23 Giugno 2023 Fonte: Il Monocolo Autore. Silvano Moffa
L’Italia dello sfascio. Per voltare pagina: Silvano Moffa rilancia analisi e proposte.
- Silvano Moffa
- 10 giu
- Editoriale
- 10 giu
Alluvioni, segnali politici, egemonie culturali
Il mese appena trascorso è stato ricco di avvenimenti. La devastante, terribile alluvione che ha sconvolto la Romagna, procurato vittime, distrutto aziende agricole, messo in ginocchio famiglie e imprese, ci ha ricordato, ancora una volta, ove fosse necessario, la fragilità del nostro Paese, i ritardi e l’incuria con cui, da decenni ormai, trattiamo l’ambiente e il territorio in cui viviamo, indifferenti alla natura geologica dei luoghi, alla cura degli argini dei fiumi, alla messa in sicurezza di zone a rischio allagamento e altro ancora. A maggio si sono svolte anche le elezioni amministrative in alcuni piccoli, medi e grandi comuni. Presentate come una sorta di termometro per misurare, da un lato, il grado di consenso della destra al governo della Nazione da otto mesi, e, dall’altro lato, l’effetto Schlein sull’elettorato di sinistra dopo la sconfitta nelle politiche, le recenti consultazioni hanno sostanzialmente confermato una tendenza al cambiamento, una propensione a dare fiducia alla destra, nella sua vasta accezione. Mentre appare evidente che la radicalizzazione del Pd su alcuni temi, dalla maternità surrogata al termovalorizzatore di Roma, non paga e si mostra molto più divisiva di quanto si supponesse.
E’ sempre del mese scorso l’insorgere della polemica sui vertici della Rai, il rapporto tra cultura e politica, la cosiddetta egemonia gramsciana, ossia la modalità più o meno espressa con cui i partiti intendono esercitare un ruolo influente nella vita culturale.
Procediamo con ordine. Il cataclisma romagnolo, nella sua sconvolgente dinamica, ha seminato distruzione e lutti. Una piaga profonda che abbiamo vissuto con apprensione, dolore e partecipazione. Vedere sommersa quella regione dall’impeto delle acque e dal fango, assistere al recupero dei corpi di donne, uomini e bambini sopresi e isolati nella flagellante virulenza di un cielo oscurato da nubi cariche di pioggia, mostra il segno di una rassegnata impotenza dell’uomo nei confronti della natura. Come avviene per i terremoti e per tutti gli apocalittici eventi che il clima e la natura ogni tanto ci consegnano per rammentare che, per quanti progressi si possano registrare e per quante tecnologie si possano utilizzare nel nome della scienza, della tecnica e della ricerca, c’è sempre un dato dal quale non si sfugge: le leggi della Natura.
“La natura ha forze tremende, eppure, più dell’uomo nulla è tremendo”. Quel che paventava Sofocle nell’Antigone è ormai il problema che oggi si pone in maniera impellente: la “misura” di questo dominio. Nella prevalenza imposta da una visione antropologica che percepisce la natura come un mezzo al servizio dell’uomo, nell’assenza di “un’etica all’altezza dell’età della tecnica”, come ricorda con felice espressione il filosofo Umberto Galimberti, sarà difficile instaurare un corretto rapporto tra uomo e natura.
Tra il progresso e la catastrofe ci dovrà pur essere un confine accettabile.
Lo scenario che abbiano davanti in termini di riscaldamento globale o di effetti degli organismi geneticamente modificati, solo per citare le questioni che più tengono banco nel dibattito generale, è uno scenario nel quale al potere dell’uomo sulla natura si è sostituito il potere della tecnica sull’uomo e sulla natura. E’ tempo di prenderne piena coscienza. Soprattutto per recuperare all’uomo la capacità di prevedere le conseguenze del suo “fare”, come del suo “non fare”. Una capacità di previsione di cui si avverte ormai la mancanza.
Quanto ai risultati delle elezioni amministrative, pare assodato che il governo Meloni goda di buona salute. Ovviamente, il dato amministrativo non va confuso con quello politico.
