatteva armi alla mano. Della Repubblica Sociale Italiana, del resto, ormai sapevano tutto, grazie alle notizie della Radio Fantasma (che i facitori di miracoli avevano immediatamente rimesso in funzione portandosi dietro elementi base già procuratisi subito dopo la consegna agli inglesi delle vecchie radio), grazie alle notizie e agli articoli dello “Statesman” nonché alle contronotizie del “Corriere”, giornale dei badogliani, e grazie agli altoparlanti diffusori di Radio Delhi. Sapevano di Graziani, di Borghese, della Decima Mas, dei reggimenti bersaglieri ricostituiti, dei piloti, dell’afflusso di ragazzi volontari, delle Ausiliarie, della Divisione alpina Monterosa, della Guardia Nera Repubblicana; ma sapevano anche dei partigiani, delle liste di proscrizione diffuse da Radio Bari. Sapevano che l’odio contro di essa era tanto cieco e stupido da aver cagionato l’assassinio di Giovanni Gentile e da ignorare quanto ai Venticinquisti appariva estremamente chiaro: che, cioè, solo la Repubblica Sociale si frapponeva tra gli italiani e la rappresaglia tedesca che essi avevano previsto e paventato l’8 settembre ’43. Sapevano, di conseguenza, che tale enorme merito non avrebbe procurato ad essa nessuna gratitudine. Erano convinti che ogni logica ed ogni verità erano ormai e sarebbero state ancora più in futuro spazzate via dal biblico spirito di vendetta degli ebrei e dei protestanti e dei sovietici fusi nel più innaturale degli amalgami tra loro e con i cattolici che si rifacevano alla Chiesa romana. Sapevano, infine, ciò di cui i colonnelli avevano dimostrato di essere convinti con il loro comportamento vessatorio e minaccioso: che quell’amalgama, cioè, avrebbe sepolto la Repubblica Sociale sotto le macerie dell’Europa insieme con quel Duce che essi consideravano, istintivamente, l’ultimo Europeo. Schierarsi, dunque, con la Repubblica Sociale Italiana, in tali condizioni, significava innalzare dinanzi alla morte, oltre la morte, una bandiera, per loro quanto mai pura, ch’era fascista e mussoliniana sol perché innalzata dal Fascismo e dal suo Duce, gli unici che difendevano, armi in pugno, la dignità e l’onore dell’Italia e, pertanto, degli ufficiali italiani. Di conseguenza accordatisi tutti su un testo uniforme, il 15 ottobre 1944 fecero affluire ai comandi italiani dei cinque recinti, per il successivo inoltro, la seguente dichiarazione individuale: «Al Comitato della Croce Rossa Internazionale di Ginevra. – Delegazione della Croce Rossa Internazionale Simla – e per conoscenza al Comando V Gruppo Campi Prigionieri di Guerra Italiani e Comando del Campo 25, tramite il Capitano comandante dell’Ala (1A, 1B, 2A, 2B, 3) – 15 ottobre 1944. Il sottoscritto P.d.G. (numero di matricola, grado, cognome e nome) Ala (1A, 1B, 2A, 2B, 3) dichiara di non riconoscere l’armistizio dell’8 settembre 1943 tra gli Alleati e Badoglio, di considerarsi soldato e cittadino della Repubblica Sociale Italiana tuttora in guerra con lo stesso nemico come Potenza dell’Asse, e di voler essere trattato alla stregua dei prigionieri di guerra delle Potenze dell’Asse. Firma…». Contemporaneamente, non soltanto le comunicazioni scritte che venivano affisse alle bacheche dei “Circoli” ma anche le comunicazioni con il Comando inglese relative alle minime vicende di quella vita reclusa, portarono non più la semplice dicitura «Campo 25 Prigionieri di Guerra Italiani» bensì la intestazione «Campo 25 P.d.G. Repubblicani Fascisti», insegna, del resto, sin dai primi giorni apparsa sui fogli interni dei comandi di recinto e circolante nella consuetudine orale di tutti. La dichiarazione, infatti, costituiva soltanto un atto formale, ufficiale. La Repubblica Fascista dell’Himalaya era già stata in gestazione negli altri campi, era nata quando i vari gruppi ne erano usciti simili a reparti in cadenzata marcia verso l’ignoto, per avere nel Campo 25 il proprio battesimo il 9 febbraio 1944 quando avevano pronunciato il loro giuramento, da nessuno richiesto né imposto. Divisi per “Sezioni”, colme le baracche furono denominate, e per “Ali” (traduzione dell’inglese Wings), perfettamente inquadrati, i Venticinquisti si erano radunati in uno degli antirecinti ed avevano ascoltato il Console Renato Gambrosier (*), eletto comandante italiano del Campo 25, leggere una formula inequivocabile. Questa: «Giuro di servire e difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. E giuro di combattere per l’indipendenza e l’avvenire della Patria. Lo giurate voi? ». Avevano urlato, tutti, «lo giuro» ed il grido era sembrato espandersi per le valli del Dhola Dhar le cui montagne bianche di neve scintillavano contro il cielo intensamente azzurro, appena turbato per pochi secondi da un minuscolo fiocco candido formatosi sopra il Monte Nodrani e subito dissoltosi. Ma quella formula, ben presto conosciuta negli altri campi tramite radio-reticolato e tramite i “maltesi”, si prestava alla derisione di quanti non riflettevano su quel “sacrificio supremo” reso quanto mai realistico dalle condizioni di totale impotenza in mano tecnica. Poiché riflettere, sempre difficile, diventa impossibile quando una qualsiasi passione offuschi il cervello, quel giuramento era stato, infatti, gabbato per vuota retorica dai colonnelli badogliani in eterna ricerca di quanto potesse svuotare di significato e ridicolizzare quei repubblicani che continuavano a rappresentare la loro cattiva coscienza quando i suddetti colonnelli riuscivano a chinarsi dentro di loro stessi ed a trovarsi così faccia a faccia, appunto, con la coscienza. Era necessario, dunque, agire concretamente, passare dalla parola all’azione. Orbene, una sola azione poteva essere compiuta: dire al mondo, ciascuno per proprio conto, con tanto di nome e cognome e ogni altro particolare atto alla identificazione del dichiarante, di essere un Repubblicano Fascista, un soldato della Repubblica Sociale Italiana caduto prigioniero, e di voler esser trattato a tale stregua; e questo, ciascuno per proprio conto, democraticamente, così come ciascuno per proprio conto, senza proselitismo alcuno, aveva creato sin dall’8 settembre la Repubblica Fascista dell’Himalaya. Uno spettatore avrebbe colto l’apparente contraddizione di quel Campo che, mentre si rifaceva ad una dittatura, dava uno sconcertante esempio di democrazia, la più ampia possibile e, insieme, di rigida disciplina. «Ma chi ha avvertito di marciare al passo?» aveva chiesto Chichibio a Maposi il giorno del passaggio e questi aveva risposto “nessuno”. Quel passo cadenzato, infatti, era stata la prima manifestazione istintiva della reazione allo sfacelo. Il Campo 25 Repubblicani Fascisti era l’antiresa, l’anti-disordine, l’anti-dissolvimento. Era, dunque, impensabile che continuasse a somigliare ad un branco di poveri prigionieri derelitti. Prigionieri certo, solitari indubbiamente, abbandonati anche dal Governo Spagnolo che aveva dichiarato di tutelare soltanto gli interessi del governo regio. Ma non naufraghi bensì a galla sul naufragio, non moribondi bensì vivi. …….LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Leonoda Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)
GLI AGONALI DEI SEMPRE-VIVI da LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini Cap. VI: Gli agonali dei sempre-viviLeonida Fazi (pp. 430-432) .…. Durante le giornate del 26 e del 27 aprile 1946, tutti avevano lavorato a rabberciare i brandelli delle vecchie uniformi, a ricostruire in qualche modo mostrine e nastrini delle campagne di guerra ed a fissare su queste pezzetti di lana brunita, argentea e dorata che fungevano da distintivi delle medaglie. Chichibio non aveva medaglie, per quanto ne sapeva, non ne avevano Nardi, Maposi, Talli, Camori, Mistretta, Fazi, Pizzi e Perla, ma non se ne curavano. Sapevano di essere caduti prigionieri senza vigliaccheria, di avere fatto il loro dovere e qualcosina di più, qualcuno molto di più e tanto bastava. Rominasi ne aveva una d’argento, ma Chichibio dovette insistere perché la smettesse di spolverare e lustrare il berretto da tenente dell’Aeronautica che, per il lunghissimo uso, era assai malridotto e fissasse, invece, sul nastrino della campagna il suo pezzettino di latta. Il Venticinque aveva un gran daffare, come un reggimento che, nel chiuso d’una caserma, si prepari una solenne parata. La notte, poi, tornava a mettersi in fila nel buio per rivedere in quella sorta di tempio la storia e la propria vita. All’alba del giorno 28, il Sacrario fu smantellato e qualche ora più tardi ogni Ala, inquadrata, confluì al 2/B. Non si vedevano inglesi né indiani in giro, se non di là dai chiusi cancelli d’uscita e sulle garitte. Divisi per Ala e per Sezioni, cioè per compagnie e plotoni, i Venticinquisti s’inquadrarono. Poi marciarono col consueto passo cadenzato, entrarono nel Campo Sportivo, si fermarono, fecero fronte alle gradinate. Nel silenzio risuonavano i secchi comandi di uno che, fuori dalle file, fungeva da comandante. Questi, un maggiore dai capelli grigi con le fiamme cremisi sul bavero, si portò di corsa presso le gradinate sulle quali stavano Gambrosier e i tre comandanti di Ala, e