21 Marzo 2021 Fonte: Centro Studi Geopolitica.info Autori: Salvatore Santangelo, Paolo Rubino
LEGGIAMO UN’AUTONOMA RICERCA TESA A INDIVIDUARE LE LINEE DI UNA STRATEGIA DEL RISCATTO ATTA A SOTTRARRE IL PAESE AL CINICO SFRUTTAMENTO DELL’INTERMINABILE STAUS QUO IMPOSTO DALL’EVERSIVA “FECONDA CONFILITTUALITA” PARTITOCRATICA E SINDACALE DIRETTA EREDE DELLA VIOLENZA DEI CIPPUTI PININBULL, CHE HA SEPPELLITO IL DETTATO COSTITUZIONALE NEI SUOI SPECIFICI ARTICOLI, COLLASSATO E MASSACRATO I CETI PROFESSIONALI DELLA CULTURA (‘ISTRUZIONE’) E DELLA BUROCRAZIA STRUTTURALMENTE PORTANTI, IL FORTE IMPULSO ALLA RICERCA, L’ESPANSIONE DELLE ATTIVITA’ IMPRENDITORIALI PRIVATE CREATIVE E COMPETITIVE E E FATTO ESPLODERE LA SPAVENTOSA INCIDENZA (NUMERICA, CLIENTALARE E RETRIBUTIVA) PARASSITARIA DELLA SUPER ‘MANAGERIALE’ DIRIGENZA DEI PATTI DELLA SCELLERATA TRASVERSALITA’ DABABE – TREBRUSAC, AZZERATO PER MOLTI ANNI IL RUOLO ITALIANO NEI FORI INTERNAZIONALI – D.C.
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Un’iniezione di geopolitica nel PNRR
Un’iniezione di geopolitica nel PNRR
(Salvatore Santangelo, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Paolo Rubino, D&R Advisors) In attesa delle integrazioni che dovrebbero essere apportate dal nuovo Governo, ci sono alcune osservazioni che emergono dalla lettura dell’ultima bozza disponibile del Piano italiano (PNRR) da portare all’esame della Commissione UE entro aprile; il draft risale al 15 gennaio 2021. Le prime dichiarazioni del nuovo Presidente del Consiglio – rilasciate in Parlamento – indicano che egli sembra ritenere l’impianto del Piano elaborato dal precedente Governo sostanzialmente valido. Mario Draghi, dunque, dovrebbe apportare quelle variazioni utili a renderlo più efficace in conformità alle linee guida del programma, il cui scopo strategico dichiarato è lo stimolo all’integrazione delle politiche economiche degli Stati membri. Per il perseguimento di questo obiettivo l’Italia vuole essere leader e laboratorio.
Articolo ispirato all’audizione di Salvatore Santangelo presso le commissioni riunte 5° (Bilancio) e 14° (Politiche dell’Unione Europea) del Senato, nell’ambito dell’esame del Doc. XVII n. 18 “Piano nazionale di ripresa e resilienza”.
Il tema della classe dirigente e del ruolo dello Stato
L’Europa ha già conosciuto un primo Recovery Plan: lo European Recovery Program, denominazione ufficiale del Piano Marshall. In concomitanza con il suo varo, nella maggior parte dei Paesi coinvolti ci fu un acceso dibattito sulla classe dirigente, ovvero sul fattore umano, che avrebbe dovuto realizzare l’ambizioso programma e generare il potente incremento di produttività sistemica auspicato. La risposta francese, in opposizione alla lunga tradizione di ingaggio delle élite dirigenti da bacini ristretti per censo e origine sociale, fu la riforma del sistema di formazione e reclutamento dei quadri del settore pubblico, che portò alla creazione dell’ENA.
Si trattò allora del primo – certamente più famoso – meccanismo democratico di formazione e reclutamento dei quadri dirigenti, anche in risposta alle tesi del libro La rivoluzione manageriale di James Burnham pubblicato nel 1941. E non può non sorprendere che proprio di recente, e proprio in Francia, sotto la spinta del populismo, in concomitanza con il progetto di recovery del terzo millennio, si sia aperta una discussione sull’opportunità di chiudere l’ENA!
Per certi versi – altrettanto sorprendente, ma in positivo – si annota come, tra i primi passi del governo italiano, ci sia proprio il tema della riforma, intesa questa volta come potenziamento, della PA. Il settore, chiave nell’organizzazione di qualsiasi Stato, ha subito, con particolare determinazione negli ultimi trent’anni, un’erosione e marginalizzazione di portata storica.