Ma se alcune roccaforti storiche della sinistra, come Ancona e quasi tutte le città della Toscana, vedono la sinistra sconfitta; se, quasi tutte le Regioni italiane, eccezion fatta per l’Emilia Romagna e la Campania, sono state conquistate dal centrodestra; se comuni più piccoli, baluardi di quel che una volta veniva definito “lo zoccolo duro” della sinistra, si sfrangono e implodono, vuol dire che va in frantumi una mitologia: quell’idea che una volta si chiamava comunismo e che declinava il peso avuto nei decenni grazie alla preponderante presenza nei comuni e nelle regioni dell’Italia Rossa.
Si tratta di un cambiamento geopolitico, di una svolta epocale, del riflesso di una stanchezza dell’elettorato tradizionale non percepita dai vertici del Pd: stanchezza e repulsione verso atteggiamenti di autoreferenzialità di una sinistra sempre più priva di identità, incline a coniugare istanze Lgbtq, prona verso l’ecologismo del No, culturalmente superba e politicamente lontana dalla realtà e dalle necessità dei cittadini.
D’altro canto, il successo non deve abbagliare la destra di governo, nelle sue varie espressioni. Aver ottenuto dai cittadini un consenso così vasto e ripetuto richiede un supplemento di responsabilità, la capacità di dimostrare con i fatti di essere all’altezza, di mostrare competenza e qualità amministrativa. Il percorso non è facile. Le insidie sono numerose. Le attese dei cittadini pressanti.
L’aver decisamente imboccato la via del pragmatismo nel confronto europeo è stata una scelta oculata, una forma di cautela che è servita a rimuovere incrostazioni di inaffidabilità alimentate in passato da chi aveva delineato il profilo della destra come di un corpo estraneo alla concezione di un’Europa unita e democratica. Ma ci sono altre questioni da mettere a punto, evitando di cadere nella “trappola del Novecento”, per dirla con Pietrangelo Buttafuoco.
Pensiamo alle riforme sul federalismo differenziato e sul presidenzialismo.
Nel corso delle audizioni sul progetto Calderoli sono arrivate critiche da esperti e costituzionalisti. Si tratta di riserve, valutazioni e previsioni che è bene non sottovalutare. Il rischio di una spaccatura del Paese, stante le norme elaborate dal ministro leghista, è alto. Pensare di colmare il divario esistente tra Nord e Sud senza un meccanismo perequativo e, ancor prima di azionare la leva della cosiddetta “autonomia differenziata”, senza consentire alle regioni meridionali di avere una condizione di parità nella dotazione dei servizi al cittadino, pone le premesse per una disarticolazione dello Stato. I numeri parlano da soli.
Lo Stato trasferisce in media ogni anno ad un cittadino del Nord 17.363 euro di spesa pubblica. Un cittadino del Sud deve accontentarsi di 13.607 euro. Per colmare la differenza di 3.756 euro il Mezzogiorno dovrebbe ricevere dallo Stato ogni anno 75 miliardi. Se Veneto e Lombardia otterranno di trattenere sul proprio territorio il 90 per cento di Irpef, Ires e Iva, al bilancio dello Stato verranno a mancare 190 miliardi di euro. Come si colmerà allora il divario?
Non solo. Nell’ambito della sanità, le cui competenze sono transitate alle regioni, i risultati sono stati disastrosi. Le liste d’attesa e i viaggi dal Sud verso il Nord per curarsi hanno comportato un travaso di 14 miliardi di euro dalle regioni meridionali e quelle settentrionali. Con la conseguenza che la sanità nel sud è andata ulteriormente in crisi. L’autonomia, in queste condizioni, infliggerebbe un colpo mortale all’intero Mezzogiorno.
Ora, se è vero che nel Sud ci sono sacche inaccettabili di inefficienza e, in molti casi, non si riesce neanche a spendere i Fondi di coesione europei, è pur vero che non si può gettare il bambino con l’acqua sporca. Procurando danni ulteriori ai cittadini e rendendo incolmabile il divario esistente.
