Per duemila anni la Palestina, rispetto ad altre contrade e regioni, è stata il segno della concordia e della tolleranza tra le varie confessioni ed etnie (unica parentesi gli inconcludenti scontri scatenati dai turbolenti Regni Crociati del Medio Evo). Poi, nel 1948 a seguito di una semplice deliberazione dell’ONU a carattere consultivo, in spregio al diritto internazionale e al principio dell’autodeterminazione dei popoli (la popolazione non fu neppure interpellata con un referendum), le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale decisero di donare metà della Palestina agli “ebrei” con il pretesto che questi erano originari di quei luoghi e come forma di risarcimento per aver subito la persecuzione hitleriana (in realtà, per lavarsi la coscienza a costo zero scaricandolo tutto sui palestinesi), ad iniziare dalla dichiarazione Balfour del 1917 sul “focolare nazionale ebraico”.
Gli ebrei, preso possesso di quelle terre, cacciarono con la forza chi le abitava da sempre: 900mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case per fare posto ai nuovi arrivati e 530 villaggi furono completamente distrutti per impedirne il ritorno e molti altri sostituiti con insediamenti per soli ebrei. Neppure i cimiteri, luoghi sacri per i musulmani, furono risparmiati.
Lo spirito colonialista e di supremazia razziale del movimento sionista è condensato nello slogan, poi ripreso dal futuro Primo Ministro Israeliano Golda Meir: « Una terra senza un popolo, un popolo senza terra». In queste parole si coglie la totale indifferenza ebraica verso la popolazione palestinese che non viene neppure considerata, come se non esistesse.
Forti delle simpatie in parte velate degli americani e, inizialmente, anche dei sovietici, e soprattutto delle coperture francesi e infine inglesi, gli ebrei si abbandonarono a vere e proprie stragi e atti di puro terrorismo come il massacro del villaggio palestinese di Deir Yassin del 9 aprile 1948 ad opera del gruppo terrorista IRGUM (i cui leader politici erano Begin e Shamir) che causò la morte di 254 tra vecchi, donne e bambini(1) e l’assassinio, avvenuto il 16 settembre dello stesso anno, del mediatore delle Nazioni Unite, lo svedese Folke Bernadotte, per aver denunciato le violenze sioniste. L’omicidio fu rivendicato da un gruppo terrorista di cui facevano parte due futuri ministri israeliani, Cohen e Friedman.
Anche da parte palestinese non mancarono atti di terrorismo a cui corrispondevano rappresaglie dure, indiscriminate e sempre più sproporzionate.
Le successive guerre arabo-israeliane si conclusero con la netta sconfitta della coalizione araba, disorganizzata e male armata, e con l’occupazione di altre consistenti porzioni di territorio palestinese.
Il nuovo Stato d’Israele si è subito caratterizzato in senso rigidamente razziale e confessionale essendo aperto ai soli ebrei osservanti. Una legge, quella definita “Del Ritorno”, consente alle autorità religiose ortodosse di esercitare un controllo ferreo sui matrimoni ebraici, sono infatti vietate le unioni tra gli ebrei e i non ebrei (i cosiddetti “gentili”), sui divorzi, sulle conversioni e sulle sepolture.
Ai palestinesi è negata qualunque possibilità di farvi parte. Lo stesso impedimento riguarda gli ex-ebrei, ossia persone che pur essendo di discendenza ebraica professano una religione diversa dal giudaismo: anche a loro è impedito di stabilirsi in Israele.
I pochi arabi che hanno potuto continuare a vivere in quella che una volta era la loro terra devono essere riconoscibili (le loro auto, ad esempio, hanno una targa diversa); è sì permesso loro di eleggere dei rappresentanti al Parlamento, ma in quanto piccola, innocua e assimilata minoranza.
Il concetto di società multietnica che tanto piace in Occidente e sbandierato anche in Italia come massima espressione di democrazia, libertà e pluralismo in Israele non solo non è neppure contemplata, ma è addirittura vietata per legge.
Una sentenza della Corte Suprema israeliana del 1989 stabilisce che alle elezioni sono esclusi partiti politici o persone che prevedono nel loro programma uno Stato multi-culturale o che mettano in discussione il principio dello Stato per Soli Ebrei (SSE).
