03 Giugno 2021 Autore: Gianbattista Baldanza
PAOLO E FRANCESCA
Come non affrontare in questo anno la ricorrenza della morte del Grande Poeta settecento anni fa?
Impossibile non celebrare quell’anima eletta che seppe mirabilmente fondere filosofia e poesia. Operazione molto complessa se si esamina lo scibile umano. La mia attenzione si rivolge al V canto dell’Inferno perché rappresenta il Dante migliore e più umano.
Dante discende nel cerchio secondo e subito riprende il tema del dolore con cui aveva chiuso il canto quarto. Il poeta narra rapido, sbrigativo, senza indugi descrittivi: il secondo cerchio è più piccolo del primo, ma le pene sono più dure e spingono i dannati ai lamenti. La stessa figura di Minosse, che campeggia gigantesca e spaventosa all’ingresso del cerchio, non trattiene più dello stretto necessario la fantasia del poeta. Di grande rapidità è anche la descrizione del meccanismo del giudizio, affidato ad una “estrema concentrazione di forme verbali”: “vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte” (vv. 14-15). E non meno sbrigativa è la risposta che non ammette replica, di Virgilio, al tentativo di Minosse di impedire il proseguimento del viaggio di Dante:
“Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”
(vv. 22-24)
Il poeta, dunque, dal verso 25, ci introduce nell’atmosfera propria del secondo cerchio e prepara l’ambiente, lo sfondo alla rievocazione della vicenda dei due cognati, creando e sviluppando, acusticamente e visivamente, il senso dell’orrore e dello smarrimento: “le dolenti note” che percuotono l’orecchio e penetrano nell’anima, il fragore di acque in tempesta, il luogo “d’ogne luce muto” che cresce lo spavento della “bufera infernal”, terribile nella sua eternità (“che mai non resta”).
Ma ecco, in questo orrore ancora incognito, nel quale gli oggetti non hanno volto, assorbiti nell’oscurità, ecco il richiamo agli storni che “nel freddo tempo” volano a schiere larghe e piene, la prima similitudine, con cui comincia il processo di individuazione, il primo rilievo visivo, anche se quelle anime, sbattute di qua e di là dalla tempesta, sono ancora colte nella loro anonima realtà. Su questo sfondo si distacca la schiera della anime che morirono per amore, che procede ordinata in lunga riga come le gru, donne e uomini famosi della storia e della leggenda. Non diremmo, perciò, che questa rassegna “si perde nell’anonimo”, anche perché essa prepara la cornice aristocratica e cortese di amore e morte, alla storia di Paolo e Francesca. D’altra parte, i casi dolorosi di queste anime “di fama note” pongono già alla coscienza di Dante il problema del rapporto tra appetito e intelletto: come mai e per quale forza demoniaca il nobile sentimento dell’amore può diventare strumento di morte e di perdizione. Inizia, dunque, l’incontro e il colloquio con i due spiriti amanti, ai quali il poeta si rivolge direttamente cercando di penetrare nel mistero del loro cuore, nel nodo drammatico che lega insieme amore e morte, felicità e dannazione. Francesca, che sa cogliere nelle parole del poeta l’umana simpatia e la pietosa partecipazione, risponde all’“affettuoso grido” e narra, gentile, la loro storia d’amore. La prima parte del suo discorso è intessuta di squisitezze letterarie e di richiami a testi conosciuti, e la giustificazione dottrinale di Francesca, a bene vedere, ci riporta più all’atmosfera cortese-cavalleresca che a quella propria degli ideali stilnovistici. E’ vero che Francesca, in sede di giustificazione sua e di Paolo, ricorre (v. 100) ai versi 1 e 23 della canzone famosa del Guinizzelli (“al cor gentil reimpara sempre amore”; e “foco d’amore in gentil cor s’apprende”, echeggiati dallo stesso Dante nel sonetto XX della Vita Nuova: “amore e ‘l cor gentil sono una cosa”), ma sono concetti, come si sa, comuni ai trattatisti d’amore medioevali: diventa stilnovista solo per la diversa carica spirituale e morale di cui sono investiti: e non è il caso di Paolo e Francesca. Altro concetto assai diffuso nella trattatistica di amore medioevale e passato in tutta la lirica cortese dai provenzali allo stilnovo, è quello che Francesca enuncia al verso 103, al punto che Sapegno ricorda come ad esso facciano ricorso anche gli scrittori religiosi, citando Fra Giordano da Pisa e S. Caterina. Qui basti ricordare la regola IX: “amore nemo potest nisi qui amoris suasione compellitur”; e la regola XXVI: “amor nill posset amori denegare” di quella summa dell’amor cortese che era il trattato De Amore di Andrea Cappellano. D’altra parte, anche la bellezza (“prese costumi della bella persona” v. 101; “mi prese del costui piacer sì forte,” v. 104) come generatrice d’amore e canone dell’amore cortese in genere, senza dire che di questo principio Francesca in definitiva “dà una interpretazione corporea ed una realizzazione adulterina”.
“Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
vv. 118-120
“Questa, dice giustamente Contini, non è una formula della convenzione curiale, ma è Cappellano puro”. E la stessa cosa in sostanza si può dire dei versi vv. 131 e 136 (“e scolorocci il viso”; “la bocca mi baciò tutto tremante”), che traducono in effetti la regola XV e le regola XIV del De Amore. Quanto, poi, al v. 106 (“amor condusse noi ad una morte”), l’identità di volere degli amanti, che li accomuna nell’identità della sorte. Avviandoci alla conclusione del suo discorso, Francesca dirà, cercando di fissare i limiti della loro responsabilità: “soli eravamo e sansa alcun sospetto (v. 129) di quello che sarebbe accaduto con la lettura del romanzo di Lancillotto; ma in effetti quel sentimento d’amore, anche se ancora non reciprocamente confessato, era già annidato in essi e già minato dall’insidia della passione. Il nostro amore, lascia capire Francesca, era lecito e innocente: ma erano la liceità e l’innocenza degli ideali cortesi, aristocratici e raffinati, ma privi, al fondo, di eticità. Francesca (ancora un tentativo di autogiustificazione), cerca di attribuire la responsabilità dell’accaduto alla lettura della storia d’amore di Lancillotto e Ginevra; ma il libro è la causa occasionale del loro dramma. D’altra parte, la citazione del romanzo, lascia pensare alle “analogie stabilite mentalmente da Francesca fra la situazione di Lancillotto e Ginevra e la sua personale” (D’Arco Silvio Avalle, Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Milano, 1975, p. 105). L’amore di costoro, infatti, a lungo tenuto segreto, aveva troppe affinità con l’amore non confessato di Paolo e Francesca. E’ difficile insomma sfuggire all’impressione che quel sentimento d’amore, fosse già, nei due cognati, sotterraneamente maturo, pronto a manifestarsi nel modo che sappiamo. La fenomenologia della sua rivelazione, con quella replicazione di atteggiamenti già sensualmente inquieti, turbati, sembra confortarci nel nostro convincimento
“Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il vis”
(vv. 130-131)
L’emozione dei volti, di sguardi più volte mossi l’uno verso l’altro, rivelatori di intimo turbamento, ci dicono, dunque, che i due innamorati hanno avuto certo la sensazione che stesse accadendo l’irreparabile; e tuttavia nulla hanno opposto o saputo opporre al richiamo irresistibile di quel bacio carico di desiderio, che doveva precipitarli nel vortice peccaminoso. Di più: la durata del rapporto (“il tempo felice”) ci avverte che l’esigenza etica non s’era fatta sentire neppure successivamente, quando ancora era possibile un ripensamento, se Francesca ci dice che quel giorno, tranne l’episodio del bacio “la prima radice” del loro amore, null’altro era accaduto (v. 138): folgorati dall’emozione e sopraffatti dal turbamento, i due innamorati interruppero la lettura del libro. Il poeta, perciò, risolve il problema sul piano morale, che non esclude quello umano, ma coesiste con esso e insieme concorrono a realizzare la perfetta individuazione del personaggio, cioè la sua mirabile concretezza poetica. Da ciò l’umana comprensione e la pietà del poeta, che, se è motivo presente nell’Inferno sin dall’inizio (m’apparecchiava a sostener la guerra – sì del cammino e sì della pietate, II, vv. 4 e5 ), tanto più è comprensibile nei confronti di individualità eroiche e soprattutto di Paolo e Francesca, perduti proprio da un sentimento umano dei più alti e potenti. Ma questa disponibilità umana alla comprensione e alla pietà non invade mai in Dante la sfera etica e mai interferisce sul rapporto tra colpa e castigo. Trattando dell’amore quale universale influsso da Dio partecipato a tutte le creature “per lo modo quasi che la natura del sole è partecipe ne l’altre stelle” (conv. III, II, V). Dante osserva che l’uomo per la sua nobiltà partecipa nella natura di tutti gli esseri, di tutte le cose: “e però che l’uomo, avvenga che una sola sostanza sia tutta (sua) forma per la sua nobilitate ha in sé natura di tutte queste cose, tutti questi amori puote avere e tutti li ha” (conv. III, 2-5); e che “per la natura quarta, degli animali, cioè sensitiva hae l’uomo altro amore, per lo quale ama secondo la sensibile apparenza, sì come bestia; e questo amore ne