Né aiuta, nel processo di bilanciamento tra opzioni diverse, la proposta di elezione diretta del premier (un semipresidenzialismo alla francese) avanzata dal governo per cercare di riequilibrare le pretese della Lega. Si tratta di tesi che si muovono su piani diversi. Esse si articolano sul terreno di una architettura costituzionale che merita di essere aggiornata e calibrata con attenzione e cautela.
Insomma, la riforma dell’autonomia e quella del presidenzialismo non posso essere trattate come merce di scambio. In gioco è la credibilità riformatrice del governo e il destino di una Nazione che porta ancora le ferite della disgraziata riforma del Titolo V della Costituzione imposta dalla sinistra.
Per terminare la disamina degli accadimenti di maggio, ecco un altro tema che si proietta sui mesi avvenire e rischia di accendere polemiche sempre più astiose tra maggioranza e opposizione. Ci riferiamo al rapporto tra cultura e politica che, per alcuni versi, riverbera nelle sostituzioni dei vertici della Rai ed è emerso anche in occasione del Salone del libro di Torino. Niente di nuovo, in verità. Del pluralismo reale o presunto della Rai si discute dalle calende greche. Con risultati nulli o scarsi. La verità è che si spaccia per pluralismo la lottizzazione che i partiti fanno dei Tg e delle conduzioni dei talk show. Ora che la destra è al governo, dopo anni di ostracismo verso giornalisti, intellettuali e pensatori di quel versante, è più che legittimo ottenere il cambio della guardia alla direzione di alcune testate. Va da sé che nulla vieta ai nuovi conduttori di garantire, nell’espletamento delle funzioni, pluralismo e par condicio, mostrandosi anche migliori di chi li ha preceduti.
Direi che sia auspicabile che lo facciano, proprio per mostrare un volto diverso nella gestione di un pubblico servizio, quale la Rai dovrebbe sempre assicurare.
Diversa è la questione della egemonia culturale della sinistra di gramsciana memoria. Qui ci pare essenziale chiarire alcuni punti controversi, sia sul versante della destra che su quello di sinistra.
E’ fuor di dubbio che per molti anni, in particolare a partire dal Sessantotto, per effetto di un tacito patto tra la Dc e il Pci, la prima ha lasciato a quest’ultimo una sorta di egemonia nel campo della cultura in cambio di un controllo più serrato su altre istituzioni. Con il tempo questa influenza si è fatta più diffusa e stringente. Ha occupato spazi nelle università, nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nelle case editrici. Con l’avvento di Berlusconi, le cose sono cambiate. Sicché parlare oggi di egemonia culturale della sinistra in termini assoluti non è propriamente esatto. Più verosimilmente, bisogna ammettere che i processi omologanti del pensiero unico hanno finito con l’inaridire la vena culturale nel suo insieme.
Ne consegue che non è tanto la presunta egemonia di una sinistra politicamente e culturalmente in declino a dover preoccupare. Quanto, piuttosto, la distanza che separa la voglia di conciliare l’immenso patrimonio di valore universale che l’Italia eredita dal passato, e che qualcuno vorrebbe cancellare, con l’inalienabile esigenza di guardare al futuro, alle nuove suggestioni che infiammano la contemporaneità, ne declinano sofferenza e grandezza, ne animano dibattito e confronto. Tracciare una linea di demarcazione tra questi “valori” culturali sarebbe un errore imperdonabile.
- Silvano Moffa
- 19 giugno
Un libro per amico
A cura di Silvano Moffa
Giuseppe Lupo “LA MODERNITA’ MALINTESA” (Marsilio)
Se è vero che delle etichette e delle definizioni usate per circoscrivere periodi e convogliare in un linguaggio comune ogni epoca non bisogna abusare, è pur vero che non è privo di significato il fatto che sia del tutto scomparso l’uso del prefisso “neo”. Si pensi alla letteratura, a termini molto in voga nel Novecento come neorealismo, neosperimentalismo, neoavanguardia, nouveau roman.