Se il beneficio di questa politica si è tradotto nel ventennale avanzo primario (salvo alcune eccezioni determinate dalla congiuntura internazionale come nel caso della Crisi del 2008/9), nel bilancio dello Stato italiano, senza pari nel contesto occidentale, il lato oscuro è rappresentato dall’impoverimento complessivo dell’organizzazione pubblica, sia nei suoi elementi immateriali (il capitale umano e i processi), sia in quelli materiali (strutture, strumenti e tecnologie).
Se è ipotizzabile che la geopandemia possa diventare il déclic di una nuova centralità statuale nella sfera economica, una sorta di revanche, in salsa terzo millennio, dei trente glorieuses, la sfida più importante consiste nel promuovere l’eccellenza della sfera pubblica, riscoprire la nobiltà del ruolo dei civil servant, i manager pubblici. Imprescindibile perciò la predisposizione di efficaci meccanismi di selezione, reclutamento e remunerazione.
Diversi studi hanno misurato la correlazione tra l’incremento del Pil e la produttività del pubblico impiego in ragione di un punto di Pil per ogni dieci punti incrementali di produttività nella PA.
Il confronto per questo parametro con gli altri Paesi del G20, ancor più con quelli europei, illumina ampiamente sul potenziale di crescita del sistema italiano. È piuttosto ovvio che la fase di costruzione richieda più tempo e più acume rispetto a quella di demolizione dell’ultimo trentennio, ma in questo molto può aiutare l’Italia la nuova tecnologia dell’informazione, sia in velocità, sia in ampiezza e profondità dell’accesso alle informazioni, sia in volume e accuratezza dei calcoli di convenienza e opportunità.
Il tema della nazione europea
Intrigante affrontare questo tema dal punto di vista del linguaggio. In tutto il contesto europeo la definizione testuale di Recovery Fund si sovrappone in continuazione con l’altra di Next Generation EU. Il ricorso promiscuo alle due differenti definizioni del medesimo progetto può generare confusione soprattutto in chiave prospettica. Se nomina sunt res, vi sono pochi dubbi che “recovery” sia il significante di un significato retrospettivo, quello del ripristino, del recupero, della guarigione. Nel 1945 gli americani volevano sinceramente guarire l’Europa dalla malattia del nazifascismo e dal rischio del contagio comunista.
La strategia americana prevedeva l’organizzazione dei partner europei in un sistema di alleanze politiche e militari che li mettesse in grado di difendersi con un dispiegamento minimo di truppe statunitensi. Altre sarebbero giunte solo se la situazione fosse precipitata. Il tutto sotto l’ombrello della deterrenza nucleare, garantita dagli arsenali atomici sotto lo stretto controllo Usa. Inoltre gli americani avevano acquisito un interesse nei confronti della prosperità dello spazio europeo: grazie al piano Marshall e ad altri meccanismi, gli Usa gettarono le basi per la rinascita economica come prerequisito per ripristinare le capacità militari europee.
Maggiori differenze nella qualità della vita dei due blocchi avrebbero inoltre, reso più attraente l’adesione ai valori occidentali. Gli Usa credevano fermamente – sia praticamente che ideologicamente – nei valori del libero mercato e del libero commercio, ma l’integrazione europea acquisiva agli occhi della classe dirigente americana un duplice vantaggio: uno specifico, grazie all’apertura di un nuovo mercato di sbocco per le proprie corporation, e un altro – ancor più importante – derivante dal reciproco vincolante impegno tra alleati potenzialmente litigiosi.
L’unione tra gli Stati dell’Europa occidentale, di fatto, rappresentava un bastione del sistema difensivo alleato. La declinazione marketing dell’ERP, Piano Marshall, non poteva essere più appropriata. Chi più del condottiero vincitore dell’Asse, futuro Segretario di Stato degli Stati Uniti meritava di nominare un progetto di guarigione. Il caso del Recovery Fund, in marketing Next Generation EU, rischia invece di essere un ossimoro. Infatti, anche tra le generazioni oggi presenti in un paese “anziano” come l’Italia, quel che sottolineava Giuseppe Sacco in “Industria e Potere Mondiale” (Franco Angeli, Roma, 2002) e cioè che “le categorie sociali dominanti sono più interessate alla preservazione dell’ordine sociale e delle attività economiche esistenti, che allo sviluppo economico e ad una trasformazione produttiva”
Lo strumento è il Fondo di ripristino, l’obiettivo è una visione del futuro, le prossime generazioni della Nazione europea. Esiste un’ampia letteratura che fa risalire il momento fondativo dell’aspirazione comunitaria europea a spinte esogene, in particolare quella statunitense, nel quadro dei propri obiettivi di potenza e nel contesto della guerra fredda. Per questa corrente storiografica, è proprio in coincidenza della “caduta del Muro” che, mutato il paradigma geopolitico, venuta meno la spinta esterna americana, l’esperimento comunitario – fin lì orientato alla meta del federalismo – è entrato in fase di stallo, se non perfino di regresso.
