Sul Nascere. Fra Aristotele e Emanuele Severino, la genetica e l’etica della vita. Come orientarsi?

L’embrione umano e la potenza come esser-già-uomo: la sua pre-determinazione come dinamica finalistica che precede il ruolo degli accidenti

03 Luglio 2024 Autore: Domenico Cambareri

Aut tace

Aut loquere meliora

Silentio

Salvator Rosa

Sempre condiviso

Ma

Qui non da adempiere

Domenico Cambareri

(28 giugno 2024) Due notti addietro, attorno alle 03.15, mi è capitato di prendere di aprire un libro quasi a caso (episodi simili sono frequenti sia per me che per altre persone). Il libro di una raccolta di elzeviri del defunto filosofo Emanuele Severino, edito nel 2003 da Rizzoli con il titolo “Nascere”. Caso curioso, ancora un poco di più perché nell’aprirlo mi sono capitate quattro delle pagine che venti anni addietro avevano attirato, durante la mia lettura, molta attenzione, assieme ad altre, sia in merito alle tematiche affrontate con stringata e chiara efficacia dal filosofo, sia per il fatto che in più punti mi trovavo nel non condividere delle sue argomentazioni e delle sue conclusioni, proprio in riferimento ad alcuni nuclei concettuali e valoriali centrali.

Questa lettura prima dei vagiti dell’aura a volte mi capita per la frequente insonnia scatenata dai più diversi motivi organici con cui convivo non gioiosamente da molti anni. Motivi, cause in generale riconducibili alla tentacolare poliedricità delle reattività dovute alla sensibilità chimica multipla, conosciuta con l’acronimo MCS, volutamente celata dalle autorità preposte alla salute e alla sicurezza sanitari ambientale con mille ridicole speciosità eziologiche; sia alla correlata delezione di piccolissime parti di un enzima molto importante, il Glutathione Trasferasi.

Questa speciale e non desiderata convivenza del mio copro con la sua stessa natura mi porta ad atomizzare, proprio a livello di estrema polverizzazione, – come in realtà avviene, laddove dagli atomi di ossigeno ‘saltano fuori’ singoli elettroni che vanno a creare scombinamenti a catena – la continuità delle mie applicazioni in tutti i miei impegni e interessi, costellandole con incessanti dis-continuità per la curiosa stanchezza cronica che si diverte ad infierire attraverso ciò che conosciuto come processo di iper ossidazione organica. Queste condizioni fisiologiche, psicologiche, esistenziali mi hanno portato a conoscere nozionisticamente e anche concettualmente diverse e molto varie acquisizioni scientifiche che altrimenti non sarebbero mai rientrate nel focus di alcune fra le mie più importanti ed elevata osservazioni ed attenzioni. Contenuti che si sono proficuamente riverberati nel processo conoscitivo e dell’allargamento degli orizzonti personali, poco inclini a degli altri ambiti conoscitivi.

Quest digressione aneddotica introduttiva contiene preliminari e implicite anticipazioni su quanto sto andando a focalizzare del contesto severiniano (cap. IV, ESSERE UOMO IN POTENZA, pp. 139 -146, che costituisce in un certo qual modo lo sviluppo del precedente cap. III, SU ALCUNE TESI DEL PROFESSOR JURGEN HABERMAS RELATIVI AI <<RISCHI DI UNA GENETICA LIBERALE>>, pp.133 – 138)-

Nocciolo problematico del discorso severiniano è l’embrione umano nato dalla fecondazione dell’ovulo femminile realizzata con il seme maschile. L’embrione è, in termini aristotelici la potenza, rispetto all’uomo, che ne è il compimento, l’atto. Il Professor Severino rileva che questa condivisione generale di fondo si scinde nel momento in cui si viene ad affermare che l’embrione sia già un essere umano, giacché vi è chi nega che l’embrione sia già un essere umano completo, perché non è cosa certa che vi siano, che vi saranno in futuro sempre condizioni normali atte a garantire lo sviluppo dell’embrione che potrà diventare così l’ essere umano tout court: nella sua pienezza.

