08 Giugno 2022 Fonte: Il Monocolo Autore: Silvano Moffa
Pubblichiamo l’editoriale di Silvano Moffa, che è uscito sul nuovo numero de Il Monocolo
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Se la politica diventa una Babele
Il panorama politico italiano appare sempre più nebuloso. L’avvicinarsi delle elezioni amministrative, come era prevedibile, non aiuta a diradare le nebbie.
Sale il tasso di litigiosità tra i partiti e all’interno delle stesse forze politiche spuntano qua e là attriti e divergenze mai sopite.
Niente di nuovo, in verità.
Siamo ormai abituati a questo carosello.
Da quando i partiti sono stati svuotati di ruolo e di senso dalla frenetica corsa alla personalizzazione delle leadership, e la loro funzione si è ridotta a quella di un cenacolo di signorsì la cui sola preoccupazione è mantenersi nelle grazie del capo e assicurarsi un comodo cadreghino; da quando, nel nome di una oligarchia ristretta (anch’essa frutto delle scelte del leader di turno) si è dileguata ogni residua forma di democrazia interna e persino i congressi, una volta luoghi di confronto di idee e tesi programmatiche, sedi naturali di dialettica, si sono trasformati in kermesse spettacolari, luccicanti scatole di vuoto a perdere, fugaci vetrine per i leader, buone per talk show e comparsate televisive; da quando, in conclusione, la politica è scomparsa dalla scena – e, con la politica, i partiti – rinunciando alla sua più alta e specifica funzione di promuove idee, alimentare progetti, sprigionare passioni e fermenti culturali, intorno a cui costruire linee programmatiche, avanzare proposte e lanciare sfide ambiziose di futuro; da quando tutto questo è accaduto sull’onda dell’antipolitica e di un giustizialismo anti casta che, dopo aver procurato danni enormi, sta finendo con il divorare se stesso, siamo costretti a sorbirci un panorama stucchevole e melenso.
La speranza, però, che le cose cambino è l’ultima a morire, come si dice. Sicché vorremmo offrire, con molta umiltà, senza peccare di immodestia, alcuni consigli non richiesti sia al centro destra sia al centro sinistra.
All’inizio del governo Draghi su queste stesse colonne scrivemmo che un esecutivo sostenuto dal novanta per cento del Parlamento, da quasi tutte le forze politiche, eccezion fatta per Fratelli d’Italia, avrebbe potuto offrire una occasione storica ai partiti: ridefinirsi, riorganizzarsi, recuperare senso e consapevolezza di ruolo e funzione, una forma che ne esaltasse le doti di elaborazione di idee, ne enucleasse il profilo identitario e la capacità di creare nuova classe dirigente. Insomma, l’aver affidato a Draghi il compito di fare uscire l’Italia dall’emergenza della pandemia e di garantire il corretto impiego dei fondi provenienti dall’Europa, doveva liberare i partiti da alcune incombenze e proiettarli sul piano, non meno impegnativo, del recupero di credibilità e autorevolezza, dopo le non poche – chi più chi meno – loro fallimentari stagioni di governo.
Purtroppo, l’auspico non si è avverato.
Al contrario, abbiamo assistito ad una ulteriore involuzione. Dopo i tanti, forbiti annunci di rilancio della politica, il meccanismo si è inceppato.
E tutto è tornato come prima, peggio di prima. Non è servito a scuotere i partiti neppure l’aumento vertiginoso dell’astensionismo nelle elezioni amministrative dello scorso anno.
Un astensionismo che ha fotografato, ove mai non fosse chiaro, una frattura profonda nell’elettorato e una abissale distanza tra le istanze popolari e il ceto politico. Nessuno che si sia chiesto, a destra come a sinistra, le ragioni di quella frattura, di quel disincanto che ha corroso nel tempo le forme della partecipazione. La verità non confessata è che sono in molti, da quelle parti, a pensare che la ridotta e scarsa affluenza alle urne favorisca alla fine chi è già al potere. Anche se quel potere, in effetti, si è sbiadito e dislocato altrove (in Europa, nella Finanza, nella Tecnocrazia, nella Magistratura).