presentò la forza. “Tutti presenti!” disse ed era vero. C’erano tutti, anche i soldati volontari nel Campo. Gambrosier salutò, disse “riposo” e all’ordine del «comandante la truppa», lo schieramento passò sul riposo, all’unisono, la gamba destra avanti, le braccia dietro la schiena. Si udì, ovattato, il lieve tonfo. L’ordine perfetto contrastava drammaticamente con l’aspetto. Sahariane, giubbe di diagonale, pantaloni da ufficiale sotto camicie cachi, uniformi del Campo 25, berretti da ufficiale, alcuni caschi coloniali. fiamme mostrine e gradi cuciti su quegli abiti strani, formavano un insieme singolare che avrebbe potuto assimilarli ad una banda di grotteschi straccioni. Sembravano, invece, ed erano, per le stellette o i fasci che tutti portavano al bavero, per il nastrino che tutti avevano sul petto, per le file rigidamente allineate e per il silenzio, un reggimento formatosi, pensò Chichibio, con i morti risorti dai campi di battaglia e confluiti lì, ai confini dell’universo, in solitudine perfetta. La voce di Gambrosier si levò, nitida: – Rendiamo gli onori a tutti i Caduti su tutti i fronti, che riassumiamo nel Capo cui ci siamo riferiti come punto fermo nel naufragio di tutti i valori. L’Italia è distrutta ma la Patria è viva, la Patria è qui. Con le nostre vecchie insegne onorate, rendiamo onore alla Patria nella bandiera che per la prima ed ultima volta issiamo, per un minuto, dietro i reticolati. Onori alla bandiera! – – Campo Venticinque Repubblicani Fascisti, attenti! – gridò il comandante. Si udì un secco, unico battere di talloni. – Dietro front! – Il “reggimento” eseguì. Allora, sul palo di mezzo dei tre piantati per gli Agonali, salì lentamente una grande bandiera tricolore il cui bianco non portava stemma. Chichibio seguì con lo sguardo quel drappo a poco a poco dispiegato da un vento lieve, tremolante per le lacrime che gli velavano gli occhi. – Dietro front! – Il reggimento fantasma tornò a volgersi verso le gradinate. Chichibio scorse, nella fila davanti a lui, le tre Medaglie d’Oro, Bastiani, Burroni, Sabbatini, irrigidite, ma il suo sguardo, scivolando su loro, salì verso le gradinate e di lì cercò il cielo, sgombro di nubi e lassù, al sommo delle gradinate vide apparire, in fila per uno, una squadra di soldati inglesi armati. Il silenzio era tale che pareva poter udire il fruscio delle ali degli avvoltoi e dei falchi che ruotavano alti. Scandita, e lenta, la voce di Gambrosier: – Benito Mussolini, caduto per la Patria, soldati, sottufficiali, ufficiali delle Forze Armate di terra, del cielo, del mare caduti ovunque per la Patria. – – Presente! – urlò il reggimento. La fila dei soldati inglesi, lassù, presentò le armi. Tommy, che li comandava, salutò a suo modo, rigidamente. – Dietro front! – Di nuovo, fronte alla bandiera. Nell’immobilità e nel silenzio di tutti, la bandiera tornò a scendere, lentamente, lungo il palo. Prima che arrivasse a terra, il vento la dispiegò tutta. Come un ultimo sussulto, pensò Chichibio. Anche agli altri rotolavano giù per il viso, le lacrime che lui sentiva scendere sul suo? Come quella di mia madre, pensò. – Rompete le righe! – Il reggimento fantasma si sgretolò a poco a poco, come a malincuore. Chi si avviava verso le proprie Ali, chi rimaneva in mezzo al Campo Sportivo, chi sedeva sulle gradinate. Non si udiva che un mormorare sommesso.LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Leonoda Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)
I NAUFRAGHI DI TAMROA da LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini Cap. VII: I naufraghi di TamaroaLeonida Fazi (pp. 433-465)…..I giorni, le settimane, i mesi ripresero a trascorrere. In Italia, Umberto saliva al trono, poi ne scendeva per prendere la via dell’esilio. Chichibio seguiva distrattamente gli eventi, quasi non lo riguardassero. La sua Patria era discesa nel sepolcro quella mattina del 28 aprile ed era subito risorta per accamparsi, per sempre, dentro di lui. Così pensava. La Repubblica Fascista dell’Himalaya proseguiva nella sua vita minima con l’usata serenità ma con qualche rallentamento. Vaghe voci di rimpatrio imminente generarono il rallentamento. I teatri, per quelle voci, rimasero chiusi. La posta, adesso, giungeva più di frequente e con date più recenti. I pensieri di tutti cominciarono a volgersi soltanto verso la casa, verso le madri, i padri, e chi ne aveva, i figli. Fu verso la fine di giugno che Chichibio, alla distribuzione della posta alla quale ormai non accorreva più, udì da lontano risuonare il proprio nome, per la prima volta dall’ottobre del 1944, quasi, cioè da due anni. Corse, ansante. Qualcuno gli porse una cartolina. Vide, subito e soltanto, la firma. Era la sorella. Poi, cominciò a leggere dalla prima riga. C’era scritto: «20 marzo 1946. Speriamo che tu stia bene. Sui giornali abbiamo letto che i prigionieri torneranno presto, forse tra un mese. Ieri siamo andati a portare i fiori sulla tomba della mamma. Ti abbraccio forte forte». Una botta sulla nuca, la solita botta. Chichibio, piantato lì come un palo, rilesse quelle parole: «Ieri siamo andati a portare i fiori sulla tomba della mamma». Tornò a rileggerle una, due, cinque volte. Ma il significato non mutava mai. La mamma era morta. Quando? La sorella non lo diceva. Certamente gli aveva dato la notizia, prima, ma lui non l’aveva mai ricevuta. Quando? Certamente in un giorno qualunque di quei due anni senza posta. Si guardò attorno. Altri, qua e là, leggevano le loro lettere ma uno soltanto, leggendo, sorrideva. Forse agli altri erano arrivate analoghe notizie desolate, ma ciascuno le teneva per sé. Come confidare un dolore a chi forse aveva altri dolori simili da sopportare? Ecco, sua madre era morta e lui doveva seppellirla dentro di sé, senza onore di quel funerale che il cordoglio altrui avrebbe rappresentato. Tornò alla sua baracca, sedette sul cemento della pensilina, le gambe ciondoloni e la cartolina fra le mani. Gettò ancora uno sguardo su quelle parole. Il loro significato era sempre quello, sarebbe stato sempre quello, proprio per sempre, senza rimedio. Cominciò a rivedere la madre degli anni dell’adolescenza e della giovinezza: quella volta che l’aveva lasciata in ansia durante due notti da lui trascorse con una ragazza il cui aspetto e nome non ricordava più; quella volta che le aveva risposto male, e vide il volto di lei stupito e triste per il suo stupido malgarbo; quella volta che lasciò inappagato il desiderio di lei di uscire a braccetto del figliolo sottotenente dei bersaglieri, aitante e occhieggiato dalle donne. Vuoti incolmabili, beni perduti senza ritorno. E poi il marciapiede della stazione, lui ridente sulla tradotta fiorita di fez rossi e lei ritta, immobile, vestita di nero, che lo fissava con quel sorriso e quella lacrima sul volto bianco, di pietra. Il sogno dell’estate del ’42. Era stato profetico. Il Duce prigioniero, la lunghissima teoria dei soldati prigionieri che ascendevano il Golgota e lei – ch’era anche l’Italia – morente sul letto di ferro smaltato di bianco, sotto la bianca coperta di piquet. E le suore dalle cuffie inamidate dalle grandi ali bianche, le suore dell’ospedale del suo paese. Era morta all’ospedale? in quell’ospedale? Avrebbe saputo al ritorno. Era morta, non c’era più, non l’avrebbe più riveduta. Come l’Italia della propria giovinezza, morta per sempre. Stupefatto, si avvide di non piangere. Rimase lì a lungo, in attesa delle lacrime, dei singhiozzi. Ma i suoi occhi rimanevano aridi. Sentiva sullo stomaco un blocco di cemento. Nardi, che da qualche minuto l’osservava dalla soglia della loro camera, si avvicinò e chiese: – Brutte notizie? – Chichibio annuì col capo. Nardi ebbe un gesto vago. Chichibio lo guardò e sorrise. Poi si cacciò in tasca la cartolina e si alzò. Disse: – E’ tardi. Andiamo a mensa? – Andarono, uno accanto all’altro, senza dirsi niente. Chichibio sentiva la nuca indolenzita, per il solito colpo ricevuto. La grande pioggia incominciò, irregolare. In Italia avevano messo su la repubblica, ma non era la loro repubblica. Forse è peggio della monarchia, pensava Chichibio ma si rispondeva subito che, ormai, era futile fare differenze fra il male e il peggio. Il cervello di Chichibio, del resto, s’era come intorpidito. Quando fra i membri della loro “squadraccia” si accendevano discussioni sul presente e sull’avvenire dell’Italia inframmezzate a previsioni sulla futura esistenza di ciascuno, Chichibio ascoltava a mezzo e quasi non interloquiva. L’Italia e l’avvenire, che cosa rappresentavano? una landa grigia di penombra, una non-attesa, un non-desiderio. Sua madre non c’era più. Suo padre? forse un nemico, quanto meno un estraneo, forse. Sua sorella? cara, molto cara ma aveva un marito, dei figli. Lui non aveva niente, poiché la madre non c’era più. Al posto di sua madre, l’attesa accorata di lei di rivederlo troncata dalla morte: un vuoto incolmabile. La Patria? Ma stava qui, nella Repubblica Fascista dell’Himalaya dove era vissuto dai primi del 1944, per quasi tre anni, con il fantasma di essa composto di morti. Nella Penisola? macerie, odio, ferocia, menzogne, ipocrisie. Nel campo correvano voci di rimpatrio prossimo e qualcuno attendeva con ansia che si concretizzassero. Ma lo lasciavano indifferente. Il ritorno lo disgustava. Meglio se fosse rimasto qui, nella sua Patria limpida. Tornare, perché? Le voci di rimpatrio si fecero improvvisamente più decise, sino all’annuncio certo: il 15 settembre si parte. Ma il 18 settembre corse la voce: si parte il 30. Due o tre giorni più tardi, la nuova certezza: si parte il 15 ottobre. – Facciamo le quindicine come le buonedonne – disse Nardi. La regolarità degli annunci e dei rinvii, di quindici in quindici giorni, sembrava denunciare un piano preciso, un divertimento inglese. Quando Perla, tutto eccitato, venne a dirgli che si sarebbe partiti non il 15 ma il 30 ottobre e che la cosa, questa volta, era certa, Chichibio rispose a mezza voce: – Non me ne frega niente. – – Come?! – – Sai, sono così vecchio!