Egli scrive: << I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della <<potenza>>. Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia già un esser-già-uomo, ma, appunto, un esserlo già <<in potenza>>. Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia << in potenza>> un essere umano, sia tuttavia un non-esser-ancora-uomo. In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio – e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della <<potenza>>.

Ma nel secondo caso si limita a esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un’ipotesi, sia pure altamente confermata. (Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle ipotesi della scienza quella che dovrebbe essere la verità assoluta, cioè non ipotetica, del proprio insegnamento.) In favore del carattere umano dell’embrione suona invece il principio che il suo esser uomo <<in potenza>> è il suo esse-già-uomo, sebbene appunto <<in potenza>>. E se è già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio.

   Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo <<in atto>>, dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico, ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che <<ciò che è in potenza è in potenza gli opposti>>. Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto, allora proprio perché lo può (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo, può anche diventare non-uomo, cioè qualcosa che uomo non è.

   E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore): l’embrione – si dice – è una potenza un esser-già-uomo. Ma, si è visto, proprio perché <<in potenza>> uomo l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo…. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente…  

   Proprio per questo l’embrione non è un essere umano…

   Sia pure inconsapevolmente. Ad affermare che l’embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è un omicidio, sono dunque coloro che dell’embrione, alla luce dell’idea di <<potenza>>, intendono essere gli amici più fedeli. (Poi, andando al fondo del problema – e non potenza certo nella direzione del pensiero <<laico>> -, proprio questa idea di <<potenza>>, che spinge alla morte, dovrà essere messa in questione – essenzialmente unita com’è alla forma estrema della violenza e della follia).>>

   Ritengo che sia stato indispensabile riportare questi brevi brani di Emanuele Severino per potersi correttamente orientare nel contesto delle mie osservazioni e non condivisioni del pensiero dell’autore e del pensiero aristotelico per come da lui presentato (peraltro, più in avanti, ne rileva l’inadeguatezza, pur rimarcando la espressiva e plasticità concettuale nell’ambito della corrente comunicazione verbale non filosofica dei termini di atto e di potenza), e per come Aristotele stesso lo ebbe a formulare.

  

Senza volere tediare più oltre i lettori, riporto questa precisazione fondamentale dell’illustre filosofo italiano: <<Vado da tempo mostrando che pur essendo potentemente dominante e posto alla radice non solo del senso comune, ma anche della scienza, della religione e di tutto il resto, il costrutto <<metafisico>> di <<potenza>> è un grandioso e radicale assurdo. Poiché l’embrione è da tutti considerato un uomo <<in potenza>>, l’<<embrione>> è a sua volta un costrutto teorico assurdo, contraddittorio, impossibile.  … questa interpretazione del divenire dell’uomo (e delle cose ingenerale) non può essere tenuta ferma. Significa inoltre che non si può interpretare l’embrione come un esse-già-uomo in potenza. Quel qualcosa di assurdo, impossibile, contraddittorio che è l’<<embrione>> non lo si può cioé intendere come <<capace>> di diventare quell’<<esser uomo>> che invece si vuol concepire come qualcosa che contraddittorio non sia.>>

   Mi permetto di rilevare, innanzitutto, che Severino, in più passaggi, invita i suoi interlocutori (e i suoi lettori) a ricorrere, al fine di una corretta comprensione concettuale… al rivedere al rallentatore. Lodevole suggerimento. Tuttavia, non utilizza per sé, gli interlocutori diretti e i lettori – pur essendo un termine importante del suo pensiero, il divenire – il termine e la correlativa pratica mentale ed esemplativa dell’acceleratore.  

   Egli esplica il ragionamento aristotelico, che vuole altresì confutare, entro un contesto quasi statico. Perché non già del tutto… statico? Perché comunque, volendo dilatare l’ampiezza del valore terminologico aristotelico o meno – e pur cogliendone i limiti – potenza e atto (come il loro conclusivo dis-parire, il disparire di ciò che non è Atto Puro) implicano e sono implicati inevadibilmente, necessariamente, finalisticamente entro una trama dinamica (l’accidente può eliminare il dato dell’inveramento deteministico del processo di questo o quel quid posto in vita con la germinazione). Causa finalistica che muove il processo dinamico: causa e processo in sé essenzialmente auto-inclusivi.