Perché doversi preoccupare? Se non si fa nulla perché cambi qualcosa, ci deve pur essere una ragione!
A scavare, non si trova altro che insipienza, piccineria, spocchiosa e fraudolente risacca nel limbo della rendita di posizione, qualcosa a che fare con il tornaconto di pochi eletti (termine inteso nell’accezione elettorale, intendiamoci). Una volta, nel Parlamento andava chi incarnava la migliore espressione del Paese.
Il termine “eletto” assumeva un significato alto e omnicomprensivo. Nell’eletto si custodiva il destino di una missione nobile, di servizio, quasi religiosa. Ora, tutto è saltato. Persi gli ormeggi, si naviga a vista e si fatica a scorgere l’orizzonte.
Eccoci allora al nodo del problema.
Il centro sinistra assume sempre più i contorni di una torre di Babele. Altro che “campo largo”, per citare una rurale espressione di Letta. Da quelle parti, il campo più che largo appare sconnesso, ammalorato, pieno di fossi e tutt’altro che praticabile.
Da quando il segretario del Pd ha invocato il “campo largo” (fuor di metafora: una alleanza allargata ai Cinquestelle per tornare a governare insieme dopo la parentesi draghiana), quel leguleio di Conte non ha fatto altro che scavare solchi e aumentare le distanze dal Pd.
Aprendo, però, un fronte interno al suo movimento, con Di Maio a guidarlo. La guerra tra la Russia e la Crimea, con la storia delle armi per foraggiare la resistenza di Zelensky, ha offerto l’ennesima occasione per distinguo e prese di distanza. Renzi e Calenda si comportano come galli nel pollaio.
Dall’alto dei loro miseri sondaggi, sono più i giorni in cui si beccano per rivendicare un Centro che inglobi la sinistra senza i grillini, rispetto ai giorni in cui cercano di tessere la trama di una ipotetica alleanza a sinistra.
In queste condizioni, per il centrodestra la partita delle prossime elezioni politiche apparirebbe in discesa e vincente. Almeno stando ai sondaggi, la coalizione risulterebbe vincente. Per lo più, con qualunque sistema elettorale: l’attuale, parzialmente maggioritario, o con il proporzionale puro e sbarramento al 3 o al 5 per cento.
Il condizionale, però, è d’obbligo. Non foss’altro perché, anche quando i sondaggi lo davano vincente, il centro destra ci ha messo del suo per perdere la partita.
A Roma, Milano, Napoli, tanto per citare i casi più recenti, ha gettato al vento ogni possibilità di affermazione proponendo personaggi a dir poco inventati. Un esempio eclatante di rinuncia della politica a fare quel che le compete e, nello stesso tempo, una confessione smaccata di scarsità di quadri dirigenti da offrire alla pubblica amministrazione per governare. Un disastro.
Ci sono, poi, ragioni ancor più profonde che fanno di questa alleanza una sorta di mero rassemblement elettorale, cosa ben diversa da una coalizione che ambisca a governare il Paese, dopo la lunga parentesi dei tecnici a Palazzo Chigi.
Partiamo da qui. E’ fuor di dubbio che si è creato un vulnus, un vuoto di democrazia in questi anni.
Da Mario Monti a Mario Draghi, la politica si è lasciata guidare da Bruxelles, delegando ai tecnici della finanza ogni potere. Genuflessa e subalterna. Si dirà: non c’era altra strada, visto il pesante indebitamento e i conti in disordine. Può darsi.
Ma la perduranza della fase dei tecnocrati ha prodotto una sorta di rassegnata impotenza nelle forze politiche, già fin troppo deboli di loro. E quando la Lega ha cercato, con Salvini, di cambiare registro, anche a costo di far saltare l’alleanza di centro destra, imbarcandosi in uno spericolato salto mortale triplo con la truppa di Grillo, le cose si sono frantumate in una sola estate.
Acqua passata, si dirà.
Ma acqua che ha logorato ponti, creato imbarazzi e aperto il varco della reciproca diffidenza. Nel centrodestra si respira un clima di sospetto: nessuno si fida più dell’altro.