… – Perla lo guardò perplesso e lo piantò lì. Seduto per terra, addossato alla parete della baracca, Chichibio si chiese perché si sentisse vecchio. Aveva avuto 26 anni quando era precipitato nella prigionia. Quel giorno la sua giovinezza era morta. Ora aveva quasi 32 anni. In cinque anni e mezzo aveva perduto tutto: la vittoria, la speranza, la sposa promessa, la madre. E la virilità, se non quella, forse, dei sensi, certo quella della psiche. E l’Italia, la sua Italia. Era vecchio. Poteva benissimo morire, adesso, dentro quei reticolati cui si era affezionato perché lo avevano protetto dallo sfacelo. Che cosa gli rimaneva, infatti? Eppure gli rimaneva qualcosa di enorme: la serenità del dire: le mie mani sono pulite, la mia coscienza è netta, rifarei, punto per punto, tutto quanto ho fatto. Con tale serenità si poteva morire, quasi gioiosamente, ma essa era permeata di stanchezza tanto profonda da parere fisica. Eppure no, non era veramente così. In fondo a quella stanchezza c’era un impeto strano, duro come la virilità, guizzante come la giovinezza: l’ira per aver perduto tanto, la disperata nostalgia di quel tanto, entrambe fuse in un dolore acuto, sottile come un ago lunghissimo che, penetrando, toccasse un misterioso centro dal quale si sprigionava la spasimante frenesia di uscire di lì, per cui vedeva l’anima cozzare contro i reticolati come un moscone contro un vetro. Ma i mosconi potevano passare attraverso i reticolati, come gli uccelli sorvolarli. Lui no, la sua anima no. Uscire attraverso i reticolati, per andare non in Italia, ma in un’aura irreale dove esistesse tutto quanto aveva perduto, era una voglia tanto spasmodica quanto inappagabile. Chichibio si trasse a fatica da questo rovello che poteva diventare delirio, lo stesso che, per quella doccia scozzese, per quel divertimento inglese, aveva fatto saltare i nervi a qualcuno. Perla aveva avuto ragione e torto nello stesso tempo perché in ottobre rimpatriarono, a scaglioni, i badogliani, previa perquisizione accuratissima dei cosiddetti bagagli e requisizione di quasi tutte le povere cose loro. – I coo devono aver fatto il muso lungo. Li hanno trattati peggio dei galeotti, i boia! – strillava Pizzi. Loro, invece, sarebbero partiti il 5 novembre, disse la solita voce che i maltesi propalarono come verità sacrosante, per sostituirla, il giorno successivo, con il 9 novembre. Ma questa volta era quasi vero perché lo stesso giorno 9 furono convocati al Comando britannico per la restituzione di quanto era stato sequestrato durante le perquisizioni. Ci fu uno che ricevette il proprio orologio d’oro, portatogli via a Bhopal ma Chichibio non ebbe niente e furono tanti, i Chichibi, furono quasi tutti. Quell’uno, però, faceva testo sulla onestà britannica. – Dovremmo partire da un momento all’altro – annunciò Maposi. – Come lo sai? – – Lo so perché Caraffa se n’è andato. Ha detto che in Italia non vuole tornare. E’ andato da quella famiglia sua amica di Lahore. Se n’è andato una settimana fa. – Il 12 novembre sembrò che la doccia scozzese fosse finita. Quel giorno, infatti, cominciò, e durò per tutta la giornata del 13, la consegna dei bagagli. Diversamente da quanto era accaduto ai badogliani, soltanto un bagaglio su dieci veniva perquisito e molto sommariamente. Tutti, però, venivano pesati su una grossa bilancia. Questi bagagli erano pietosi: scatoloni legati con la corda, sacche per la maggior parte, qualche rara logora valigia. Il Venticinque divenne elegante perché era stato deciso di rimpatriare con indosso la divisa del Campo: bustina, sahariana, pantaloni lunghi di tela. Gambrosier consigliò di rimettere sul bavero le stellette in luogo dei fascetti «perché siamo dannati e saremo in balia degli italiani». Finalmente, il 15 la partenza divenne realtà. Ma una realtà parziale. Partirono in cinquecento, dell’1/A e 1/B e, con gran divertimento dei mille rimasti e noia dei partenti, partirono insieme con le maddalene rimaste nei campi 27 e 28. Poiché le voci dicevano che si sarebbero ritrovati tutti a Bombay, ci furono pochi saluti. Invece non si rividero più. Per i rimasti ricominciò la doccia scozzese: si parte il 17, fu detto ufficialmente e poi no, tutto rinviato a chissà quando. – Marchi non ce l’ha fatta – riferì Nardi due ore dopo. – Da un pezzo aveva i tarli nel cervello e un’ora fa ha fatto la frittata. Matto del tutto. – Il 21, un delegato della Croce Rossa Internazionale visitò il Campo e annunciò recisamente e formalmente che il 5 dicembre tutti sarebbero partiti. – Pare che sia merito suo – disse Perla ridendo. – Ma vedrai che sbaglia. – Ora il Campo, così spopolato, pareva più grande ed era più silenzioso. Chichibio vagò da un recinto all’altro. Le baracche vuote gli parvero lapidi di un sacrario cui le sentinelle indiane, sempre nelle garitte, montassero guardia d’onore. Dagli orticelli rimasti strappò qua e là foglie d’insalata. Ne mangiò e ne fece incetta perché la mensa era stata smobilitata e non si poteva sperare che in qualche scatoletta di carne. Camminava ed ascoltava il mormorio e le voci che erano soltanto dentro di lui. Andò nel Campo Sportivo e vi passeggiò in lungo e in largo, salì le gradinate e sedette su in cima. Rivide l’Esercito fantasma schierato, la Repubblica italiana in parata quel giorno 28 di otto mesi prima, la bandiera che saliva sul palo sbilenco e vi rimaneva per un minuto prima di dispiegarsi, scendendo, come per un ultimo sussulto. «Come un grido di fede e un giuramento», pensò Chichibio e subito rise per la frase da “padre della patria” che, però, sentiva maledettamente esatta. Rifece, quasi in sogno, la marcia caparbia, con Maposi e con Frediano, rievocò la disperata volontà di costui e, per singolare coincidenza, lo vide laggiù, entrare nel Campo Sportivo. Anche Frediano lo scorse e si avvicinò, si arrampicò sin a lui, gli disse indicando: – Ecco il nostro capolavoro. Noi ce ne andiamo ma lui rimane. – Lui. Quel Campo Sportivo creato con le mani per dimostrare di non essere vinti, era quasi persona, il nome aveva diritto alle iniziali maiuscole. Un camerata di guerra. – Non vedremo più questo panorama – aggiunse Frediano, dopo qualche secondo, e indicò ancora, con un gesto largo, la pianura, gli ammassi di alberi a destra e a sinistra, la distesa delle baracche, i reticolati, il Monte Nodrani e la catena del Dhala Dar incombente e già candida di neve. Grossi nuvoloni correvano per il cielo insieme con le croci bianco-nere degli avvoltoi. I due guardavano, guardavano. – Andiamo? – fece Frediano. Quella notte, desto per ore sull’angareb, Chichibio ascoltò gli sciacalli che ululavano lontano e, qualche volta, urlavano fuori la baracca. Fra una sghignazzata e l’altra di quella miseria a quattro zampe, il pensiero di Chichibio si spingeva nel baratro livido ch’era l’Italia. La mamma, dov’è sepolta? gli chiedeva il cervello e lui si turava le orecchie come se il gesto assurdo gli permettesse di non udire la domanda alla quale non sapeva rispondere. *** Era l’alba del 29 novembre 1946 quando il secondo ed ultimo scaglione del Campo 25 Repubblicani Fascisti si radunò nella cosiddetta piazza del 2/B. Ciascuno riprese il proprio bagaglio. C’era ancora la bilancia e Chichibio, aiutato da Frediano, vi si pesò. – Cinquantaquattro chili – lesse Frediano. – Cinquantasei e mezzo – lesse Chichibio per Frediano. – Eppure, a guardarci, non si direbbe che pesiamo tanto poco. – – Siamo gonfi. Magri ma gonfi. Dieta inglese. – Gli altri erano già inquadrati e, con quelle divise, parevano quasi eleganti, nonostante le sacche e gli scatoloni. Chichibio, Frediano e Nardi formarono l’ultima terna della colonna dalla quale salivano rare voci smorzate. – Chissà dov’è finito Tommy il quartiermastro… – chiese Chichibio più a se stesso che agli altri due che non risposero. – Come on! – disse un ufficiale inglese ma nessuno si mosse. Dopo una debita, breve pausa, uno degli italiani ordinò: – Attenti! – La colonna eseguì. – Avanti, march! – Il passo cadenzato risuonò per l’ultima volta sulla soglia della Repubblica. La fila ordinata uscì in silenzio. Lungo la strada attendevano autocarri e autobus sgangherati e molte sentinelle indiane. Mentre i prigionieri salivano