Adottare un linguaggio intrinsecamente orientato al ripristino del passato, la recovery, rischia di attribuire nuovamente a un fattore esterno – la geopandemia, questa volta – la funzione di forza motrice del processo federativo. Far prevalere, invece la denominazione marketing del progetto, Next Generation dell’Unione Europea, sposta il focus sul “momento Hamilton”, evocando il pensiero del politico e intellettuale americano capofila della corrente dei “federalisti”.
La visione diventa naturalmente di prospettiva progressiva, nella consapevolezza che l’integrazione europea non è solo aggregazione quantitativa di interessi, ma, sia pure attraverso strumenti e iniziative in campo economico, infrastrutturale e tecnologico, innanzitutto culturale, nell’interesse di un’umanità futura eppure assai vicina: la prossima generazione europea. In lingua italiana il progetto nazionale è stato denominato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Questo titolo fa sorgere inevitabilmente alcune perplessità: innanzitutto il ritorno del termine “resilienza”. Questa parola ha goduto, nell’ultimo ventennio dalle torri gemelle, un’inattesa fortuna. La sua origine, in scienza dei materiali, indica la capacità di una materia di assorbire un urto senza rompersi. Ben adattata al George Bush Jr. che – a fronte del crollo delle imponenti Twin Towers – replicava con l’indomabilità dello spirito americano. Tuttavia, è implicito in essa il significato di conservazione e resistenza. Se l’11 settembre 2001 suonava definitivamente appropriata, lo era già molto meno l’8 settembre 2008. Ancor meno nel 2020 della pandemia. Il progetto per la prossima generazione europea non può, non deve limitarsi alla resilienza, per quanto fortunato sia il termine. E se proprio si vuol ricorrere a un termine esotico, allora può soccorrere il nuovo conio dell’antifragilità.
Il suo inventore, filosofo, matematico, esperto di finanza Nassim Nicholas Taleb l’ha così decritta: «L’antifragilità va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock; l’antifragilità migliora». Il miglioramento è la naturale ambizione per la prossima generazione di europei, per i nostri figli. Il miglioramento presuppone il cambiamento, non il ripristino e la conservazione. E in questo senso, forse, più che di Piano Nazionale, sarebbe stato più corretto parlare di Capitolo Italia del NGEU.
Il tema Italia
Due sono le traiettorie fondamentali nella bozza di Piano: l’inclusione nel processo di sviluppo di ogni segmento sociale e territoriale lasciato indietro negli ultimi 30 anni e la sostenibilità ambientale dello sviluppo futuro della nostra civiltà. Sono intenti eccellenti. La strategia appare chiara. I mezzi finanziari per la sua realizzazione, decisamente coerenti, rassicurano ognuno che, per la prima volta da tempo immemorabile, i popoli europei e soprattutto gli italiani non sono di fronte a programmi velleitari. L’attenzione di ognuno – esecutori e osservatori – deve ora focalizzarsi sulla fase di esecuzione dell’ambizioso progetto. Non vi è dubbio che siamo di fronte a un piano fortemente integrato ed è chiaro che ogni singola iniziativa è matrice funzionale di tutte le altre.
