Prima di affrontare il tema del nostro articolo, proponiamo, a mo’ di introduzione, il seguente quesito: chi scrisse che l’innovazione tecnica << scompone progressivamente l’attività del lavoratore in una sequenza di operazioni elementari, in modo che a un certo punto una macchina possa prenderne il posto >> ? Semplice ! Risponderebbe chiunque conosca un minimo di storia dell’economia e della tecnica: fu l’ingegnere Frederick Winslow Taylor che nel 1911 pubblicò i suoi “Principles of Scientific Mangement”. Infatti, egli applicando gli stessi principi, aveva dato avvio al metodo di produzione industriale che si diffuse sotto il nome di taylorismo e fu adottato e diffuso da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili. Sbagliato! O quantomeno risposta parziale, visto che fu Karl Marx che ne trattò in uno degli ultimi ”Grundrisse” del periodo 1857-59 scritto prima del Capitale ( “Grundrisse der kritik der politischen Oeconomie” ). Il concetto, per esteso, così continuava: << Così si può vedere direttamente come una specifica forma di lavoro si trasferisca dal lavoratore al capitale, che assume la forma di macchina e come, in conseguenza di questo processo, il valore del lavoro stesso venga ridotto. Ecco quindi la lotta del lavoratore contro la macchina: Ciò che un tempo era dominio dell’attività del lavoratore, diviene quello della macchina. >> Forse un’affermazione marxiana come questa non dice nulla a chi sta leggendo, ma se si vuol comprendere quanto sta avvenendo con questa crisi – che non è solo economica – e quale futuro si stia formando, è proprio da questa affermazione che bisogna partire. Sii tranquillizzi il lettore; abbiamo il massimo rispetto per l’integrità dei suoi attributi che potrebbe essere seriamente compromessa dall’aridità dell’argomento. Pertanto non ci avventureremo in una esegesi né in una confutazione della filosofia di K. Marx per le quali, chi scrive, non ha alcuna predisposizione.
Tuttavia occorrerà brevemente rilevare, ai fini della tesi di questo articolo, la stupefacente contraddizione in cui incorse lo stesso Marx. Chi non intende impegnare i propri neuroni cerebrali può, tranquillamente, saltare il paragrafo che seguirà sulla contraddizione e andare oltre. Di quale contraddizione stiamo parlando? E’ noto, dai suoi scritti, che il filosofo faceva professione di realismo e di organicismo e mostrava poca o nulla considerazione per l’ideologia e gli ideologi. Ebbene, ne i”Il Capitale”, la sua “opera magna”, pur avendo concepito e distinto efficacemente la categoria della forza-lavoro da quella del lavoro, ignorò ideologicamente – proprio lui – quanto, in un empito di reazione luddista, aveva realisticamente formulato nel “Grundrisse” del 1859 più sopra citato. E cioè che, all’interno di un processo economico, la forza-lavoro era nient’altro che una delle diverse forme nelle quali si esprime il capitale il quale poteva identificarsi con le macchine – altra forma del capitale –, così che essa poteva dalle stesse essere sostituita. Al contrario, la deformazione ideologica di Marx ( invece, nobilmente protesa al riscatto dallo sfruttamento della forza-lavoro identificata con il proletariato) lo portò a sovvertire, anche sul piano scientifico, la realtà del processo economico. Infatti, attraverso la rivendicazione del plus-valore erroneamente attribuito, come diritto, alla categoria politica ( e non più reonomica) del proletariato, egli entrava in contraddizione. Se la forza-lavoro, come aveva chiaramente individuato nel 1859, poteva equipararsi alle macchine, in caso di sostituzione dell’una con le altre si generava il paradosso per il quale il plus-valore – secondo logica – sarebbe divenuto competenza delle macchine. Una contraddizione tale da indebolire, purtroppo a posteriori, le fondamenta del pensiero del filosofo di Treviri e del marxismo conseguente. Fine del rilievo.