a caso, Chichibio si fermò un passo fuori dal cancello e guardò dentro, oltre la fila dei pali a forca che sorreggevano i reticolati. – Sembrano cipressi in un cimitero – mormorò Frediano. Nardi rispose: – Non cimitero. Là dentro siamo stati vivi. – – Con i nostri morti, vivi anche loro – replicò Chichibio. – Tutti mai morti, mai vinti, vi pare? – fece Nardi. – Alla faccia dello stramaledetto mondo schifoso – concluse Frediano. Chichibio non riuscì a districare parola dal groviglio che gli legava l’anima. Abbracciò con lo sguardo le baracche, i reticolati e, laggiù in fondo, quel pezzetto di spianata del Campo Sportivo che s’intravedeva. Salì verso la cima del Monte Nodrani, verso le scintillanti pareti del Gairigiunta. Pensò: il mio onore. Poi, il cervello gli si paralizzò. Si arrampicò sull’ultimo autocarro, sedette sul pavimento, le braccia sulle ginocchia rialzate, la schiena contro il parapetto, la sacca accanto a sé e, dondolando per le scosse dell’autocarro in movimento, guardò sfilare i reticolati. Non c’erano più sentinelle sulle garitte. – E’ finita – disse qualcuno accanto a lui. – E’ finito Yol – ribatté un altro. – Il resto comincia e continua. – – Hai ragione – replicò il primo. Era così, disse Chichibio a se stesso, ma non era così. Yol non sarebbe mai finito, i tre anni di Yol venivano con loro. Guardando per l’ultima volta il Venticinque gli era balenata quella parola: onore. Ecco, era come un grumo, una pietra dura, un diamante, ficcato dentro di lui, non sapeva dove, non irreale ma concreto. Lo sentiva. Se palpava se stesso, toccava quella durezza scintillante. Ancora una volta, lo trasportavano, gli dicevano di fare questo e quello, di stare qui e lì, la lingua straniera lo avvolgeva, le sentinelle nemiche lo vegliavano e nessuno sapeva che lui, dentro, aveva quella cosa dura, scintillante, preziosa: la sua vittoria, la sua verità, la sua sconfinata libertà. Così pensò Chichibio mentre cominciava quell’ultimo viaggio verso quella tenebra che, per lui, era la nuova Italia. Compì quel viaggio quasi in uno stato di trance, osservando con stanca curiosità cose e persone. In autocarro fino a Nagrota, sul trenino a scartamento ridotto fino a Patankot, in un enorme recinto dalle grandi tende e dal grande spiazzo al cui centro alcuni grossi recipienti colmi di una sbobba grigiastra costituivano la mensa. Vi immerse il suo “piatto”, una tazza di terracotta, assaggiò e sputò il liquame immangiabile. Andò a frugare nella sacca dove aveva riposto i suoi tesori: la vecchia sahariana, tre paia di grosse calze bianche, due slip, una canottiera, una camicia cachi, una grossa scatola di sigarette Gold Flak e due caschi di banane. Aveva acquistato sigarette e banane col ricavato della vendita agli indiani delle lenzuola di dotazione. Di banane continuò a nutrirsi corredando con esse le scatolette di carne parsimoniosamente distribuite dagli inglesi. Rimasero a Patankot tre giorni, sempre dentro quel recinto che un basso muretto, sul quale era piantato un basso reticolato, divideva dalla strada formicolante di gente. Chichibio trascorreva le giornate a guardare il traffico di grosse macchine, carrettini, biciclette, elefanti che trainavano carichi di legna. Le vacche sacre deambulanti in libertà lo incuriosivano. C’erano delle bancarelle di venditori di ortaggi e le vacche, sovente, vi attingevano. Una volta un venditore, certamente non indù, dato un rapido sguardo attorno, sferrò un calcio potente ad una vacca che si allontanò con un breve muggito indignato. Verso sera, passavano cortei nuziali, con lo sposo a cavallo e bande che diffondevano strani, striduli suoni e cortei di macchine o di gente appiedata. Nozze di ricchi e nozze di poveri, ma sempre con ragazze che offrivano ghirlande di fiori. Chichibio se ne lasciò mettere una al collo. Il pomeriggio del 3 dicembre furono distribuite scatolette di carne e di formaggio con l’avvertenza che dovevano bastare per tre giornate. Salirono su un lungo treno e la corsa cominciò. Ma era una corsa a sbalzi, fra soste interminabili e riprese. La notte fra il 3 e il 4, la giornata del 4, la notte fra il 4 e il 5. Era mattina quando arrivarono a Jhansi e finalmente potettero scendere sul marciapiede per la distribuzione di un caffè ch’era amaro e acquoso. Fu consentito di lavarsi alla meglio con l’acqua che sgorgava da un bocchettone e, prima di risalire, furono contati mentre le sentinelle tenevano a bada la folla curiosa, multicolore, cicalante. Alle 10 arrivarono a Bhopal. Sostarono a lungo e qualcuno opinò che poteva anche essere tutto un trucco e che magari li rispedivano nella piana dell’anofele. Ma il treno ripartì. Il 6 dicembre, il treno sembrò aver mutato in corsa decisa il suo andare a sbalzi. Arrivarono a Khandwa, poi a Bhusawal, ma qui il treno sostò più di due ore. Ora faceva caldo. Chichibio incontrò Nardi e Frediano che avevano trovato posto all’altra estremità della vettura. Frediano disse: – Insomma, pare che stavolta torniamo a casa. – – Quale? – chiese Chichibio e Nardi rise: – Io non ho casa. Sapete, mia moglie? Le corna. – – Nemmeno io – fece Frediano. – Mio padre. E tu? – – Beh, mia madre… – – Non c’è più? – chiese Nardi. – Non me l’hai mai detto. – – E perché dovevo dirtelo? Tanto… – – Già. Tanto… – Venne la sera, si fermarono a Maumad, ricevettero del tè caldo, ripartirono. Chichibio si destò. Il terno era fermo in una stazione. “Kurla” disse qualcuno “siamo a Kurla”. Kurla. Un nome. Buio, voci ovattate. Una sentinella indiana passava a intervalli regolari davanti al finestrino. Poi non passò più. Trascorsero due, tre ore, si fece giorno, il marciapiede della stazione si affollò di indiani, ragazzi di ogni età, donne, uomini. Chichibio guardava senza pensare. O meglio, poiché è impossibile arrestare il lavorio del cervello, contemplava la propria inerzia, la propria indifferenza al rimpatrio. Andare, fermarsi, quale importanza aveva? C’era qualche impaziente, attorno a lui, che di continuo chiedeva quando si sarebbero imbarcati, quando sarebbero arrivati in Italia. Chichibio avrebbe voluto provare la stessa ansia ma dentro aveva il vuoto. Alle 6,30 il treno sbuffò e si mosse. Per tre ore andò avanti tra continue soste. Bombay! Siamo a Bombay, si andava vociando quando il treno, dopo un lungo sferragliare sugli incroci dei binari, si arrestò stridendo. Scesero. Ricevettero una bevanda tiepida che aveva il nome di tè, s’inquadrarono fra le sentinelle. Dopo quei tre giorni, avevano un aspetto alquanto malandato ma l’ordine della colonna era perfetto. Percorsero un breve tratto, al consueto passo cadenzato e furono, subito, sul molo che una passerella congiungeva al piroscafo. Chichibio ne lesse il nome: Tamaroa. Gli sembrò più piccolo del Westerland con il quale era arrivato a Bombay cinque anni prima. Affacciati al parapetto, degli inglesi, uomini e donne, guardavano curiosi quei mille o poco più, dalla strana divisa e dagli strani bagagli. Qualcuno di loro li indicava, qualcuno sorrideva. I mille raddrizzarono le spalle, si aggiustarono le sahariane e guardarono in faccia quella gente curiosa che ben presto si dileguò. Salirono, quasi in silenzio, lungo la passerella. Soldati inglesi li avviarono verso prua, poi dentro un boccaporto, li immisero dentro grandi locali privi di oblò. Chichibio si ritrovò dentro un camerone stipato di cuccette a castello, si arrampicò su, fino al quarto ordine di posti e ricominciò ad aspettare. E cominciò a sudare. Lì dentro, il caldo era insopportabile, l’aria fetida sembrava opporre resistenza ad ogni gesto. Chichibio andò a cercare aria nell’unico luogo dove era consentito stare oltre che lì, cioè a prua, sporca, ingombra di rifiuti e di prigionieri. Come tutti, quando si stancava, tornava ad arrampicarsi sulla cuccetta per abbandonarla subito, ricacciato dal calore enorme. Il vocio divenne ben presto urlio di protesta. «C’è un guasto all’impianto» si diceva «c’è il calorifero acceso». Spuntò un sorridente e sprezzante medico inglese che scese ad ispezionare i locali. Ma svenne tra il divertimento generale, e lo portarono fuori a braccia. Verso sera, il guasto fu riparato, il caldo diminuì ma dentro quei locali si sudava ugualmente. Quella notte, Chichibio dormì a prua, disteso fianco a fianco con altri, ma più che dormire rimase per ore, supino, a guardare le stelle. C’erano pochi rubinetti e poche latrine e dinanzi agli uni e alle altre la fila era costante, ma non litigiosa. Chichibio pensò al branco con il quale era arrivato sul Westerland. Ora quello di cui faceva parte non era un branco: era il Venticinque. Si ritrovò con Frediano, Nardi, Rominasi, Talli, Camori, Mistretta e Fazi. Si ritrovò con Pizzi e Perla. Fecero crocchio, dopo il pasto che, a sera, fu finalmente distribuito dentro uno stanzone accanto alle cucine dove si sedettero a turni, attorno a lunghi tavolacci. I turni si avvicendavano rapidamente perché i pasti, scarsi, erano brevissimi. Tornando a prua, incrociavano le sentinelle inglesi che rovesciavano in mare i propri avanzi. Chichibio guardava affamato i grossi pezzi di carne che i soldati gettavano. Tutti