Oppure, in altri ambiti, sia pure su piani differenti, alla filosofia (neoidealismo), al cinema (nouvelle vague), all’economia (neocapitalismo), alla politica kennediana (nuova frontiera). Siamo stati immersi, per quasi un secolo, in una stagione in cui quasi tutte le discipline avvertivano il bisogno di ridisegnare i propri statuti, sulle orme di quanto di utile era stato fatto e affermato in passato, tracciando una linea di non separazione in cui, comunque, si forgiava un’operazione che “trasmettesse la sensazione di lasciare un segno nel tempo a venire”. Da almeno trent’anni questa tendenza si è arrestata. Da quando abbiamo scoperto la categoria della posterità (o della condizione postuma) abbiamo smesso di pensarci come individui proiettati verso il futuro e ci siamo ripiegati verso un uso sovrabbondante – spesso un abuso – del suffisso “post”.
Giuseppe Lupo, autore di diversi saggi sulla cultura del Novecento e raffinato indagatore della nostra contemporaneità, nel suo ultimo lavoro scandaglia nel profondo il malinteso senso della modernità che ha occupato uno spazio considerevole nella geografia di fine millennio e continua ad influenzare il nostro pensiero e i nostri discorsi.
“Il postmoderno è entrato nel nostro orizzonte culturale negli anni ottanta”, scrive, “senza peraltro essere mai stato identificato in maniera del tutto convincente”. E’ una sorta di “male oscuro” di cui nessuno sa trovare l’origine e rispetto al quale nessuno azzarda una diagnosi. Lo subiamo. Ne sopportiamo i limiti con insofferenza. Raramente riusciamo a intravedere una via d’uscita. Eppure, riflette l’autore di questo interessante e acuto saggio, “mai come in questo momento, dal punto di vista culturale e morale, si renderebbe necessario guarire da questa ambigua condizione di posterità, occorrerebbe cioè dimenticare di sentirci per forza nati all’indomani di qualcuno, convincerci che il grande Novecento è alle nostre spalle, superato ormai da tempo e che la sua morte, se anche dovesse conservare in ciascuno di noi i segni del lutto, dovrebbe lasciarci liberi dal suo peso, senza le catene che ci impediscono di vivere il nuovo millennio come abbiamo sperato”.
Per poterlo fare – per poter riprendere l’uso del “neo” in sostituzione del “post” – occorre recidere il cordone ombelicale con il secolo “terribile e maestoso” di cui ci sentiamo ancora figli, ripensare alle istituzioni culturali (i libri e gli archivi, le università e la scuola) come a strumenti grazie ai quali tornare a ricomporre le rovine. Insomma, per dirla con il titolo biblico-sapienzale di un saggio del 1923 di Giuseppe Antonio Borgese, è Tempo di edificare. Borgese si riferiva, in particolare, alla disciplina del romanzo, che in quel periodo languiva nelle sacche di autobiografismo e frammentarietà. Nell’ opera si agitava, però, il fermento critico di un autore che stimolava un cambiamento di passo per uscire dall’apocalisse di una nazione mutilata dalla Grande Guerra e procedere alla rifondazione di un’Italia disorientata.
Il testo di Giuseppe Lupo esamina una ad una le tappe dei cambiamenti che hanno interessato il nostro Paese, offrendo al lettore una controstoria dell’industria italiana, una “narrazione” che recupera il senso profondo dei passaggi e dei cambiamenti epocali che hanno inciso nel tessuto sociale e cultuale del nostro Paese, impresso una svolta nell’economia e nella politica, infrangendo equilibri e frantumando la linea di continuità tra passato e futuro. Fino al tramonto della civiltà contadina e l’avvento della industrializzazione.
Da appassionato studioso della storia italiana, ripercorre le tappe del boom economico attraverso la rilettura del “paradigma interpretativo del moderno” e la disanima attenta di alcune figure, da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini.
