Hadar Morag, quanto (non) fedele a #israelebombarda?

09 Novembre 2023 Fonti: Linkedin, FaceBook, Rai, Mymovies.it, il manifesto, varie

Una regista e produttrice della Palestina occupata che ha avuto il coraggio della nonna: non essere vampiri dei loro morti, non essere spietati occupanti di una terra e del suo popolo

Faith – Love – Hope
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“Quando mia nonna arrivò qui dopo l’Olocausto, l’Agenzia Ebraica le promise una casa. Non aveva nulla, tutta la sua famiglia era stata sterminata. Ha aspettato a lungo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. Poi la portarono ad Ajami, a Jaffa, in una bella casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora le stoviglie degli arabi che vivevano lì e che erano stati cacciati. Allora tornò all’agenzia e disse: “Riportatemi alla tenda, non farò mai a nessun altro quello che è stato fatto a me”.
Questa è la mia eredità, ma non tutti hanno fatto questa scelta. Come possiamo diventare ciò che abbiamo contrastato? Questa è la grande domanda”.
Hadar Morag, regista israeliana

Dalla Pagina di Abbas Fahdel

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WHY HAST THOU FORSAKEN ME?

UN DRAMMA SULL’ESPERIENZA DELLA VIOLENZA IN UN CONTESTO URBANO DEGRADATO

Recensione di Annalice Furfari

In un quartiere poverissimo di una città israeliana, Muhammad, adolescente arabo respinto da tutti ai margini della società, vaga indifeso e inquieto per strada, in cerca di lavoretti o amicizia. Un giorno incontra Gurevich, solitario girovago che, in sella alla sua moto, si addentra nelle viscere della città e nei suoi vicoli più bui e degradati, affilando coltelli di macellerie e ristoranti per vivere. Muhammad lo convince a insegnargli il mestiere e lo segue nelle sue avventure metropolitane. Ben presto, questo improbabile apprendistato si trasforma in qualcosa di molto pericoloso.
Armata di camera a mano, la regista israeliana Hadar Morag pedina il suo giovanissimo protagonista adoperando un rigore documentario, in un film pressoché privo di dialoghi, dove la miseria e il degrado, materiale e morale, sono esibiti senza alcun risparmio. La regista, che ha studiato teologia, ha intitolato il suo film prendendo spunto dalla famosa frase che, secondo il Vangelo, Gesù Cristo avrebbe rivolto a Dio sulla croce: “Perché mi hai abbandonato?”. Il titolo ci dà una chiara indicazione delle intenzioni della regista, decisa a mettere in scena un dramma sull’esperienza della violenza in un contesto degradato, in cui la povertà non spinge soltanto a delinquere per necessità, ma anche a non avere rispetto per l’innocenza dell’infanzia.
Ispirandosi alla filosofia di Simone Weil – teologa francese che ha scritto che l’esperienza dell’atto violento e della malvagità consuma e distrugge vittima e aggressore – la regista tratteggia un inferno urbano in cui a farne le spese sono i più piccoli, i più indifesi, che finiscono per sentirsi in colpa per atti di cui sono vittime, arrivando a compiere loro stessi gesti estremi. Come un agnello sacrificale, il ragazzino protagonista si assume le colpe di un mondo che lo ha sempre considerato uno scarto, negandogli qualsiasi possibilità di riscatto.
La brutalità della situazione si rispecchia, volutamente, nello stile registico di un film che richiede allo spettatore un certo sforzo nel sopportare una pesantezza di forma e contenuto, corroborata da personaggi e situazioni ripugnanti, che non rendono pienamente giustizia alla nobile intenzione pasoliniana di realizzare un film di denuncia sociale. Con una sceneggiatura più robusta e dei protagonisti con cui fosse stato più facile identificarsi, il film ne avrebbe guadagnato in emozione. 

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