seguivano con gli occhi quei resti succulenti ma quando un soldato inglese porse il suo vassoio a Nardi, questi lo aiutò, con una manata, a nutrire i pesci. Indubbiamente, i Mille del Tamaroa non erano il branco del Westerland ma gli inglesi non avevano capito la differenza e chiesero se fra gli italiani c’era chi volesse suonare e cantare per divertire i militari e le loro famiglie che tornavano in Inghilterra. Venne un azzimato ufficiale a formulare la richiesta e rimase attonito dinanzi al rifiuto secco. – Oh, perché? – chiese. – Siamo signori ufficiali delle forze armate italiane – rispose brusco qualcuno e quello biascicò: – Oh, sorry… – – Sorri a sòreta! – concluse una voce. Quello non capì e se ne andò. La mattina del 9 dicembre si vide arrivare Caraffa, in manette fra due soldati. Una famiglia musulmana aveva fatto la spia e alla famiglia indù che lo ospitava non era stato più possibile nasconderlo. Lo avevano salutato con le lacrime agli occhi. Caraffa era cupo, affranto, quando salì sul Tamaroa. Chichibio condivideva la sua tristezza. Rimpatrio, la stupida parola, pur tanto sognata! Rimpatrio significa ritorno in Patria. Ma dov’era la Patria? era rimasta nella Repubblica Fasciata dell’Himalaya, era rimasta con Dio e Dio, si sa, è dovunque nel mondo. Naturalmente, Chichibio non esprimeva in parole questi pensieri vaghi. Attorno a lui si rideva e s’imprecava, si mandavano a quel paese inglesi e badogliani, monarchie e repubbliche e l’avvenire tutto in blocco. – Io boia! – strillò Pizzi. – Ma è poi sicuro che ci portino in Italia, noi ribelli? – – E dove, se no? – – In Russia, magari. Ti ricordi Nardinocchi, che cosa dicevano? Ti ricordi l’offensiva delle maddalene? Chissà dove. – – Oppure in Italia – disse Nardi. – Cioè in galera. Non siamo criminali fascisti? Criminali di guerra. Criminali. Che bella parola. Sul serio, è bella. – All’improvviso, tutti tacquero attorno a loro. La passerella veniva ritirata. Gente della ciurma correva qua e là. “Si parte”. La voce si diffuse rapidamente. Quelli che stavano nei dormitoi accorsero. Insensibilmente, il molo prese ad allontanarsi. Nel silenzio dei Mille, si udirono distintamente le voci ridenti di alcune donne inglesi uscite dalle cabine sul corridoio di sinistra. Chichibio rivide l’allontanarsi del Victoria dal molo di Napoli. Maposi, trovatosi accanto a lui, gli strinse un braccio. Chichibio mormorò: – Quando siamo partiti da Napoli cantavamo la preghiera del legionario, con Rini, Rustichelli, con Ferri, con Magistri. Tu eri già partito col Venier. – – Rustichelli è morto, alla fine del ’41. Magistri ferito grave. – – Ricordo ancora quando te lo scrisse Ferri, nel ’42. – – No, Fu nel ’43. Quando mi scrisse, anche, che del Sesto erano tornati dalla Russia la bandiera e pochi altri. – – Che Reggimento! Che Compagnia! Con le palle sotto… – Qualcuno li guardò perché il loro mormorio, nel silenzio, era alto come un grido. Il molo si allontanava sempre più, il cielo era caliginoso su Bombay, stormi di gabbiani svolazzavano a poppa e più alti e più lenti ruotavano gli avvoltoi. Dov’era il suo mondo antico? Scomparso con la giovinezza, con la sua guerra che inseguiva nel deserto la vittoria da El Agheila ad El Mechili a Tobruck a Bardia a Ridotta Capuzzo all’Halfaya. Un volo di piume. Dov’erano le sue piume? che cosa ne avevano fatto? Lui le aveva portate, nascoste dentro l’anima, al Cairo, nel Pen 15, a Tell el Kabir, a Geneifa, a Suez, sul Westerland, a Bombay, a Bhopal, a Yol, nell’aspra disperata trionfante Repubblica dell’Himalaya dove le aveva strappate all’annientamento del Badoglio. Lui le aveva salvate, aveva urlato in faccia al duplice nemico il salvataggio compiuto ma là fuori, nell’Italia che non c’era più, chi ne sapeva niente? La sua fedeltà? Crimine. Il suo onore? Crimine. La sua fierezza? Crimine. La sua dignità? Crimine. La Compagnia, il Sesto, quei ragazzi stupendi? tutti criminali. Sua madre avrebbe compreso. Ma non c’era più. Morta come la morta Italia. Lui ritornava, dopo un’eternità, solo, con altre mille solitudini come la sua. Chichibio cominciò a mugolare, senza articolare le parole che gli risuonavano dentro il cervello «O Signore, tu che portasti l’insegna che precede il labaro della mia legione, tu salva l’Italia nel Duce l’Italia, sempre e nell’ora di nostra bella morte». Maposi lo guardò e lui gli rise in faccia e sputò come schizzi di saliva le parole: – Non s’è salvato niente. Il Signore marcia alla testa dei Senza-Dio. Non abbiamo avuto nemmeno la bella morte. – Non si era avveduto che dietro di lui, silenzioso come tutti, stava Rominasi che disse: – Pezzo di fesso della malora! A noi nessuno ci ha vinto. Neppure Dominiddiio. Noi, i mille del Tamaroa. I naufraghi del Tamaroa, naufraghi a galla sul naufragio del porco mondo intero. – Chichibio gli mise le mani sulle spalle, se lo guardò un poco e poi, ridendo: – A galla, Cristo santo! A galla! Se tu non esistessi, dovrebbero inventarti! Viva La Marmora! – Bombay, adesso, s’era confusa con l’orizzonte. Il Tamaroa solcava lento, beccheggiando e rollando, le onde lunghe dell’Oceano Indiano. *** Il 14 dicembre, il Tamaroa sostò ad Aden. Una bettolina riforniva la nave. – Si chiama «Rialto» – disse Nardi indicandola. – Era nostra. – Nel primo pomeriggio di quel giorno, il Tamaroa sfilò davanti a Perim. Ora stavano tutti a prua, accalcati sul lato sinistro, in attesa. – Eccola, l’Italia – disse Angelo Bastiani. Nel volto smagrito, i suoi occhi erano più grandi e spiritati che mai. Nardi, sottovoce, spiegò a Chichibio. – E’ l’isolotto di Dumeira. – Poco più tardi, Perla: – Quella costa è la Dancalia. – La costa eritrea continuò a scorrere. Uno disse: – Domani è domenica e ci sarà la Messa, sul ponte. Ci vuole un rito per i Caduti. – Bastiani disse: – Ce ne sono tanti, là. – Tutti tacevano e guardavano. Chi si muoveva, lo faceva cautamente, come si fa durante i funerali. La mattina dopo, Nardi raccontò a Chichibio: – Sai, i soliti fessi, credo il cappellano e qualche altro, hanno chiesto agli inglesi di poter celebrare un rito per i nostri Caduti in Africa Orientale, durante la Messa. Gli inglesi hanno risposto di no, naturalmente. – Chichibio non andò alla Messa. Rimase a prua, a pensare a tutti quei Caduti, soldati, operai, donne, bambini. La notte, sdraiato sul ponte di prua, guardava l’albero disegnare lenti circoletti attorno alle stelle. Di giorno, rimaneva affacciato a destra, per non vedere la sua Africa. Guardava giocare i delfini. La mattina del 17 dicembre apparve Kashir. Chichibio continuava a starsene affacciato al parapetto. Se ne distaccava soltanto per i poveri pasti del mezzogiorno e della sera, magri quasi quanto quelli del Westerland ma con una variante: la mattina, colazione con un’aringa abbrustolita sulle piastre della cucina. Molti la rifiutavano. Chichibio la divorava. Poi tornava al parapetto e guardava trasognato il mare e la costa. Le isole Shadown, la zona di Ras Gherib. Suez di notte. Il Tamaroa sostò a lungo. Già spuntava il sole del 18 dicembre quando il Tamaroa imboccò il canale. C’era gente sulle sponde vicinissime. Di quando in quando, addossati agli argini, relitti di navi. Laggiù, il canale sembrò diventare un lago, laggiù oltre la sponda orientale. – Il lago di Ismailia – annunciò Nardi e poi: – Guarda, là al centro, che cosa sono? – Attorno a loro già si rispondeva: – Due navi da guerra. Due corazzate. La Littorio… No. Sì, e quella è la Vittorio Veneto. No, non può essere. Può essere. E’ certo. – Le due navi da battaglia erano dipinte di bianco. Immobili. Mute. I Mille si accalcavano a prua e lungo il corridoio sul quale davano le cabine delle famiglie inglesi. Il vocio si attenuò, si spense. Tutte le teste, man mano che il Tamaroa procedeva, si giravano lentamente verso le due navi da battaglia che rimpicciolirono, scomparvero. Nardi disse: – Bianche come la loro bandiera a Malta. – Rominasi mormorò, pianamente: – Come la nostra coscienza. – Il pomeriggio, il Tamaroa attraccò a Porto Said. Gente di ogni specie formicolava nel porto, guardava verso il Tamaroa e gridava offrendo merce di ogni sorta. Durante la notte, i soldati inglesi della scorta occuparono il corridoio allontanandone i prigionieri. Erano le 7,30 del 19 dicembre quando il Tamaroa uscì da Porto Said, erano le 8 quando cominciò a solcare le acque del Mediterraneo, agitate per onde brevi orlate di spuma. Un vento teso, freddo, investì la nave. Chichibio tornò giù, si arrampicò sulla sua cuccetta, tolse dalla sacca il vecchio pastrano grigioverde ma rinunciò a tornare su. Rimase nella cuccetta che dondolava con il movimento della nave. Ascoltava il tonfo delle macchine e seguiva i brandelli di pensiero che ondeggiavano come lievi relitti trascinati dal vento. La madre, Rini, Pina, Ciro Gallo, Viale e Rossi, i morti di Geneifa, quello lasciato, una eternità prima, a Porto Sudan, la donna e il bambino di Suez, suo padre col sottogola che diceva «signorsì» a Sua Maestà, le disposizioni di Nardinocchi che avevano valore di legge, il guardiamarina folle del Cairo, il capitano Compagnoni in fuga, «il sottoscritto