Israele non ha una Costituzione e questo consente ai suoi tribunali di agire con libertà ed arbitrio nelle sentenze, soprattutto a carico dei non ebrei.
Con queste caratteristiche definire Israele un “avamposto di democrazia in Medio Oriente”, come spesso si sente affermare, mi pare quanto meno azzardato.
In realtà, dietro tutta questa facciata di solido ebraismo etnico e di pseudo semitismo esclusivista, si cela una farsa e una frode storica e scientifica, giacché per “ebrei” sono da intendere molteplici accozzaglie etnicamente eterogenee che nel corso dei secoli si sono convertite alla fede israelitica o giudea, quali tribù dell’area sahariana e da popolazioni centroasiatiche (tribù cazare).
Gli intellettuali “ebrei” di primo piano che hanno avuto il coraggio di denunciare queste cose (pur affermando di credere nell’olocausto) sono stati messi alla gogna a livello mondiale e minacciati. Da tra due popoli per il diritto all’esistenza. Infatti, la differenza è che mentre gli israeliani, armati dall’America, hanno uno dei più potenti eserciti del mondo con tanto d’armamenti nucleari che possono usare a loro piacimento, i palestinesi possono disporre solo di rudimentali razzi a breve gittata forniti dall’Iran o prodotti in proprio (che fanno più rumore che danni). A ciò si aggiunge la diplomazia occidentale guidata dall’America che, con il suo atteggiamento sempre giustificativo a favore d’Israele anche quando commette atti disumani come i frequentissimi bombardamenti di abitazioni civili per attuare gigantesche misure di rappresaglia che non possono che lasciare inorriditi anche gli individui più fredddi, non lavora certo per la pace. D’altronde, gli USA, a partire dalla conduzione della politica estera di Henry Kissinger e dalla sua reimpostazione della strategia globale americana, misero da parte ogni riserva e da allora hanno espresso l’appoggio più incondizionato, sicuramente nei fatti acritico, unilaterale, illimitato e fanatico, di ogni pretesa “istanza” israeliana.
Circondata da mura alte 10 metri, controllata dal mare dalle navi da guerra e dal cielo dai satelliti spia a sostegno di un rigido embargo esteso anche ai prodotti di prima necessità, con impedimenti cronici perfino al transito degli aiuti umanitari, la striscia di Gaza è stata trasformata dagli israeliani nel più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Sfido chiunque a resistere in quelle condizioni senza farsi saltare i nervi e vorrei vedere una qualsiasi persona assistere alla morte del proprio figlio per la mancanza di medicinali o sopravvivere senza elettricità e con l’acqua razionata senza provare odio e meditare vendetta verso gli artefici di questa ingiustizia(2).
Il fine ultimo degli israeliani e dei corresponsabili amministratori della politica estera degli USA è quello di costringere i palestinesi ad abbandonare la loro terra per realizzare il sogno biblico della “Grande Israele”, come preconizzato dal fondatore del movimento sionista Theodor Herzl e confermato dal padre della Patria David Ben Gurion che, in un discorso del 1937, dichiarò senza mezzi termini: «Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti». Non a caso Israele è l’unico Paese al mondo che si rifiuta di definire formalmente i suoi confini.
Condanniamo pure gli attentati suicidi dei palestinesi, i razzi di Hamas e le bandiere con la stella di David bruciate in piazza dai manifestanti, ma se veramente amiamo la pace non possiamo sorvolare sulle responsabilità dell’Occidente americanizzato e continuare a giustificare la cinica e criminale politica repressiva d’Israele persegue precise abietti finalità e cadere nella stupida e sconclusionata logica propagandistica secondo cui dietro tutto ciò che è palestinese vi è terrorismo.
Il popolo ebraico ha subito per duemila anni ogni sorta di persecuzione, ma questo non deve essere usato dal governo israeliano e dai sionisti che lo controllano e lo dirigono come pretesto per la sua politica disumana contro un popolo, quello palestinese, che ha una sola colpa: quella di non volerla abbandonare la propria terra e di volersi opporre al criminale programma di espulsione fisica e di lenta eliminazione.