Nel viaggio alla scoperta della narrativa della fabbrica dagli anni trenta del secolo scorso a oggi – dal sogno di Olivetti all’odissea dell’Ilva, dalla maestosità della Pirelli, ingabbiata in una elegante struttura di vetro e di metallo, monumento, non un rudere, una specie di celebrazione di un’epoca passata ma senza retorica del ricordo, alla desolante immagine della spianata fuligginosa di Bagnoli, a Napoli, dove il progresso ha “l’aspetto di un cimitero dove non abita nemmeno più la memoria”, fino alla nuova frontiera della duplicazione digitale dei prodotti – le vicende dell’industria italiana, tra visioni, modelli, sospetti, giudizi spesso severi e corrosivi, propongono il ritratto persino paradossale di un’antimodernità che si rivela incapace di decodificare fenomeni che chiedevano solo di essere compresi.
Se si volesse ragionar per paradossi, a proposito di officine e di “storie prima della storia”, l’inizio della letteratura di fabbrica potrebbe essere rinvenuto in due punti della Commedia di Dante, in particolare nei versi che descrivono l’arsenale di Venezia, il cantiere navale dove gli operai spalmano pece, ravvolgono funi, modellano remi e chiglie con le pialle, rattoppano vele, e quelli che racconta Vulcano, dio del fuoco e della metallurgia, che secondo i miti greci lavorava nella “focina negra”, una spelonca nell’arcipelago delle Eolie. “Saldando le due citazioni – scrive Lupo – possiamo azzardare che Dante sia stato il primo degli autori in lingua italiana ad avventurarsi nell’inferno di un’officina”.
Nella visione del Poeta, comunque, non ci troviamo ancora all’interno di quei testi narrativi cui fanno da sfondo, da un lato, la dimensione operaia, corredata da riferimenti a ciminiere, turni, mense, sirene e, dall’altro, gli uffici, le sale riunioni, gli spazi riservati a funzionari e dirigenti. Siamo, evidentemente, ancora lontano da quell’Italia del secondo dopoguerra che si è definitivamente trasformata in un paese a vocazione industriale e dove la nozione di officina-bottega artigianale si è modificata in officina-fabbrica.
Ad eccezione del Futurismo, che entusiasticamente promosse le macchine come archetipi del moderno – annota Giuseppe Lupo – l’interpretazione degenerante della vita operaia si attesta a topos della letteratura industriale, una lente attraverso cui osservare ciò che avviene intorno alle catene di montaggio. Interessante la riflessione che propone nel merito l’autore. Riprendiamone alcuni tratti.
“Si potrebbe riflettere a lungo sui motivi per i quali il paradigma infernale agisce in profondità nel tessuto dei testi, sia dentro il perimetro che circoscrive la letteratura della prefabbrica (quella appunto relativa al periodo in cui in Italia ancora non esiste un’industrializzazione diffusa) sia a cerniera del nuovo millennio, in un momento in cui si assiste al tramonto della fabbrica tradizionale e all’avvento di una realtà produttiva (le società multinazionali) che ne raccoglie l’eredità, modificando contenuti e forme.
Molto probabilmente la questione non va considerata soltanto un’eredità dantesca. Semmai potrebbe scaturire dall’antico sospetto che cova in seno alla civiltà umanistica nei confronti della civiltà tecnologica, di cui l’industria è stata diretta applicazione….Un discorso del genere peccherebbe di parzialità se le ragioni venissero individuate esclusivamente in una sorta di spaesamento, se insomma non si tenesse conto di altri, ben più numerosi pregiudizi che con l’affermarsi dell’industria avrebbero condotto gli intellettuali ad assimilare la fabbrica a luogo di contrapposizione, a fulcro dello scontro tra classe operaia e imprenditori, tra solidarietà e profitto, tra produzione e sfruttamento”.
L’argomento scivola facilmente, confessa l’autore, verso una zona apparentemente estranea all’orizzonte della letteratura, ma che la letteratura ha fagocitato, facendosi essa cassa di risonanza di quei fenomeni di rivendicazione sociale e sindacale, dei problemi legati alla condizione operaia, agli infortuni sul lavoro, ai rapporti tra maestranze e imprenditori – in cui si posizionano, per esempio, Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, Tuta blu di Tommaso di Ciaula o Sirena operaia di Alberto Bellocchio – che hanno attraversato, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni settanta, le stagioni della ricostruzione, del boom economico, dell’autunno caldo e della crisi petrolifera.