Perciò è necessaria una visione olistica, dal momento che alterare o valutare un singolo aspetto può pregiudicare l’effetto complessivo. Per la medesima ragione, l’assenza o carenza anche di un singolo mattone può mettere a rischio l’intera costruzione. È prevedibile che il focus del Governo in carica, e della tecno struttura che lo assiste, sarà controllare attentamente che ogni mattone sia al posto giusto e adeguatamente solido per garantire il successo dell’architettura complessiva. Nei prossimi 60 giorni dovrà essere verificata la presenza e la qualità di ogni mattone. Si può ipotizzare che il tema delle infrastrutture (l’hardware) e dei trasporti (il software che lo anima) siano i più cruciali. Questo perché siamo di fronte all’area che assorbe i tempi di esecuzione più dilatati di ogni altra, impiega il maggior volume di capitale fisso, modifica in modo rilevante e irripetibile l’ambiente e il territorio, genera le esternalità più ampie e durevoli. Perciò richiede la pianificazione più lungimirante. Nella bozza visionata del piano italiano NGEU risalta proprio l’assenza di un mattone infrastrutturale cruciale: si tratta della completezza dell’integrazione delle piattaforme logistiche. Per quanto ampio spazio di trattazione sia dedicato a questo tema, esso è fragorosamente silente sulla componente aviation. Non risulta neanche un accenno fugace all’integrazione delle piattaforme di Fiumicino e Malpensa nei nodi intermodali delineati. Come se l’Italia dovesse pregiudizialmente escludere l’utilizzo del mezzo aereo, integrato nell’intermodalità eco-efficiente, per facilitare la mobilità. L’avido interesse (e i disastrosi risultati) con cui dall’estero si è guardato negli ultimi decenni all’Alitalia dovrebbe aver insegnato qualcosa. Per non parlare, come sottolineato da Giuseppe Sacco in “Critica del Nuovo Secolo” (Roma Luiss U.P. 2008) dei tentativi di trasformare Monaco, Parigi o Francoforte nell’hub del lucroso traffico aereo del Nord-Italia”.
Lo sviluppo in vista della tecnologia dei vettori in direzione eco-compatibile non può sfuggire a osservatori attenti. Ugualmente, la velocità della mobilità aerea è tuttora insostituibile sulle distanze superiori a mille chilometri. Ancora, le positive ricadute industriali della partecipazione all’industria aeronautica mondiale sono un fatto condiviso su scala globale. Come pure l’impiego di competenze umane altamente qualificate e lo stimolo a svilupparle ulteriormente. L’assenza di questo “mattone” non è tuttavia irrimediabile. È sufficiente aggiungere questa modalità a quelle già ben precisate: ferro, gomma e le vie d’acqua. La relativamente piccola dimensione del territorio nazionale consente di limitare la modalità aria ai due nodi principali di Malpensa e Fiumicino, con la possibile, ma non imprescindibile, estensione a un terzo polo nel Nordest, ed eventualmente a un quarto nel Mezzogiorno. L’importanza dei due ulteriori è ovviamente inversamente correlata alla dimensione della quantità e qualità di alta velocità ferroviaria integrata da Nordest e Sud con Malpensa e Fiumicino. La completezza aerea dell’integrazione intermodale, a scanso di equivoci, non richiede necessariamente di disporre di una compagnia aerea nazionale. Chiunque sia o siano gli operatori di trasporto, essi potranno operare in efficienza e qualità soltanto disponendo dell’infrastruttura adeguata, l’hardware. Se poi emergesse anche l’idea di dotare il sistema nazionale di un trasportatore aereo – un software italiano che animi l’infrastruttura – in tal caso l’ampio e meritevolissimo progetto di rimodernare e ampliare il parco mezzi (ferroviario, navale e su gomma) dovrebbe essere esteso anche al parco mezzi aereo, le cui innovazioni tecnologiche all’orizzonte in direzione eco-responsabile sembrano entusiasmanti. Mantenendo la visione olistica sulla progettualità a matrice che riguarda infrastrutture, trasporti, ma anche turismo e cultura bisognerebbe completare il piano in questa sua importante parte che assista per bene la mobilità italiana nell’Europa e nel mondo che verrà. L’intermodalità per l’Italia deve essere un boost caratterizzante perché la geografia del territorio, la lunga storia policentrica del paese, gli oggettivi ritardi accumulati nel recente passato in campo infrastrutturale, le inimmaginabili opzioni rese disponibili dall’accelerazione tecnologica in campo digitale sono tutti elementi che favoriscono l’approccio leapfrog per l’Italia, ovvero lo scavalcamento di una fase dello sviluppo e il passaggio alla fase successiva. Da alcuni decenni gli italiani – aziende, pubblica amministrazione, scuola e università, sanità, esercito, club sportivi – si affannano nella pratica del best in class practice e non leggono l’opportunità del leapfrogging, la vera unica opzione per chi ha perso un anno a scuola. Per questo ci vuole coraggio, visione, determinazione e opportunismo. L’inclusione dei penalizzati – donne e giovani innanzitutto – è realmente possibile soltanto attraverso la radicale messa in atto della connessione, sia essa delle vie tradizionali, sia di quelle tecnologiche immateriali. E, nel caso Italia, si tratta semplicemente di assecondare la storia e la geografia.