chiede di essere trasferito in un campo riservato ad elementi di fede fascista-pro Asse», «il sottoscritto dichiara di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e di voler essere trattato alla stregua dei prigionieri dell’Asse», la pietraia del Monte Nodrani trasformata in campo sportivo, la maratona, gli agonali, il sacrario, l’esercito fantasma… Brandelli di pensiero, brandelli d’immagini. Urlavano dentro, laceravano, piagavano. Il bersagliere di Maposi che salutava a braccio teso, a Geneifa, il suo non essersi mai umiliato dinanzi agli inglesi, il suo non aver mai piatito, le lettere da casa che per due anni non arrivavano, il sogno profetico, il cinema e le orrende immagini del linciaggio di Caretta, le orrende immagini del popolino festante ed elemosinante, le orrende immagini di Piazzale Loreto. Basta, Dio mio, basta. Dio mio! Il cappellano sull’altare improvvisato che ribaltava la preghiera di una domenica prima. Era quello, Dio? Ma quello era soltanto un prete sacrilego. E’ vero, questo? Ma, poi, che cosa importava? Quando si svegliava, Chichibio benediceva e rimpiangeva il sonno. Lasciava la cuccetta per mandar giù quei pasti da fame. Guardava il Mediterraneo corrucciato, ventoso, gelido. Così, quel rimpatrio tanto sognato: corrucciato, gelido. E solitario: erano in mille, sì, ma mille solitudini. Fra le sentinelle, però, da «ostili». Questa era l’unica gioia di quel rimpatrio. Era come se quelle sentinelle facessero, senza saperlo, il presentat’arm a quei soldati. – Si vede Creta! – gridò qualcuno. Che cosa gli importava di Creta? Così tutto il 19, il 20, il 21 dicembre finché la sera di quest’ultimo giorno udì gridare che si scorgeva il faro di Capo Spartivento. Allora, salì sul ponte di prua per vedere quel punto luminoso ch’era l’Italia. Una luce nel buio, pensò e si corresse sogghignando: un buio e basta, con un faro qualunque. Fu alle 9 di domenica 22 dicembre 1946 che Chichibio rivide, per la prima volta, veramente l’Italia: Capri, la costiera salernitana. C’era chi, nelle ultime ore della notte, s’era fatto la barba, si era acconciato l’uniforme del Venticinque. Lui si limitò ad acconciare l’uniforme. Non aveva più lamette né sapone. Tanto, chi avrebbe trovato allo sbarco? Pina era scomparsa chissà dove da anni. La mamma non c’era più. Suo padre? sua sorella? Non credeva di trovarli a Napoli, in attesa di lui. Abitavano lontano e si diceva che viaggiare in Italia fosse difficile. Però, salì ugualmente sul ponte di prua con la sua sacca, si cacciò nel suo posto preferito, sul corridoio di destra. Il cuore gli martellava in gola. Fra poco non sarebbe più stato il prigioniero di guerra 118110, non sarebbe più stato il prigioniero di guerra repubblicano fascista. Sarebbe stato, che cosa? La sua laurea in legge era un incidente lontanissimo, dimenticato. Come si sarebbe guadagnato da vivere? Suo padre era povero, un ufficiale povero, ormai forse non più in servizio; sua madre che cosa poteva avergli lasciato? Quel pezzetto di terra, quei due piccoli poderi a vigna da dividere con la sorella? e con il padre? Ora, Napoli si dispiegava là davanti, con il suo Vesuvio senza pennacchio. Il Tamaroa procedeva lentissimo, quasi in abbrivio. Laggiù, si accostava una barca spinta a remi da due uomini con un ragazzetto inginocchiato a prua. Il ragazzo gesticolava verso la nave. Quando la barca fu più vicina, udì la voce del ragazzo gridare: – Jettate! signurì, jettate! – Tendeva la mano e continuava ad elemosinare così, con un lagno lungo. – Eccola, l’Italia – fece Rominasi. Ora, altre barche s’accostavano uscendo dal porto. Lungo un molo stavano allineate tre cacciatorpediniere, deserte, sporche, nerastre, senza bandiera. Tutti i Mille erano ammassati a prua, lungo il parapetto di destra, silenziosi. Un rimorchiatore uscì dal porto, si avventò sul grappolo di barche e le innaffiò con l’idrante. Anche dal Tamaroa due idranti entrarono in funzione. Militari e famiglie inglesi assistevano allo spettacolo, gesticolavano e ridevano. Il rimorchiatore investì una barca che si capovolse. Uno soltanto dei suoi tre occupanti risalì a galla. Gli inglesi, militari, uomini e donne, ridevano sempre. I Mille si voltarono come ad un comando, cominciarono a salire verso il ponte superiore e quelli di testa urlavano. Gli inglesi scomparvero. Il Tamaroa avanzava sempre, ancor più lentamente e i Mille erano di nuovo tutti al parapetto di destra a guardare le barche che, ora lontane e rimpicciolite, si disperdevano e parevano relitti trascinati dalla corrente. Improvvisamente, qualcuno disse: – Là, la gente! – I Mille si voltarono, ancora come ad un comando, e si riversarono, tutti, al parapetto di sinistra. Chichibio vide sul molo un grumo nero di persone. Erano uomini e donne ricoperti di cappotti che gli parvero tutti di colore nero. Da una eternità lui non vedeva gente vestita «in borghese», gente con il cappotto e, come qualcuno là, con il cappello. Il Tamaroa si accostava sempre più e dal molo, adesso, arrivavano le voci di quelle persone che gesticolavano. Chiamavano, gridando. Un prigioniero urtò Chichibio, si avventò al parapetto, si sporse e tendeva tutte e due le braccia. Una signora continuava a chiamare, un ragazzetto le era accanto e pareva spaurito. – E’ mia moglie… – balbettava quello – …e lui, è mio figlio, deve essere mio figlio… Aveva tre mesi quando l’ho lasciato. – Piangeva senza singhiozzi e tendeva le braccia. Poi urlò: – Sono io, Rita! Sono io! Va tutto bene! – Chichibio strinse a pungo le mani perché gli tremavano. Per lui non c’era nessuno, laggiù. Ma non c’era nessuno nemmeno per gli altri, tranne per quell’uomo in lacrime. Quella gente aspettava altri prigionieri, aveva sperato che arrivassero con il Tamaroa. Ora sarebbe andata a casa per tornare all’annuncio di un nuovo arrivo. Il Tamaroa, finalmente, era fermo. Una passerella fu calata. I Mille erano tornati silenziosi e con la vecchia pazienza del prigioniero aspettavano, immobili. Fu allora che udì un allegro fragore di trombe e sul molo spuntò una banda militare. I suonatori erano infagottati in uniformi a metà grigioverdi e a metà cachi. Un maresciallo li precedeva segnando il tempo con il braccio. Si fermarono accanto alla passerella. Suonavano «jamme, jamme, jamme jamme jà! Funiculì, funiculà…». I Mille, attoniti, tacquero per qualche istante mentre le note festose di quel relitto sfasciato di banda militare sul porto disfatto, quella gioia badogliana che si spargeva sui cacciatorpedinieri diruti, sulla barca questuante rovesciata, bersagliavano loro e l’epopea che si portavano dentro. L’urlo esplose come un boato: – Silenzio! Basta! Via! – Si sporgevano tutti dal parapetto e tendevano i pugni. La banda emise ancora qualche nota, disordinatamente, gli ottoni tacquero ad uno ad uno. Un bombardino, solo, fece ancora «po… po…» e si zittì. Nel breve silenzio che avvolse tutto e tutti, si udì la voce di Rominasi, acutissima: – Non è festa, maledetti! Questo ritorno non è festa! – I suonatori se ne andarono e le loro facce erano stupefatte, facce di ebeti impossibilitati a capire quella stana gente dalla strana uniforme che continuava a tendere i pugni con visi stravolti dall’ira. Le sentinelle inglesi che chiudevano l’accesso alla passerella si scostarono, i prigionieri cominciarono a scendere, in fila indiana. Chichibio discese, a gran passi. Delle ragazze, con cestini infiocchettati di tricolore, siglati con la croce rossa, offrivano mele. Frediano, che precedeva Chichibio, sghignazzò: – Finalmente la Croce Rossa! Viva la Croce Rossa! – Chichibio inciampò nel mettere piede sul molo, vacillò e si fermò. Vide un viso di ragazza, giovane bello e dolente, la sua bocca rossa ben modellata che diceva: – Perché avete gridato contro la banda? Vi faceva festa… – Chichibio la fissò e quel bel viso smise di sorridere. Ora la mano di lei gli porgeva il cestino con le mele. Chichibio afferrò una mela e la scaraventò in mare. Urlò: – Non capite?! Perché non capite?! – Qualcuno lo spinse alle spalle e Chichibio seguì la fila. Furono fatti salire su autocarri in attesa sul molo. Sul piantale di quello sul quale salì Chichibio c’era dello sterco. L’autocolonna si mosse, uscì dal porto. Sulla via, gente si fermava a guardare, senza curiosità, quegli uomini stranamente vestiti. Su tutti gli autocarri, i Ribelli si alzarono in piedi sostenendosi alle fiancate e, per la ressa, uno con l’altro. Chichibio guardava davanti a sé, come tutti, del resto. – Passa l’onore, partenopei! – esclamò Nardi e sorrise beffardamente. Andarono per un pezzo così, scesero davanti a una caserma. Una sentinella, di bassa statura, appoggiata stancamente al Novantuno come ad un bastone, disse mentre Chichibio le passava davanti: – Attenzione ai bagagli. Accà arrobano tutt’e cose. – L’avvertimento fu ripetuto da un sergente che poi li convogliò «al verbale d’interrogatorio e alla discriminazione». Seduti dietro molti tavoli ingombri di carte, degli ufficiali in grigioverde facevano le domande e scrivevano le risposte. Grado, cognome, nome, reparto, luogo di cattura, luogo di prigionia. Infine: – Com’è