   Per quanto non ci si accorga (!) o non ci si voglia accorgere, Aristotele compreso, che lo sviluppo sia dialettico che biologico concepito, esplicantesi in un ininterrotto itinere da potenza in una sequela del tra-scorrere ad atto, come ‘fenomeno’, si svolge appunto su scala cronologica, temporale, diacronica. Super dilatazione o super compressione dinamica, dunque? O ambedue i modelli di esperimenti pratici e/o mentali a cui si ricorre vengono a soddisfare correttamente, se impiegati doverosamente, la formulazione del problema e a superare incertezze e dubbi? Parrebbe.

   Super rallentatore o meno, questa essenziale peculiarità esiste, sussiste. Essa è peculiarità intrinseca dell’ente nato e immerso nello scorrere del tempo. Le profonde tematiche dell’avidya, del velo di Maya, dell’apparenza e dell’aletheia appartengono ad altri piani del ricco e pulsante retaggio sia orientale che ellenico.

   Oltre alla sollecitazione suddetta e ad altri esempi, Severino avrebbe potuto addurre, a mio modesto parere, sottolineo ancora in modo più esplicito, esempi e immagini di super accelerazione temporale offerti dalle scienze e dalle tecnologie odierne, quale… ad esempio il condensare in un filmato di qualche minuto l’intera nascita e l’intero sviluppo temporale della vita della Terra che, in base alle ipotesi ultime, risalirebbe ad oltre 4,5 miliardi di anni; condensare perfino i limiti del cosmo conosciuto fino ad oggi, come vediamo da diversi anni. Certo, l’utilizzazione di tali esempi avrebbe assunto significati e finalità contrarie, ma comunque utili alla ricerca di elementi veritativi intorno all’argomento in discussione da parte del Prof. Severino.

   Ed esempi teorici e storici ulteriori di accelerazione che possono prescindere del tutto da quelli addotti in anni recenti.

   L’appello teorico della visione al rallentatore implica necessariamente sia quello all’acceleratore e sia l’utilizzazione e il raffronto di ambedue le esperienze. L’applicazione comparativa fra lentezza e celerità, su di un differente piano argomentativo, già era conosciuta e risaputa dal maggiore filosofo ellenico della fase classica della sua civiltà, assieme al suo maestro Platone, attraverso l’esempio della corsa della tartaruga e di Achille (a prescindere dalla specificità del paradosso di Zenone in merito alla divisione ab intra all’infinito di una misura spaziale).

   In realtà, alla base delle spiegazioni che si sviluppano dai due concetti fondamentali del pensiero aristotelico di potenza e di atto, come possiamo chiaramente comprendere, da quanto ci ha esposto e commentato Severino, dobbiamo considerare che ci stanno e permangono davanti a noi ben oltre ventitré secoli di ‘scolastiche’, con erronee articolazioni logiche non rilevate. Errori molto semplici.

   Rilevo pure il perché non so ancora (un presente storico e super storico) Severino e Aristotele, lo stesso fondatore del concetto di energia – ciò che sussiste e al tempo stesso produce, genera, va oltre – abbiano di fatto estromesso questa fondamentale acquisizione razionale nel dibattito sull’embrione, sul seme e sulla pianta, sulla potenza e sull’atto.  Qui si tratta innanzitutto di castrazione teoretica e gnoseologica?

   L’esse-già-uomo in potenza e un esser-già-non-uomo in potenza, intesi come contraddittori, opposti logici, grandioso assurdo nell’esempio di Severino, sono solo espressione di un paragone formulato, posto ed affermato in modo errato. Perché mai? Perché essi nell’embrione non sono, non sono già due opposti uniti necessariamente.

