Passare nel bosco: la posizione di Giano Accame, Alan de Benoist, François Perroux, Carlo Gambescia, Gian Piero Joime sulla decrescita economica

lunedì 09 marzo 2009 
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Rubrica Sentieri nel bosco
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-Passare al bosco è una rivista online indipendente, apartitica: pensata per essere realizzata e diffusa nel web.
-Passare al bosco deve il suo titolo al “Trattato del Ribelle” di Junger ed è interamente e per sempre dedicata a Giuseppe Dimitri:l’unico  tra noi che nel corso della sua esistenza è passato al bosco e ne ha assunto l’essenza.
-Passare al bosco si occupa di ambiente naturale e storico: energie rinnovabili, industria e territorio, parchi urbani, parchi naturali, bestiari, erbari.
-Passare al bosco sceglie lo stile asciutto, scarno e privo di retoriche formali e contenuti docili e ammiccanti.

-Passare al bosco vuole orientare  verso un obiettivo di reintegrazione, ovvero verso un principio di equilibrio tra uomo e natura, da lungo tempo dimenticato ma certamente recuperabile.

-Passare al bosco ha una struttura semplice: un  tema centrale, un’area dedicata al verde ed una  agli animali, lettere ed ambiente, consigli di azioni e letture.

-Passare al bosco conterrà i contributi di autori impegnati nell’analisi del  futuro rapporto con l’ambiente secondo diverse prospettive: filosofiche, scientifiche, naturalistiche, storiche, urbanistiche.

 

 

 

 
Governare la decrescita senza drammi
di Giano Accame

ImageDell’inquinamento finanziario che, proveniente dagli Stati Uniti, continua a gravare come pericolo di destabilizzazione sull’intero Pianeta, Passarealbosco si è già occupato (in particolare con Carlo Gambescia) e sarà prevedibilmente costretto a tornare a farlo. Perché il vero problema del dollaro virtuale, con cui continuiamo a pagare i costi delle liberazioni, non è ancora scoppiato. Ma oggi il tema è piuttosto quello della sua connessione con l’economia reale e con la recessione che si prevede destinata a durare nel 2009.
Una netta separazione tra economia finanziaria e reale è impossibile. Tuttavia i fenomeni e i relativi interventi sono almeno in parte diversi. I disastri verificatisi nel settore bancario e assicurativo in America e i vistosi crolli delle quotazioni azionarie sulle principali Borse mondiali hanno per ora provocato fenomeni più modesti di rallentamento nell’economia italiana e degli altri paesi europei. Non ha senso paragonare le attuali frenate dell’1,5 per cento del Pil con la Grande Depressione dei primi anni Trenta, quando i crolli nell’economia produttiva e nell’occupazione raggiunsero percentuali del 30 per cento. L’allarmismo che gran parte dei mezzi d’informazione sta alimentando è eccessivo; e ha ragione Silvio Berlusconi nell’invitare alla calma. Ha un po’ meno ragione nell’esortare ai consumi e alle spese natalizie come ricetta anticrisi. La dissipazione delle tredicesime non è un buon consiglio da dare ai milioni di famiglie che stentano ad arrivare alla fine del mese. Meglio esortare tutti (anche i ricchi) a una oculata gestione  delle risorse e alla tradizionale virtù del risparmio, come contributo individuale per affrontare i problemi che sorgono da una lieve frenata negli indici della produzione. Ma la vera soluzione a questi problemi va naturalmente posta su più vasta scala, in  politica, attrezzando l’intero sistema-Paese a convivere con la frenata e a gestirla, senza farne un dramma e anzi accettandola per gli aspetti virtuosi che può presentare.
Già da tempo è stato osservato che una crescita economica continua in un sistema non infinito, ma al contrario segnato da limiti, è una contraddizione della matematica. Ma è soprattutto un errore rispetto ai sempre più pressanti problemi di protezione ed equilibrio ambientale, tanto del genere umano e della vivibilità sulla Terra, quanto – e a maggior ragione, toccandoci più direttamente – per mantenere gli attuali livelli di diffuso benessere nei sistemi come il nostro socialmente avanzati. Sistemi che negli scorsi decenni ebbero il merito di assorbire nel ceto medio gran parte del proletariato; ma nei quali l’attuale modello di crescita non prospetta obiettivi  di miglioramente per tutti e al contrario sta generando nuove povertà accanto a sempre più minoritarie e squilibrate ricchezze.
La crisi sta quindi ponendo come nuovo obiettivo politico la gestione non solo sdrammatizzata, ma necessaria, di una moderata e ben controllata decrescita, come del resto è già stato lucidamente indicato in anni recenti da politologi, sociologi e economisti, che rappresentano la nuova avanguardia. Segnalo in proposito un recente libro dell’amico Alain de Benoist, Comunità e Decrescita. Critica della Ragion Mercantile, Arianna Editrice 2006 (lo distribuisce Macro Edizioni tel. 0547.346290 oppure commerciale@macroedizioni.it Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ), che a sua volta si richiama ad altri autori, da Serge Latouche a Edward Goldsmith, e filoni di pensiero in pieno sviluppo, anche se non hanno ancora raggiunto un’adeguata rappresentanza politica. Rappresentanza necessaria per far capire, tra l’altro, che le soste nello sviluppo economico non si curano con i manager tagliatori di teste di moda nell’economia americana, ma con una gestione dell’ormai raggiunta economia del benessere e dell’abbondanza che sappia realizzare anche, attraverso le imprese più attive e non finanziando i falliti, gli obiettivi equilibratori del lavorare un po’ meno ma tutti. Va in questa direzione la proposta di Angela Merkel, condivisa dalla Cisl e da Berlusconi, di una settimana corta con cui salvare posti di lavoro.