E’ chiaro che non tutta la letteratura ispirata dall’industria andrebbe analizzata in chiave politico-ideologica. Però non si può negare che gran parte dei testi “esprima più di una parentela con le questioni emerse dallo scontro tra i partiti di area marxista e le formazioni di ispirazione cattolica, un dibattito che nell’immediato dopoguerra ha visto fronteggiarsi, almeno a livello teorico, i modelli del capitalismo e del socialismo reale.
Per perimetrare il campo della ricerca nell’ambito di opere omogenee venute alla luce negli anni in cui l’Italia abbandona l’economia agricola e artigianale per compiere definitivamente il salto verso l’industrializzazione e attestarsi tra le prime nazioni manifatturiere del mondo, dal punto di vista cronologico, l’autore si sofferma sul tempo che corre tra il periodo aureo descritto da Tre operai di Carlo Bernari, pubblicato nel 1934, e la Dismissione di Ermanno Rea, uscito nel 2002.
Due romanzi che fanno da controluce di un Meridione industrializzato a macchia di leopardo con un fulcro geografico ben preciso: gli stabilimenti dell’Ilva di Bagnoli, luoghi che sembrano esasperare il contrasto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale, luoghi che assurgono a simboli di un’ascesa e di una caduta. “Questi luoghi svolgono la funzione di palcoscenico in cui registrare l’avvento e l’agonia della modernità, in un’altalena che vede prima l’affermarsi della civiltà tecnologica come soddisfacimento dei bisogni primari, poi le operazioni di smontaggio degli impianti”. Nel mezzo ecco emergere, in un volume denso di riferimenti letterari puntuali, alcuni ritratti che aiutano a sconfiggere l’ideologia del “post” e fanno strame di una modernità malintesa.
Metropolis, i film di Fritz Lang del 1927, comincia con lancette di orologi che scandiscono i secondi e i macchinari in movimento. Le scene sono il paradigma della nuova epoca. E’ l’America che Adriano Olivetti vede per la prima volta nel viaggio compiuto tra l’estate del 1925 e il gennaio del 1926. E’ una nazione che abbiamo imparato a conoscere attraverso il filtro immaginario che attinge ai romanzi di Francis Scott Fitzgerald: un luogo di sfrenata euforia, di opportunità economiche, di progressi tecnologici. Olivetti ci rimane pochi mesi.
Ma non spende il suo tempo soltanto per visitare fabbriche e catene di montaggio, piuttosto vuole comprendere lo spirito di quella civiltà così distante dai parametri europei e scoprire i segreti del successo.
Nelle lettere che dall’America scrive al padre e alla sorella riverbera il senso profondo di un’esperienza che lo condurrà, più tardi, a lasciare un segno indelebile nello sviluppo della industria italiana, corroborata da una qualità imprenditoriale che ne farà l’archetipo di un modello proiettato verso l’obiettivo di acquisire fette di mercato, disposto persino ad abbracciare con convinzione il verbo taylorista, ma senza perdere di vista l’idea del progresso come conquista civile, come occasione democratica di crescita e di riscatto.
La rivista “Comunità”, fondata nel marzo del 1946, diventa una fucina straordinaria di creatività, filosofia, urbanistica, arte, innovazione. La fabbrica di vetro, ad Ivrea, è lo specchio di quell’ umanesimo della fabbrica che lo stesso Adriano Olivetti, descriverà nei tre libri editi in poco più di quindici anni, fra il 1946 e il 1960: L’ordine politico delle Comunità, Società Stato Comunità e Città dell’uomo.
Ivrea non ha mai perso l’aspetto di una città-giardino, esattamente come mostrava la foto che accompagnava l’editoriale d’apertura della rivista Comunità, a firma di Ignazio Silone, e se le è stato riconosciuto un ruolo di prim’ordine nelle rotte della modernità è perché in essa si condensa il senso di una stagione in cui il Novecento ha raggiunto uno dei suoi traguardi più rilevanti: quello di sconfessare il paradigma di Rousseau, secondo cui il progresso genera un’umanità infelice, riscrivendo da cima a fondo un patto alternativo alle consuete manifestazioni generate dalla civiltà delle macchine, dai conflitti di classe e dall’alienazione operaia, dallo sfruttamento egoistico dell’uomo e dall’ottuso ed esclusivo predominio del profitto.