   La potenza – e nel qual caso, l’embrione umano – esplicata come esser-già-uomo (con le parole di Severino), non può avere come suo inconciliabile opposto il non-essere-ancora-uomo.

   Non vi può essere opposizione logica, e perfino biologica, giacché non vi è, non vi può essere contemporaneità fra i due enunciati: nessuna opposizione cronologica può essere ipotizzata, postulata.

   Perché? Perché la potenza, l’essere-già-uomo, precede ogni qualsiasi (impossibile) co-istantaneità originaria con il non-essere-ancora-uomo-.

   La fecondazione avvenuta, l’embrione, la potenza precede logicamente, temporalmente, biologicamente, formalmente e sostanzialmente, sia pure di un trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di millisecondo – perfino ogni qualsiasi baluginio di ‘quasi istantaneità’ con l’accidente del suo tragico dis-parire – il non-essere-ancora-uomo, e il non-poter-più-essere-uomo.

   Ossia, del non avere potuto fruire, la potenza, di condizioni ‘normali’ (per cause e accidenti interni od esterni) tali da portare a compimento il suo sviluppo sino a essere umano adulto e… al suo tramonto inesorabile.

   Nel momento in cui dinamizziamo al massimo l’intero sviluppo di potenza… in potenza… in potenza… in potenza… sempre più esplicata e cresciuta ininterrottamente, possiamo condensare in pochi secondi o milionesimi di secondi l’intero processo… delle potenze della potenza originaria: nel caso, lo sviluppo dell’embrione umano. Delle velocità estreme con cui si muovono i corpi celesti nello spazio, non possiamo avere una conoscenza empirica diretta, ma solo intuitiva (in senso prekantiano!) e di razionalità astratta in riferimento alle cifre offerte dai calcoli astronomici: un grado di presa di coscienza critica che ci consente però di potere allargare lo sviluppo delle conoscenze scientifiche che traghettano alla comprensione e riflessione filosofica. È di tal fatta il criterio che dobbiamo applicare al non ‘percepito’ ininterrotto scorrere della potenza in/con tutta la proiezione del suo ‘contenuto progettuale’ (se vogliamo utilizzare termini ed espressioni non filosofiche correnti) da parte delle strutture e funzioni dei nostri apparati sensoriali e del correlativo sviluppo delle categorie, su di cui neuroscienze e psicologia storica offrono contributi sempre più interessanti. Aspetti che però, a prescindere dai gradi di sofisticazione delle ricerche ultime, sempre più raffinate, concettualmente erano in antico e sono oggi di possesso dell’attività teorica e teoretica umana.

   La potenza è venuta all’esistenza per esplicarsi, accrescersi, vivere, compiersi, non già per i suoi opposti: questa è la sua più intima, originaria scaturigine e condizione naturale, entro il contesto più ampio della vita e dei processi terrestri e cosmici (e della loro tragicità). Ogni causa, concausa, accidente che agisce in/su di essa non ha la condizione di assoluta co-primarietà: questo sì che sarebbe un assurdo logico, un arbitrio dell’argomentare.

   La post-primarietà dell’istantaneo passare al nihil costituisce un’ineliminabile, esiziale e intrinseca condizione propria agli enti presenti nella realtà terrestre e cosmica da noi conosciute, gli essenti, non titolati di eternità, perfezione, incorruttibilità. La condizione dell’istantaneità estrema della morte, ma post hoc.

   Post hoc: dopo l’esser venuto a… sussistere… il quid in in-nata tensione d’ininterrotta auto-trasformazione, in auto-compimento: la potenza, che è espressione temporale, dialettica e fisica, in fieri, del suo medesimo compimento, inveramento: l’atto.

   (Possiamo tradurre questo concetto, con parole appropriate al diverso verso di comprensione esistenziale estrema sul piano valoriale della metafisica della tragicità, nei suoi tanti percorsi filosofici e mistico-religiosi, ad esempio, a quello perenne, presente alla base del pensiero hindi e buddhista, quanto in quello della gnosi antica e di quella heideggeriana dell’esser gettato nel mondo?)