 

Ricette anticrisi: Alain de Benoist e François Perroux
di Carlo Gambescia

ImageCome giustamente ha ricordato Giano Accame,  un buon antidoto alla crisi attuale e allo sviluppismo è dato dall’interessante libro di Alain de Benoist, Comunità e decrescita (Arianna Editrice, Bologna 2006).  
Ma cerchiano di andare “sociologicamente”  più a fondo (magari non troppo…).  Per quale motivo è importante? Nel testo si “critica la ragione mercantile”,  ma  non in modo  aprioristico: “E’ possibile indurre alla ‘semplicità volontaria’ senza attentare alle libertà, né uscire da un quadro democratico? E se non si può né imporre la decrescita con la forza, né convertire la maggioranza della popolazione alla ‘frugalità’ con le virtù della sola persuasione, cosa resta? La teoria della decrescita  resta troppo spesso muta su questo punto” (Ibid.  pp. 149-150).
Un silenzio sgradevole. Perché fin quando la sobrietà rimane una opzione individuale, e dunque senza conseguenze sociali immediate, la libertà di tutti non è in gioco. Ma se invece qualcuno cercasse  di  imporla dall’alto?     Allora si dovrebbe  parlare  di un nuovo totalitarismo della decrescita, basato sulla frugalità obbligatoria per tutti i cittadini. Evenienza non sottovalutata da de Benoist. Il quale fa un’osservazione notevole: la deriva totalitaria può essere evitata, se in futuro la  sinistra  ecologista-movimentista  riuscirà a rompere radicalmente “con l’ideologia dei lumi, ossia l’ideologia della modernità”(Ibid.  p. 154. ).      
Riassumendo, l’idea di sobrietà può essere valida come esperienza di arricchimento interiore. Ma va assolutamente respinta  se  presentata come destino collettivo. E qui torna  utile  la classica distinzione formulata da François Perroux. Quale? Quella tra crescita economica e sviluppo, racchiusa in un libro che oggi  andrebbe riletto:  L’economia del XX secolo ( Etas Kompass,1967, ed. or. 1961,  in particolare la parte seconda) . Altro antidoto alla crisi attuale.
L’ economista francese (1903-1987) già consigliere di De Gaulle, per crescita  intendeva la crescita  economica (quella del Pil, ora criticata dai teorici delle decrescita), e per sviluppo, lo sviluppo etico e culturale  dell’individuo: l’unico fattore in grado di segnalare il grado di progresso sociale concretamente conseguito nell’ambito delle libertà etiche. Perché basato sulla crescente e organica consapevolezza individuale dei diritti come dei  doveri sociali, dalle maestranze ai dirigenti di impresa. Pertanto non “regole” generiche come spesso si legge sulla stampa delle borghesia finanziaria,  ma consapevolezza diffusa del fatto che la società è un tutto di cui ogni cittadino è responsabile.
Ora, secondo Perroux, senza crescita economica non è dato progresso etico, e viceversa: i due fattori marciano insieme:  bisogno e povertà, soprattutto se indotti, non possono facilitare un giusto processo di apertura etica verso l’altro, soprattutto se di diversa condizione sociale. Mentre possono determinare, attraverso l’accentuazione dei conflitti politici per il controllo di risorse scarse, la regressione dell’uomo fino alla pura animalità.  
Pertanto – ripetiamo – senza progresso etico nessuna la crescita economica.  Come dimostra l’esperienza sovietica (progresso economico prima del crollo definitivo, tra l’altro solo in alcuni settori, senza  progresso etico,) e come proverà, prima o poi, anche quella cinese, altrettanto priva  di progresso etico. E, come sta capitando anche a certo capitalismo finanziario selvaggio, che sembra tuttora ignorare la buona etica, basata sulla consapevolezza diffusa delle necessità reali degli uomini.  
Perciò il vero punto in questione  non è cessare di crescere economicamente, ma trovare il giusto punto di equilibrio tra crescita economica e progresso etico. Dal momento  che, estrapolando Perroux,  una società di mercato eticamente progredita può autolimitare, in modo ragionato, certi consumi deteriori, come quelli finanziari, e favorirne altri, più socialmente importanti e legati all’economia reale. Si pensi solo al settore energie rinnovabili. L’economista francese amava diffondersi sulla “velocità socialmente ottima”. Mentre i teorici della decrescita  auspicano una società  a velocità zero…
Per onestà va  ammesso che Perroux, quando lavorava teoricamente ai concetti di crescita economica e progresso etico, aveva lo sguardo rivolto allo “Stato Keynesiano”  nella magnificenza  dei “Trenta Gloriosi”, segnati dalla continua crescita economica e dallo sviluppo del welfare e dell’economia mista. Una specie di Eden per ogni economista-umanista come Perroux. E crediamo anche per l’amico Giano.
Mentre oggi  ci troviamo in una situazione di ristagno produttivo, di “non crescita.  Ma  perché non ritornare comunque a una qualche forma di intervento pubblico? Magari favorendo un grande piano di lavori pubblici volto a potenziare la produzione di energia pulita?  Coniugando così sviluppo economico ed etico? Individuo e comunità?  O se si preferisce: decrescita della finanza e crescita dell’economia reale?
Carlo Gambescia