L’Olivetti di Ivrea significò “muoversi controcorrente” rispetto alle abitudini esasperate di un certo fordismo, significò un’industria dal “volto umano”, significò il superamento di molte contraddizioni del capitalismo.
La possibilità, in fondo, di rimediare agli errori di sempre con l’impiego di una ricetta ideale a cui oggi guardiamo con nostalgia e un certo rimpianto.
Il secondo ritratto è quello di Leonardo Sinisgalli che in uno scritto lungo non più di otto pagine e corredato di disegni a penna di Giò Ponti, pubblicato nel 1937 con il titolo Ritratti di macchine, narra: “Ho trascorso alcuni giorni di questa ultima primavera in un paese dell’Umbria per farmi un’esperienza di fabbrica. Quando gli operai avevano abbandonato i reparti, mi piaceva andare a trovare le macchine in riposo, di coglierle nella loro stanchezza”.
L’abitudine di conoscere le macchine diventerà una costante nel rapporto tra Sinisgalli e la fabbrica. Sin dai primi anni trenta, a eccezione dei periodi di lavoro presso la Finmeccanica, l’Agip-Eni, l’Alitalia e la Mobil Mim, stringe infatti legami con importanti aziende milanesi, “Ha inizio – sottolinea Lupo – il lungo dialogo tra umanesimo e tecnologia che fornisce un carattere inedito alla sua complessa personalità e ne avvicina la fisionomia ai modelli di intellettuale- scienziato incarnati cinque secoli prima da Leon Battista Alberti e Leonardo Da Vinci.
Nel terzo ritratto, dedicato a Giovanni Pirelli, emerge la sua figura irrisolta, antiborghese, addirittura disertore, come arrivò a scrivere Indro Montanelli dopo l’addio all’azienda di famiglia.
La sua vita e le sue esperienze imprenditoriali, secondo Lupo, conservano i tratti di una lunga predisposizione all’inquietudine e riassume gli esiti più rappresentativi di un certo Novecento.
Questi ritratti, nelle loro differenze e nei tratti comuni, danno la misura di un’epoca, l’epoca della modernità. Conclusa la fase dell’epica, è cominciata la stagione della cronaca, che è l’esatto contrario, cioè il racconto di un tempo breve e frammentato.
Il libro di Giuseppe Lupo ci invita a rettificare l’immagine di progresso e con essa a ridare senso, nel mondo contemporaneo, alla modernità. In che modo? Definendone l’identità. Secondo l’autore di questo interessante volume, il terzo millennio ci parla con un linguaggio che non abbiamo ancora le chiavi per interpretare.
A seguito di quanto accaduto dopo il febbraio del 2020, con i riflessi di una pandemia che ha contribuito a disvelare il carattere liquido del lavoro quotidiano in una dimensione che fino a poco tempo fa potevamo percepire nelle forme teoriche annunciate da Bauman, urge rivedere alcune categorie interpretative. In questa ricerca appare persino fuorviante la formula coniata da Eric J. Hobsbawn nella sua opera più nota Il secolo breve.
E con essa l’idea stessa di postmoderno e posterità.
- Silvano Moffa
- 7 aprile
Quella frattura tra politica e cultura
Politica e cultura.
Quello che una volta appariva come un binomio indissolubile è andato in frantumi.
Colpa del cosiddetto “spirito del tempo”? Della crisi dei partiti? Di una certa afasia che sembra essersi impossessata del mondo intellettuale?
Di una diffusa reciproca diffidenza tra politici e intellettuali? Oppure, c’è alla base di tutto l’affermarsi di quella società liquida, indifferente, racchiusa nel “presentismo”, egoistica e autoreferenziale, mobilitata da soggettività rumorose il cui dinamismo appare circoscritto nel web e si sfoga nei social?