   L’atto, l’altro enunciato filosofico assurdo per Severino: esso stesso non rappresenta altro che il processo dinamico, ininterrotto della potenza ulteriormente esplicante quanto ha di in-nato: di feto, ‘neo’-nato fuor dal primo nido, bimbo, ragazzino, ragazzo, preadolescente, adolescente, prima giovinezza, giovinezza, prima maturità, uomo adulto, uomo maturo, uomo in via di invecchiamento, uomo anziano, uomo vecchio, uomo molto vecchio, uomo morente e dis-parente.   

   Essere-già-uomo e non-essere-ancora-uomo (e il non-poter-più-esser-uomo) non costituiscono dunque un appaiamento e un’uguaglianza conflittuale e contraddittoria, e la loro pretesa uguaglianza aristotelica, fonte d’originario conflitto, è costrutto teorico assurdo, ma non in base alle confutazioni di Emanuele Severino.

   Vogliamo invece tentare di qualificare questo ininterrotto sviluppo di sé medesimo della potenza non ancora ma già atto come un arco diacronico auto-comprensivo, olistico? I complessi risultati della ricerca genetica, in particolare, possono suggerire alla riflessione filosofica enucleazioni concettuali che indichino, indicano ancora più chiare condizioni pre-determinate, ‘eredità’ attive nel e del venire-al-mondo? Vogliamo tener presente il processo dialettico a spirale dell’idealismo e ormai ancor di più la doppia elica del genoma quali plastici simboli dell’energia incontenibile del quid-che-viene-al-mondo, su di cui noi non abbiamo, salvo quanto più oltre problematicamente esplicitato, potere di esercitare diritti di discrezionale disponibilità?   

   Insomma, tutto l’opposto d’un insignificante conato? Tutto l’opposto della diffusa inadeguatezza della razionalità umana che si trova soffocata da un’esperenzialità esistenziale, psicologica e filosofica grama, pesante, non in grado di librarsi al di sopra del proprio cranio? 

   Se volessimo – e dovremmo, e come lo dovremmo – aggiungere che la potenza in questione e l’atto in questione, l’essere-già-uomo in nuce e l’essere uomo impongono che la specifica natura sia, è bio-psichica, e che non può sussistere un salto da una potenza biologica ad un atto bio-psichico; e se volessimo – e dovremmo, e come lo dovremmo – aggiungere che la potenza in questione e l’atto in questione, l’essere-già-uomo e l’essere uomo impongono che la specifica natura sia, è tanto bio-psichica quanto ‘ulteriore’, ‘extra’, ‘pre’, ‘sovra’, perfino ‘metem’, il quadro generale del contesto qui discusso non potrebbe e non può che cambiare ulteriormente. In maniera radicale.

   Entro tale ulteriore contesto, le condizioni vulnerate in maniere irreversibili e tragiche che gli accidenti pongono alle potenze che purtroppo sono soggette alle più svariate e imprevedibili condizioni non normali di sviluppo ma non letali, per cui non pervengono a condizioni complete di crescita, bio-psichicamente non ‘ordinarie’, non ‘regolari’ proprie all’atto assoggettato a cotali stimmate del ‘destino’ – e di cui si occupano, fra le varie discipline, genetica e fisica dell’infra atomico, anatomia, fisiologia, neurologia, psichiatria, psicologia, bioetica, diritto, teologia morale nell’abito degli studi religiosi  – non possono che obbligare a mettere ancora di più a fuoco la cogenza delle valutazioni e decisioni da assumere e del redigere una chissà quanto ampia e difficoltosa raccolta all’uopo finalizzata.