Veniamo ora alla tesi del nostro articolo, che prende le mosse dalle conclusioni che Marx aveva involontariamente “profetizzato”: la fine della forza-lavoro con le conseguenze sul consumo la cui scomparsa, secondo Marx, avrebbe tagliato l’erba sotto i piedi del capitalismo. La tesi è la seguente: la crisi attualmente in corso denuncia un processo involutivo di natura economica, antropologica e civiledel quale né la cultura né la politica e ancor meno la tecnica economica al potere, protese a puntellare lo sfaldamento dello “statu quo”, sembrano rendersi conto. Il nostro Enea Franza, su un articolo pubblicato on-line il 21 agosto su Europa della Libertà, criticando la politica del MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze) in merito alla crescita rileva: << A nostro modo di vedere il problema cardinale della bassa crescita registrata in USA ed Europa negli ultimi dieci anni sta nella contrazione dei consumi privati e nella stagnazione degli investimenti pubblici. La colpa? E’ da imputare alle politiche fiscali scelte e attuate.>> E’ indubbiamente vero, e a confermare l’affermazione di Franza vediamo che il fenomeno si estende ancor di più colpendo anche la famosa locomotiva d’Europa. E’ notizia del 24 agosto: gruppi industriali come Bosch e Thyssen Krupp hanno annunciato la riduzione delle ore di lavoro dei dipendenti mentre alla Opel, per salvare almeno i posti di lavoro, i lavoratori dovranno rinunciare fino al 6% dello stipendio netto mensile. Meno soldi, meno consumo. Sempre il 24 agosto, su Il Giornale, Paolo Guzzanti, a proposito dell’America ha scritto: << ….timidi ma evidenti segni di ripresa si stavano manifestando, lasciando intravedere la fine del tunnel. Poi il tunnel si è richiuso nel buio: il parametro più importante, il numero dei “jobs”, i posti di lavoro, è in netto calo dopo una ripresina promettente, ma effimera. E sul numero dei “jobs” si regola per prima la Borsa di Wall Street. …. In America la crisi dei posti di lavoro è certificata dal termometro dei sussidi di disoccupazione la cui richiesta è cresciuta di quattromila unità in una sola settimana, peggior dato assoluto da anni: le richieste di sussidio sono ormai poco meno di 400mila.>> Meno stipendi meno consumo. In Europa, il governo di Atene sta mettendo a punto un nuovo piano di austerità che prevede, fra l’altro, l’uscita di 150.000 dipendenti statali entro il 2015. Meno stipendi meno consumo. Tutto effetto della maledetta crisi? Se spostiamo all’indietro l’intervallo temporale di osservazione degli ultimi dieci anni utilizzato da Franza, vediamo che c’è ben più che la contrazione dei consumi. Siamo in presenza della progressiva scomparsa della parte più consistente dei consumatori: la forza-lavoro. Allora occorre chiedersi: cosa sta accadendo? La risposta ce l’aveva anticipata Karl Marx e noi l’abbiamo posta ad introduzione di questo scritto: le macchine hanno preso il posto della forza-lavoro. La terza rivoluzione industriale, quella basata sui computers, sta rendendo attuale, in termini quantitativamente colossali, la “profezia” dell’autore del “Grundrisse” 1859 con l’inevitabile corollario che lo stesso aveva intuito: la perdita del posto di lavoro per milioni di persone ed il crollo a livello globale, del potere d’acquisto. Il fenomeno non è recente, ma è maturato lentamente e progressivamente dall’immediato dopoguerra per esplodere negli anni della New Economy fino alla situazione attuale. Non si è ancora esteso alla totalità della forza-lavoro del mondo industrializzato, ma si sta diffondendo endemicamente in tutto il globo e non mostra segni di regressione. Le rovine d’Europa ancora fumavano quando, nel novembre del 1946, la rivista Fortune pose il tema della Automatic Factory (fabbrica automatica). In quel numero comparve un articolo, illuminante nel suo cinismo, dal titolo Machine Without Men (macchina senza uomo) a firma di J.J. Brown e E.W. Leaver che così recitava:<<… non sono soggette [le macchine N.d.R.] ad alcuna delle limitazioni dell’uomo. Non sono sensibili all’orario di lavoro, non hanno bisogno di mangiare o di dormire, non si lamentano delle condizioni di lavoro e non accampano pretese retributive sulla scorta della capacità che l’azienda ha di pagare. Non solo provocano meno fastidi degli esseri umani, ma possono anche essere costruite in modo da dare un segnale d’allarme alla sala di controllo nel caso non funzionino al massimo dell’efficienza.