La cosa di per sé, anche se grave, sarebbe ancora rimediabile. Se non fosse per la corsa a primeggiare in quella che fu l’antica Casa delle Libertà. Una corsa a indossare la maglia rosa del prossimo giro di Palazzo Chigi. Come se la partita si giocasse in casa, e non nei confronti degli avversari. Tant’è.
La gara nei sondaggi penalizza ora l’uno ora l’altro leader del centrodestra. Nessuno che rilevi come alla contesa interna alla coalizione sfugga quell’area consistente del non-voto in cui si è rifugiata gran parte dell’elettorato italiano. Uno spazio di cui nessuno si cura.
Uno spazio occupato da italiani disgustati e delusi, italiani che non trovano più punti di riferimento, disorientati e avviliti dal balbettio inconcludente di politicanti privi di cultura e di appeal. Invece, quel terreno andrebbe esplorato, ci sono milioni di donne e uomini da riportare all’impegno politico. In che modo? Con un linguaggio denso di idee e di cultura e non infarcito di banalità.
Con ideali, valori, aggiornando il quadro delle analisi economiche e geopolitiche, penetrando nel merito dei fattori che stanno cambiando il lavoro e l’industria, modificando gli spazi storico-politici, dall’Europa all’Eurasia all’Africa.
Ma anche ampliando la sfera del pensiero, abbattendo i limiti del pensiero unico dominante, per riscoprire l’importanza della natura, del paesaggio, dell’uomo contro ogni forma di distruzione, di annichilimento della persona, di restringimento delle libertà sotto i colpi del Grande Fratello telematico.
C’è anche altro a rendere ardua l’ascesa verso una coalizione degna di nota e di consenso. Proviamo a riassumerne alcuni aspetti. Se c’è una riforma che gli italiani accetterebbero, dopo la manifesta incapacità dei partiti di individuare il successore di Mattarella al Quirinale, è l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
La Meloni ha provato a farla approvare in Parlamento. Non c’è riuscita.
La spiegazione è semplice. L’idea di fare delle riforme costituzionali una bandierina da esibire pro domo sua è sbagliata. Ci è cascato Renzi vanificando, in un referendum fin troppo personalizzato, quel che di buono era contenuto in quella sua riforma. E sbaglia la Meloni a intestardirsi usando analogo metodo. D’altronde, il centrodestra, tempo fa, provò a far decollare, senza riuscirci, una riforma costituzionale di rango e contenuto più completi. Anche in quella circostanza, per motivi simili, il referendum fu bocciato.
Allora, non è forse tempo di cambiare registro? Che la nostra Costituzione sia ormai vetusta e da aggiornare è fuor di dubbio. Per farlo occorre una Assemblea Costituente. Non si sfugge.
Se la intesti in maniera decisa e concreta il centro destra. Ritrovando, almeno in questo, il comun denominatore di una battaglia degna di essere portata all’attenzione degli italiani.
Non sappiamo se la svolta conservatrice della Meloni, finora più pragmatica che di sostanza, potrà sortire effetti nella costruzione di un nuovo centrodestra.
Ricordiamo che il più moderno dei conservatori, Roger Scruton, nel suo Manifesto dei conservatori, sollecita la politica a fissare il limite della modernità dal di dentro della modernità, con una sfida di idee che superi il minimalismo della semplice reazione.
Né ci pare possa aiutare alla crescita di una destra moderna ed europea una sfacciata subalternità agli Usa e alla Nato che neppure Almirante, pur aderendo al patto Atlantico, ebbe mai a sbandierare come un vessillo di cui andare fieri. “Alleati, non servi”, diceva il capo del Msi.
Se è vero che essere alleati non significa pensarla sempre e comunque alla stessa maniera, come spesso ripete Silvio Berlusconi, è pur vero che su alcune questioni dirimenti e fondamentali (politica estera ed economia, famiglia, diritti civili, giustizia) va tracciata una linea comune e condivisa.
Da alleati le elezioni si possono pur vincere. Ma per governare ci vuole ben altro. Vale per la destra come per la sinistra.
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