   Non solo il caso di un atto aristotelico ‘energetico’, di un ‘atto in fieri’ radicalmente alterato e compromesso in modo irreversibile dall’accidente, quale è stato quello di Eluana Englaro, e pure dei casi simili, è rimasto aperto. Lo sono pure quelli, su piani del tutto diversi, che possono indirizzare verso valutazioni e giudizi antitetici relativi alla soppressione delle potenze, giammai in generale e neppure appena poste (incisiva e implicita espressione di un giudizio su omicidio/non-omicidio), quali quelle di embrioni e corpi e/o cervelli esizialmente non sviluppati/compromessi nello sviluppo tale da non poter garantire una pur fievole risposta neuronale, emotiva rispetto alle percezioni provenienti da suoni, luci, sensazioni tattili e olfattive, corpi, ambiente esterno. E quale risposta vi sarebbe? Focalizzarsi sull’accertamento della morte cerebrale (a volte presunta) o su quello della percezione del dolore? Lasciar morire lentamente, atto moralmente e biologicamente crudele e arbitrario procurato per essiccazione vegetativa, pur di sottrarsi all’impostura delirante dell’accusa di omicidio, se diversamente procurata, nei modi più indolori e istantanei possibili?

   Inoltre, come valutare l’eccezione al giammai di cui sopra in base alla condizione di volontaria partecipazione per necessità o in assenza di necessità o di subita soggezione nella partecipazione all’atto sessuale da parte della donna e dell’uomo, con condizioni di più che schiaccianti percentuali riferibili esclusivamente alle donne?

   L’embrione, il non-essere-ancora-uomo pur essendo uomo-in-sé-e-per-sé è da attribuire esclusivamente al possesso della donna, e la sua sorte è da rimettere alla volontà della donna, comunque e in ogni caso, coercizione e violenza fisica o meno? O è da attribuire al più ampio processo vitale della natura entro cui esiste il genere umano per cui la donna, quindi, nella sua individualità psico-fisica sarebbe da intendere come matrice e portatrice ‘obbligata’? Anche in presenza di contrarietà della donna in oggetto che, se non accolte da società e leggi, possono esercitare una grave costrizione tale da compromettere la sua salute fisica, emotiva, mentale? Cosa decidere: l’inviolabilità dell’embrione o la salvezza della madre? La volontà della madre? E i casi delle donne che volutamente, scientemente, godono, e lo affermano, di volere selvaggiamente rimanere incinte per poi abortire? Obbligarle a portare un organismo vivente in grembo che avvelenerebbero nel loro corpo con l’odio trasmesso dall’attività psichica e con tante modalità ulteriori, reimpinatare l’embrione da proteggere e sterilizzare queste donne?

Mentre non sappiamo cosa sia avvenuto da anni e cosa stia avvenendo in chissà quanti laboratori sparsi nel mondo sia sui corpi di bambini e adulti utilizzati come cavie e per espianti cladestini sia sugli embrioni e ‘materiali genetici’, possiamo sottolineare che, sulla base delle considerazioni e dei giudizi qui espressi, gli embrioni rientrano fra ciò che non è disponibile alla manipolazione dell’arbitrio umano. Arbitrio, non libertà.

La dilatazione dinamica a cui va sottoposta la statica articolazione aristotelica di seme e di albero, di potenza e di atto, di embrione e di uomo ci apre ad orizzonti di comprensioni e a sviluppi di interrogativi e di problematiche molto più ampie, tali da coinvolgere l’intero sviluppo dell’umanità. Fino ad avviare una radicale e interminabile rivisitazione di quanto finora conosciamo della nostra storia, che comprende pure i modelli di alimentazione di ieri e di oggi. E in tutto questo non può che irrompere la dottrina sia di Vardhamāna e dei precedenti maestri fondatori del jainismo che di Siddharta Gautama, che oggi possono essere veicolati indirettamente, per alcuni aspetti fondamentali nel merito conclusivo di quanto ho delineato – a buon pro contro la prolungata scissione dei due emisferi storici cerebrali e mentali dell’elaborazione filosofica e scientifica indoeuropea, Oriente e Occidente – dall’etologia umana e animale. Azione culturale con cui si sta comuque operando il superamento definitivo dell’eurocentrismo culturale, a dispetto delle più fantasiose e corrosive, nichiliste balordaggini woke.

Domenico Cambareri

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