>> E non c’erano ancora le “ macchine pensanti” atte a programmare e dirigere gli automi ed a manipolare i “sistemi viventi” a tutti i livelli. Da poco era entrato in funzione il primo gigantesco calcolatore elettronico, realizzato dall’ingegnere John Mauchly, nel poligono missilistico di Aberdeen (Maryland). Pochissimi potevano, allora, rendersi conto delle conseguenze che questa realizzazione tecnica avrebbe provocato nel campo dell’automazione. Solo nel 1969 N.Wirth elaborerà il linguaggio Pascal per la programmazione dei computers per comandare gli automi e bisognerà aspettare il 1980 affinchè Bill Gates realizzi per l’IBM il linguaggio operativo Ms/Dos. Ma già allora il padre della cibernetica, Norbert Weiner ,se ne era reso perfettamente conto. Nel suo trattato del 1950 (The Human Use of Human Beings: Cybernetics and Human Beings – L’uso degli esseri umani: cibernetica ed esseri umani) affermò. << Ricordiamoci che la macchina automatica è l’esatto equivalente economico del lavoro degli schiavi >>. Alla luce di quanto conosciamo del “Grundrisse”, 1859, e di quanto sta avvenendo nell’odierna crisi, viene spontaneo l’involontario accostamento tra schiavi e forza-lavoro che rivela la crudezza drammatica della realtà. A questo punto avvertiamo il lettore che ci ha seguito sin qui sopportando il peso del nostro argomentare, che le difficoltà di comprensione non sono finite. D’altra parte, come si sarà reso conto, la crisi non è più soltanto economica. Nella visione economicistica della modernità, il valore della forza-lavoro è sempre stato misurato con il valore attribuitogli dal suo mercato (il famoso mercato del lavoro). Avendo un prezzo – in quanto ammette marxianamente equivalenti come le macchine – la forza lavoro viene reificata, ridotta al livello di cosa, di mezzo. Ne consegue che, allorchè il suo valore di mercato si marginalizza tendendo alla totale irrilevanza, per l’economicismo che ci governa totalitariamente la sua esistenza diviene inutile: non produce, non consuma e quindi non è più sfruttabile. Spinta ai bordi del consesso civile, esiliata socialmente, cessa di essere un fattore economico per divenire, su un piano di livello sistematicamente più elevato, un problema politico. Infatti, se per l’economia la forza-lavoro è mezzo, per la politica essa è composta – pur sempre – da individui, che sono, in quanto tali, detentori della sovranità dell’<<io>> e soggetti di democrazia. Ogni singolo si sente un microcosmo, soggetto finito in se stesso, che tendenzialmente rifiuta ogni forma di organismo civile di livello superiore che tende a soverchiarne la natura. E’ un uomo-atomo che “concepisce” una sola forma di aggregazione elementare con altri uomini-atomo: la Massa. Ma la massa degli individui è – per natura e per logica – asistematica, paradossalmente antisociale e antisolidale. E‘ amorfa, anonima, indistinta e tale deve rimanere per essere condizionata con espedienti demagogici – ogni volta che deve esprimersi con un voto – da chi, invece, vota ogni giorno: nelle borse, nelle banche, nei governi. Indistinta signora la Massa, recitava il Bagaglino d’ antan, quello di vicolo della Campanella. E qui le situazioni cominciano a farsi spinose: in una società democratica e liberale, com’è la nostra, l’ex forza-lavoro, perduta la sua valenza economica e con essa la retribuzione conseguente, in quanto uomo-atomo all’interno di una società fondata sull’individuo si ritrova auto-emarginato alla stessa stregua di quanto lo è diventata nel processo economico-produttivo. La società democratica e liberale non sa che farsene di chi non produce, non consuma, non paga le tasse per farsi pilotare e godere dei “servizi”. Li considera, in cuor suo, dei parassiti. Occorre, allora, porsi alcuni interrogativi sul mondo che verrà. Chi dovrà farsi carico degli ex forza-lavoro allorché il processo di sostituzione con la macchine sarà compiuto? Chi e come riuscirà ad indicare loro la via del riscatto da individui a persone? Ovvero – per dirla con Immanuel Kant – uomini portatori di una legge morale, capaci di autonomia e perciò degni di “rispetto”, dotati di “dignità”e , soprattutto, senza “prezzo”? Chi e come riuscirà a dare un fine, un obiettivo, alla loro esistenza? Se non troveremo risposte adeguate, occorrerà prepararci ad un tipo di società repressiva ancor più poliziesca di quella che già ci opprime in nome della “libertà”. Perché le masse che stanno crescendo giorno dopo giorno, i disperati, dovranno in qualche modo sopravvivere e non avranno altra scelta – loro, considerati parassiti – che comportarsi come tali: delinquendo. A meno di reintrodursi – almeno nel processo economico – non da forza-lavoro ma da persone, ovvero da lavoratori appartenenti alla categoria di cui altre volte abbiamo trattato su queste pagine che, mediante copia e incolla, riproponiamo: << quella che rappresenta il momento di convergenza di diverse e complementari decisioni a più livelli (ricerca ed elaborazione, organizzazione, direzione controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc >>. Reintrodursi attraverso le imprese di lavoratori di cui trattammo il mese scorso e di cui – con la persistenza catoniana del delenda Carthago – scrive ripetutamente su queste pagine il nostro Antonio Saccà: << Un’impresa senza capitalista esterno ai lavoratori, un’impresa in cui il lavoratore sia imprenditore, un’impresa di lavoratori imprenditori >>. E’ il primo passo da compiere verso la salvezza, perché la fine della forza-lavoro non è la fine dell’economia. Anzi.