stato il trattamento da parte degli inglesi? – – Pessimo – rispose Chichibio. – Come hai detto?! – – Ho detto pessimo – sillabò Chichibio. – Hai collaborato con gli alleati? – – No. – – No? Perché? – – Perché mi vergognavo. – – Scrivo così? – – Scrivete così. E come, se no? – – L’uso del voi è abolito. – – Me ne sbatto. – Agli altri tavoli, i dialoghi erano analoghi, le risposte secche, qualcuna furibonda. Chichibio firmò il verbale. gli dettero ventimila lire. Se le rigirò fra le mani: strane, le am-lire. – Si presenterà al suo distretto. – Se ne andò. Attese nel piazzale della caserma finché non ritrovò Frediano, Rominasi, Talli, Nardi, Fazi. Cercarono Mistretta, Camori, Pizzi e Perla ma non ne videro traccia. Scorse Bastiani che se ne andava in fretta. Lo salutarono a gesti, da lontano. Uscirono. Una torma di ragazzi li avvolse. Offrivano pezze di stoffa. Un marmocchio di una decina d’anni aveva tra le mani un grosso rotolo di banconote. Nardi conosceva Napoli e li guidò. Camminarono a lungo, entrarono in un locale, mangiarono qualcosa. Decisero di andare a Roma. Nardi confabulò con il padrone del locale. Non c’erano più treni sino a domattina. Arrivò una macchina. Contrattarono. Si ficcarono nell’auto dopo aver legato con una corda le loro sacche sul tetto. Partirono. A un certo punto, l’autista li avvertì: – Facite attenzione. Guardate dal lunotto. – – Perché? – – Qui tagliano le corde e si fregano i bagagli. – Ma non ci furono assalti. Arrivarono a Roma a notte inoltrata. Scesero dall’auto alla stazione Termini. Nardi, Rominasi, Talli e Fazi avrebbero preso il treno. Si strinsero la mano. Si scambiarono indirizzi. Poi, con un certo impeto e senza parlare, si abbracciarono. – Teniamoci in contatto. – – Sì, teniamoci visti – disse Chichibio pensando a Maposi che aveva perduto nella confusione della caserma. Chichibio e Frediano presero per via Nazionale, imboccarono il Traforo. All’altro imbocco, disteso per terra, in mezzo alla via, dormiva un soldato americano, negro. Su una porta di via del Tritone c’era scritto «pensione». Entrarono, mostrarono il foglietto che avevano ricevuto a Napoli. – Non so se è valido – disse il portiere. – Certo che è valido – rispose Frediano. – Ex prigionieri. Siamo ufficiali. Appena rientrati dalla prigionia. Non cooperatori. – – Va bene, va bene, non collaborazionisti. – – Che cosa vuol dire? – – Che non avete collaborato con i tedeschi. – – Non abbiamo cooperato con gli inglesi. Va bene? – – Sì, sì, va bene, come volete. – Ebbero la camera, si buttarono sul letto e si addormentarono subito. La mattina, uscirono prestissimo. – Se trovo un treno – disse Frediano – per la vigilia sono a Milano. – – Per la vigilia? – – Ehi, pirla! Oggi è il 23. Domani è la vigilia di Natale. – – Ah. Già. Anch’io, forse, ce la faccio. Se stanno ancora là, se non hanno cambiato paese. Ma non credo ci sia un treno. Forse una corriera. – – Va a Castro Pretorio. Da lì, una volta, partivano le corriere. Ti ci accompagno io. Conosco la strada. E la stazione Termini è a un passo. – Se ne andarono verso Castro Pretorio e Chichibio portava il vecchio pastrano sul braccio. Non faceva freddo, la giornata era piena di sole. Qualche passante sbirciava perplesso la loro divisa. Era strano camminare così, sul marciapiedi, fra la gente, liberi, passare davanti a negozi, a bar, consapevoli di poter andare dove volevano, programmare il domani a proprio capriccio. E sentirsi allegri. A poco a poco, però, ammutolirono, s’incupirono. Passavano delle camionette piene di gente. – Guarda. Al posto dei tram ci sono quelle. – C’erano dei banchetti di venditori di sigarette. Fra i pacchetti di sigarette estere, videro dei cartocci con tabacco sfuso. Un uomo, davanti a loro, sollevava da terra, infilzandoli con la punta di un bastone, dei mozziconi e li riponeva in una borsa che portava a tracolla. Sulla gente, sui negozi, sul traffico, persino sulle facciate delle case gravava una stanca atmosfera di disordine, sporcizia, provvisorietà. Qua e là, manifesti e scritte sui muri urlavano nere parole cubitali e rosse falci e martello. Loro tiravano di lungo, senza leggere. A Castro Pretorio cercarono, chiesero. Finalmente, Chichibio trovò una corriera che passava per il paese dove, per quanto ne sapeva, abitava la sorella. Partenza, seppero, fra dieci minuti. – Appena in tempo. – – Già. – Ma trascorse mezz’ora. – Ora tu vai a Milano? – – A Milano. C’è il mio fratellastro. Chissà se trovo subito un treno. – – Spero di sì. – – Dài, sali, o non trovi posto. – Si guardarono, si sorrisero. Frediano brontolò: – Si stava meglio al Venticinque. – – Io ci sto sempre, al Venticinque. – Frediano gli mise una mano sulla spalla: – Però, potevamo andare in un casino… – Chichibio sentì scavarglisi nello stomaco un vuoto e un sapore amaro, di fiele, impastargli il palato e, improvvisa, gli esplose un’atroce nostalgia di sua madre. Ma disse soltanto: – Già. – Si abbracciarono, un abbraccio lungo, quasi convulso. – Il mio indirizzo di Milano te l’ho dato. Mandami il tuo. – Chichibio salì sulla corriera sgangherata, affollata, graveolente, tirandosi dietro pastrano e sacca, trovò un posto in fondo, accanto al finestrino polveroso. Il naso contro il vetro, guardava Frediano che lo guardava. La corriera si mosse. Frediano agitò la destra, poi distese il braccio, salutandolo a quel loro modo, con un gran sorriso strafottente. Poi scomparve. Chichibio continuò a guardare fuori, ma quello che vedeva era come nebbia. Si sorprese a pensare che non aveva mai sentito una tristezza simile. Mai. *** Arrivò di sera nel grosso paese e andò a bussare alla porta della caserma dei carabinieri. Così, fu il cognato, Capitano, che gli dette il primo saluto di casa. Poi la sorella, un abbraccio lungo e muto, che non finiva mai, sulla porta dell’appartamento pieno dei vecchi mobili di casa, l’abbraccio del padre, breve, schivo, quasi impacciato. Lo guardò curiosamente per quegli inusitati abiti borghesi. Si chinò a baciare il figlio della sorella, un ragazzino di tre anni e sfiorò la guancia dell’altra figlia, ancora nella culla. Nonostante i vecchi mobili di casa, tra i quali era cresciuto, guardava tutto come un estraneo, dal di fuori, spiccicando poche parole. E cercava colei che mancava. Precipitava dentro l’enorme assenza che lo raggelava. La cena, la prima cena vera, seduto a un desco vero, con la tovaglia e il vasellame buoni che la sorella aveva tirato fuori per fargli festa, i cibi del vecchio sapore caro. Mangiò pochissimo e parlò ancora meno, fissando la porta della camera da pranzo, davanti a lui, lasciata aperta e sulla quale la mamma non appariva. Un letto vero, poi, nel quale si rigirò tutta la notte, dormendo ad intervalli. Poi, i racconti. tutti raccontavano le loro pene mentre, come in sogno, trascorrevano la vigilia e il giorno di Natale e venivano gli amici del cognato che avevano anche loro tanto da raccontare. Chihibio ascoltava. Immaginava le vite di quella gente che si erano dipanate in una normalità non spezzata dagli avvenimenti enormi. Nascite, morti, matrimoni, affari. Lui no, niente. Ascoltava e quasi non parlava dopo che, rispondendo alle domande che, finalmente, si erano ricordati di porgli, aveva visto i loro occhi smarriti e vuoti di qualsiasi comprensione. Non capivano. Forse nessuno avrebbe mai capito, per tutta la vita. Possibile che nemmeno suo padre capisse, se continuava a raccontare la sua prigionia terribile? Anche la morte della mamma pareva un irrilevante episodio. La mattina di Santo Stefano, mentre Chichibio stava col naso contro i vetri della finestra sentendosi solo come mai si era sentito, il padre gli parlò con aria molto solenne. Gli disse che si era fidanzato con una vecchia amica di famiglia perché non poteva certo vivere così solo, non gli sembrava? Ma aveva voluto attendere il suo ritorno prima di sposarsi. Chichibio lo guardò e poi cominciò a ridere. – Non capisco. Che cos’hai da ridere? – Chichibio cercò di tornare serio ma non ci riusciva. Rideva senza potersi frenare. Smise di colpo. Chiese: – Come mi posso vestire? Non posso continuare ad andare in giro così. – – Ma certo! – esclamò il padre, tutto premuroso. – C’è là nell’armadio il tuo vestito alla zuava. E’ ancora in buono stato. – Era un vestito che aveva portato all’età di quindici anni, per poco tempo perché non gli piaceva. Disse, a bassa voce: – Sì, certo quello. Mi ricordo. Mettilo tu, no? Farai un figurone. Mettilo tu. Ma perdio, babbo, ti rendi conto? No, non ti rendi conto. E chi si rende conto? – Tre giorni dopo, lui e suo padre urlarono, uno contro l’altro, con in mezzo la badogliata regia. La sorella accorse, lo circondò con le braccia e Chichibio si mise a piangere perché nell’abito della sorella gli parve di sentire l’odore buono delle vesti della madre. Il suono del pianto era come l’ululato notturno di un cane. *** Faceva la spola fra il paese e quello dove aveva sede il distretto, per ottenere quella parte dello stipendio ch’era stata accantonata. Le scale del distretto erano piene di soldati in attesa dei loro quattro soldi. La terza volta, urlò come un