 

Decrescita: dalla teoria alla pratica
di Gian Piero Joime

La teoria della decrescita è entrata in azione: l’attuale crisi finanziaria ed economica pone infatti gran parte della popolazione, il cosiddetto ceto medio ovvero la piccola borghesia operativa, in uno situazione di stallo economico e a volte di quasi povertà.
Questa decrescita non è però il frutto di una scelta strategica basata sulle teorie della scuola francese, ma piuttosto un grave accidente causato da più scossoni strutturali, da crisi a catena che minano le radici dell’attuale patto sociale ,e quindi dell’assetto del capitalismo, e che impongono  di cambiare il modello di vita e di trovare nuovi modelli di benessere.
Delle crisi a catena si è tanto scritto, ma è importante non perderne la memoria perché a mio parere proprio queste crisi hanno provocato la grande rottura del meccanismo delle aspettative crescenti, hanno messo fine alla fiducia nei tutori dell’ordine e possono essere le premesse di un nuovo rinascimento:
•    Il fallimento degli istituti finanziari – banche e borse; e dunque della fiducia nei gestori del denaro;
•    Il fallimento della grande impresa come locomotiva dello sviluppo economico locale e come tutore della terza età, con pensione connessa;
•    Il generale fallimento del mercato come istituto garante di sviluppo equilibrato: si pensi alla grande debacle delle privatizzazioni ed alla stolida solfa delle liberalizzazioni;
•    La crisi della politica – europea, centrale e locale – tanto lontana dagli interessi del popolo quanto vicina al proprio benessere ed auto sostentamento;
•    Il  progressivo smascheramento dell’inconsistenza della cosiddetta cultura d’impresa e del terziario avanzato, che hanno spiazzato l’economia sostanziale;
•    Le regole della globalizzazione ed il conseguente limite ai poteri nazionali, di controllo e direzione delle crescite.

Questi fattori hanno insieme determinato l’attuale decrescita e la crisi del ceto medio, che non riesce a pagare il mutuo e la scuola dei  figli, che va in vacanza a credito, che non compra la macchina, che è finalmente insicuro: della banca, del mercato, del lavoro fisso, delle istituzioni politiche e dei politici. E’ proprio questa sensazione di insicurezza che può determinare un ceto medio più adulto, proprio perché senza famiglia, perché solo: un ritorno alla parsimonia ed alla produzione di beni reali, all’aggiustare prima di buttare. L’invito del nostro ricco presidente del consiglio a consumare di più è semplicemente offensivo per quei milioni di italiani che anche volendo non potrebbero, ed è anche una vetusta ricetta economica.
Occorrerebbe invece risparmiare tagliando il superfluo – ad esempio i troppi alti costi della politica, gli stipendi dei top manager – ed investire in prodotti, in ricerca e sviluppo; finirla con le sirene della formazione ed attivare nuove linee di produzione.
Da troppi anni questo paese è privo di una politica industriale: non c’è da stupirsi se ora è anche privo di industrie.

 

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