l’uomo massimamente a mestiere di rettore per la sua soperchievole operazione, ne lo diletto massimamente del gusto e del tatto” (conv. ibid. 10); ma è “per la quinta e d’ultima natura, cioè vera umana, o meglio dicendo, angelica, cioè razionale all’uomo amore alla veritade e a la vertude” (conv. ibid. 11). Dante, dunque, distingue l’amore “secondo la sensibile apparenza”, volto soprattutto a “diletto del gusto e del tatto”, la passione che travolge, dell’amore “a la veritade e a la vertude”, dalla “recta dilectio”: come già, si badi, al tempo della Vita Nuova. E’ questo tema dei rapporti tra eticità e natura, tra razionalità e passione, tra libero arbitrio e appetiti, presente fin dall’inizio quale preciso sottofondo concettuale del canto, è questo tema a dominare l’episodio di Francesca, a suscitare e giustificare il commosso atteggiamento del poeta e la sua pietà al cospetto dell’umana fragilità di fronte ad un sentimento radicale e insopprimibile del nostro essere. La parola –tema “amor” domina il discorso di Francesca che torna con martellante insistenza all’inizio delle tre terzine famose che concludono la prima parte della risposta al poeta. E, se è vero, lo abbiamo ricordato sopra, che così come la storia dei personaggi illustri della rassegna (“le donne antiche” e “i cavalieri” v. 71), anche quella di Paolo e Francesca è ascrivibile al “motivo-segno letterario dell’amore infelice e proibito”, che è patrimonio comune, e quasi pubblica materies universamente attingibile, della civiltà letteraria medioevale, è in dubbio, tuttavia, che Dante lo investe di una carica emotiva e dottrinale ben diversa e lo piega a significati profondamente nuovi, nel momento stesso in cui accorda ai due cognati la sua umanissima comprensione e la sua sincera pietà.
Ma torniamo al discorso di Francesca. Nella prima parte ella cerca, davanti a se stessa e al poeta, una giustificazione razionale al suo dramma, percorrendone rapidamente l’iter dall’inizio della sua passione peccaminosa alla sua catastrofica conclusione: e martella, come s’è detto, sulla parola tematica amor… amor … amor …nella sua potenza inesorabile. Dante, dopo aver conosciuto la triste vicenda di quell’amore, vuole indagare più a fondo e penetrare negli intricati meandri del cuore umano, dove il fervore degli affetti convive con la febbre dei sensi:
“ma dimmi: al tempo d’ i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
(vv. 118-120)
E Francesca, messa da parte ogni giustificazione, rende la propria confessione con sincerità assoluta e, mentre rievoca quei momenti di felice delirio, assapora l’amarezza senza fine della sua condizione attuale. E’ questa Francesca della seconda parte, così naturale e schietta nella commossa rievocazione della vita irrequieta dei sentimenti, che meglio si individua e parla alla fantasia commossa del poeta e più profondamente tocca il suo cuore e il nostro; e porta, col pianto senza parole di Paolo, al culmine la pietà di Dante: quella pietà che è motivo dominante del canto e perciò collocata sempre, quale parola-tema, in posizione chiave: col v. 72, che chiude la rassegna delle “donne antiche” e “dei cavalieri” e prelude all’episodio di Francesca; col verso 93, che sottolinea “l’atteggiamento psicologico e morale di Dante” ed e correlato al verso 88 (“si forte fu l’affettuoso grido”); col verso 117 in forma aggettivale, che plasticamente traduce la dolente meditazione del poeta dopo la prima confessione della donna; col verso 140 a conclusione dell’episodio.
Dante, quindi, quanto ad amore, è già nella Vita Nuova, il poeta della rettitudine, se l’immagine interiore di Beatrice “nulla volta sofferse che amore mi reggesse senza lo fedele consiglio della ragione” (Vita Nuova, II, 9).
Francesca non ha avvertito che al di là di questo mondo dove sembrava alimentarsi una così grande dolcezza (“al tempo d’i dolci sospiri…), c’è un’altra dimensione, “un ben diverso amore che spera, si pente e tende alla sua meta divina”. E questa consapevolezza, presente e così intrisa di tristezza in Dante, non porta il poeta ad una condanna morale e neppure ad una scusa solidale, ma ad una pietà che non è “perplessità”, ma vera compassione umana.
In memoria del Professor Giovanni Iorio maestro e amico di anni indimenticabili.