forsennato contro gli scritturali, pretese ed ottenne di vedere il colonnello comandante e sul malcapitato rovesciò tutta l’ira accumulata dall’8 settembre in poi. Ottenne quello che voleva. Scrisse a Frediano e questi gli propose di andare da lui, a Milano, dove c’era qualche prospettiva di lavoro. Verrò, rispose, appena sistemate le mie faccende. *** La faccenda era una soltanto. – Com’è morta la mamma? – chiese alla sorella. – Te l’ho scritto. – – Non ho mai ricevuto niente. – – Ma te l’ho detto, appena tornato. – – Non l’hai detto bene. I particolari. E’ morta di cancro, hai detto. Che cancro? – – Carcinoma. Al fegato. All’ospedale. Il 15 dicembre 1944. – – Al fegato. Naturale con quello che ha passato. All’ospedale ci sono le suore con la cuffia ad ali inamidate? – – Sì, lo sai. – – E il letto, com’era il letto? – – Come sarebbe, com’era? – – Di ferro, bianco, nero, smaltato, come? – – Ma, sai, i letti d’ospedale. Bianchi. Di ferro smaltato. – – Con la coperta bianca, di piquet, vero? – – Come lo sai? – L’ho sognata. L’estate del ’42. L’ho sognata. Le suore, il letto, la coperta. E il Duce prigioniero. E il Golgota. E lei che moriva. Ma lei era anche l’Italia. – La sorella aveva gli occhi lucidi anche se era chiaro che non capiva bene. Disse: – Ha fatto testamento. Gli l’ha fatto fare lo zio Enrico. Ha lasciato quei due poderi e la casa ai nostri figli, nati e nascituri. – – Nati e nascituri? – disse Chichibio e si mise a ridere. Lesse il testamento, formale, certo non di pugno della madre. Solo l’ultima frase, certamente, era sua , quella con la quale chiedeva perdono se aveva fatto qualcosa di male. Chichibio aveva voglia di urlare, come al Distretto. Invece, mormorò: – Anche questo le hanno fatto dire. Perdono? Lei? E di che cosa? Io, invece, a lei. Quante volte le ho risposto male… E quando voleva uscire con me e io, invece, non le davo mai questa soddisfazione? Perdono, lei! Dobbiamo chiederle perdono tutti, il babbo, io e quel porco di Badoglio. E’ morta sola per colpa di quel porco, il marito in Germania e io nel Campo Venticinque.- – Io c’ero – sussurrò la sorella. – Si capisce. Tu sì. Tu non hai colpe. Non ne hai mai avute. – – A me e a te ha lasciato i suoi risparmi e gli ori. Cinquantamila lire. – – Erano un piccolo patrimonio, cinquantamila lire. Ti ricordi come metteva da parte gli affitti dei poderi? Per i figli, diceva. Adesso, venticinquemila lire a testa… – – Sono niente. – Si divisero il denaro. Si divisero gli orecchini, i braccialetti, gli anelli. Chichibio lasciò alla sorella riluttante i pezzi migliori. – Tu sei donna. Io, che me ne faccio, io? – Accarezzava quei monili modesti e rivedeva in ciascuno la bellezza della madre, un po’ severa, quasi statuaria se non fosse stato per gli occhi neri, vellutati e, quando rideva rovesciando la testa e mostrando la gola bianca e lunga, pieni di pagliuzze dorate. – Devo andare al camposanto, al nostro paese. – – C’è una corriera fino a Roma. Poi, lì, si deve prendere un’altra. Ma io non posso accompagnarti, per i bambini. Come si fa? – – Solo, voglio andarci solo. Dov’è sepolta? – – Non so dirti bene. E’ verso il fondo, a destra, dove ci sono i loculi. In un loculo provvisorio. C’è il nome, ma non inciso. Ora il babbo farà la traslazione nella tomba definitiva. Ti può accompagnare lui. – – Vada dalla sua fidanzata, lui. – *** Partì una sera con l’ultima corriera. Arrivò prestissimo al paese appollaiato su un cocuzzolo, e piovigginava. Lo attraversò e gli parve che non fosse cambiato nulla. La guerra non vi aveva lasciato tracce. Poca gente passava a quell’ora. In una donna e, poco dopo, in un uomo riconobbe ragazzi con i quali aveva giocato quando anche lui era un ragazzo, ma tirò via affondando il viso nel bavero dell’impermeabile del cognato, prestagli dalla sorella così come l’abito che indossava, troppo largo. Aveva timore che lo riconoscessero. Che cosa mai avrebbero potuto dirsi ormai, dopo tante vite? lui aveva vissuto la vita dell’adolescenza e della prima giovinezza, la vita della guerra, la vita del branco prigioniero, la vita della Repubblica Fascista dell’Himalaya; e adesso quest’altra vita, quella del ritorno miserabile. Loro, forse, ne avevano vissute di meno, quella dell’anteguerra, quella della guerra e quella che stavano vivendo adesso. Più probabile, anzi, che le loro vite fossero state due o addirittura una sola, la fusione, cioè, senza scosse, del prima e del dopo. Non avrebbero saputo che cosa dirsi. Inutile, dunque, parlarsi. Meglio tirar via, morti ormai gli uni per gli altri, anzi mai esistiti. Soltanto le case grigie del paese, immutate, esistevano. Lo guardavano dalle vecchie persiane scolorite protette dalle sopracciglia delle grondaie, e dalle porte, come sempre semiaperte, gli parlavano. Con loro intrecciava un dialogo muto e senza senso, mentre camminava fra loro. Tutto il paese, improvvisamente, lo chiamò col suono indimenticato della campana che annunciava la prima Messa. I rintocchi cercavano, entrandogli nel cervello, il ragazzo che era stato e che – credeva Chichibio – non esisteva più. Allungò il passo, per sfuggirli, finché cessarono, svanendo in un paio di rintocchi anomali, fiochi. Allungò ancora il passo, quasi correndo per la strada in forte discesa che conduceva al camposanto. Non lo aveva mai chiamato cimitero. A casa e in tutto il paese di diceva «il camposanto» e lui, pensandoci, lo chiamava ancora così. Cimitero era macabro, camposanto era dolce e lasciava una speranza. Il cancello era aperto. Entrò e camminò fra i cipressi alti e immobili, madidi di pioggia, i cipressi di sempre. Da ragazzo, aveva scorrazzato fra quei cipressi, giocando, restio ai richiami della mamma che acconciava fiori sulle tombe dei parenti. “Porta rispetto”, gli diceva la sua voce severa ma, lui sapeva, molto tenera e paziente. – Sì, certo, porto rispetto, mamma. Ci sei tu, qui. – Pronunciò le parole che nessuno poteva udire. Il piccolo camposanto era deserto. Si diresse verso il luogo indicatogli vagamente dalla sorella, trovò l’insieme di loculi bianchi, allineati e sovrapposti su quattro file. Leggeva i nomi, ad uno ad uno. Poi lì, nella seconda fila, su un loculo senza iscrizione, scritto in diagonale a matita copiativa sull’angolo in alto a sinistra, lesse il suo nome. Sentì il solito tonfo sulla nuca. S’irrigidì. Cominciò a parlare a mezza voce: – Non potevano metterti subito in un posto tutto per te, con il nome inciso, chiaro, e le date? Potevano. Dici che hanno voluto aspettare me? Bella roba, quel nome a matita copiativa messo di sghimbescio. Ma loro lo sanno che cosa mi fa, questo? E che gli frega? Picchia e dài e mena sul povero fesso di guerra! Scusa, ma’, scusa. Non si dice così. Si dice «che cosa gliene importa» ma non lo penso. Mi faccio sereno, come vuoi tu. Paziente e sereno. Però, Dio poteva pure…! No, scusa, ma’, non piangere. Non piangevi mica quella mattina, anzi no, piangevi con una lacrima sola e sorridevi, anche. Chissà quanto hai pianto dopo, quando io non potevo vederti più… quando eri sola, col babbo in Germania… Lo so che non dovevo gridare contro il babbo, gli devo rispetto, lo so, ma quella fidanzata, sì, tu capisci, hai ragione, hai sempre capito tutti, tu… lui in Germania e io nel Campo Venticinque. Ma io non potevo stare altrove, tu lo sai. Devo pregare il Signore, certo. Si dice «requiem aeternam dona ea, Domine, requiescat in pace, amen». Il segno della Croce, sì, fatto bene, senza rispetto umano che è solo vigliaccheria. Ecco. Va bene? Non parli? perché il Signore non fa il miracolo, perché qui, dove nessuno vede e nessuno sente se non noi due, non ti fa parlare a me? Vorrei sapere. Perché il cancro? perché il carcinoma al fegato? tutto lo strazio ti ha roso il fegato? che cosa hai pensato quando hai saputo di morire senza di me? E parla, ma’, parla, una parola sola, ma’… – La voce di Chichibio pareva il lieve murmure che un vento leggero e freddo, un refolo appena, traeva dai cipressi ma era, invece, una voce umana che risuonava nel silenzio attonito del Camposanto. La vide. Lì. Nell’ombra cupa fra il tronco e le prime fronde di un cipresso. Sorrideva e piangeva come quella mattina, alta, solenne, vestita di nero e tutta luce negli occhi, nella lacrima, nel sorriso delle labbra. Un attimo dopo e per tutta la vita, poi, non seppe mai se l’avesse veramente veduta o se la visione fosse stata un’allucinazione del suo povero cervello stremato. Si sentì, però, subito dopo, pieno di forza, di serenità, quasi di letizia. Carezzò quella pietra, due, tre, cinque volte. Ci batté sopra un colpettino leggero, sorridendo: – Ciao, ma’. Tanto, staremo sempre insieme. Con te e con Rino. Lo conosci, no? il mio amico che non hai mai veduto, lo conosci. – Si allontanò a passo svelto, uscì dal cancello. Andava a passo ben ritmato, battendo forte i talloni sul selciato, sentendo davanti, a fianco e dietro di sé il passo cadenzato dei criminali fascisti della Repubblica dell’Himalaya. Aveva voglia di cantare.LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HYMALAIA Leonoda Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)