Lo storico Giorgio Caravale nel suo recente libro Senza intellettuali prende di petto la questione e offre un terreno di discussione stimolante.
La sua analisi abbraccia gli ultimi trent’anni della storia d’Italia. Un periodo che ha visto velocemente attecchire forme e modalità diverse di fare politica mentre, sul piano culturale, le discipline economiche e scientifiche finivano col prevalere su quelle storiche e filosofiche. Scorrendo le pagine del saggio, va dato atto a Caravale di aver mantenuto l’impegno assunto nella introduzione.
Ossia di non aver offerto al lettore un libro di mera cronaca politica e culturale, una sorta di balzello sui vizi e virtù dei politici e degli intellettuali.
Al di là delle convinzioni che legittimamente ognuno può avere o professare, la sua è una riflessione sulla frattura registratasi tra politica e cultura.
Sulla rottura consumatasi dopo la fine della Prima Repubblica, di quel nesso che è stato il tratto caratteristico della politica italiana del Novecento.
Sulle ragioni che negli ultimi decenni hanno indotto politici e intellettuali a ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri. Sulle cause del crescente discredito che ha investito, in modi diversi ma non slegati fra loro, le figure del politico e dell’intellettuale.
“Mi soffermo – scrive Caravale – su una ragione storica in cui l’età dell’incompetenza ha fatto da sfondo a una politica sempre più aliena da un’approfondita elaborazione culturale e a un ceto intellettuale sempre più chiuso in sé stesso, disinteressato alla politica quando non esplicitamente infastidito dalle sue dinamiche”.
In questa sorta di rapporto e di non-rapporto tra politica e intellettuali si è consumata una stagione della nostra storia recente con le conseguenze disastrose che si registrano nella selezione di una classe dirigente sempre meno competente e di un ceto intellettuale spesso vanesio e poco concreto.
Qui non si tratta, però, soltanto di fare le pulci agli uni e agli altri.
Né basta chiedersi se sia possibile superare le reciproche idiosincrasie per ricostruire quel terreno di confronto e di collaborazione che, almeno per alcuni tratti, in passato, è stato foriero di visioni, di idee, di progettualità.
Oltre che di orientamento di senso, di valori, di opinioni.
La frattura, e di frattura si tratta, non si cura con i pannicelli caldi.
Certo, se almeno la politica facesse ammenda dei suoi errori e della soverchia presunzione di usare, come è avvenuto in tutti i partiti, chi più chi meno, gli uomini di cultura come “pezzi” da esibire nel mercato elettorale per imbellettarsi, e se gli intellettuali decidessero di uscire dalla torre d’avorio in cui sono racchiusi, sarebbe già un bel passo in avanti.
L’autocritica è sempre utile ma non sufficiente. Se dovessimo cercare un termine calzante per indicare una via d’uscita, forse il termine più appropriato potrebbe essere: Ri-generazione.
Nel senso di una nuova nascita, della scoperta di inediti paradigmi e modalità cui ancorare il senso di un ritrovarsi e sostenersi senza invasioni di campo. Con una reciproca legittimazione.
Con vicendevole rispetto. Abiurando qualsivoglia forma di invidia e rifuggendo da ipocrite parate pseudoculturali che offendono l’intelligenza e oscurano le menti.
Con “una politica che, alternativamente, disprezza gli intellettuali e consegna loro le chiavi del proprio futuro; un ceto intellettuale che disdegna la politica ma non ha problemi ad usarla e persino a guidarla, se solo balena la possibilità di avere un tornaconto personale, cioè denaro e potere. O quel surrogato del denaro e del potere che è la visibilità”, scrive ancora Giorgio Caravale, siamo alla schizofrenia, al cortocircuito tra società civile e classe dirigente politica. Con il risultato aberrante che gli intellettuali vengono travolti dai segni dirompenti di una contemporaneità spesso volgare e spocchiosa, le cui forme sono scandite dalla pervasività dei media in incessante trasformazione e dalla mutazione che essi hanno con il mondo della politica.
E mentre la cultura fatica ad emergere nel solco dei tradizionali luoghi di elaborazione e legittimazione, dalle università alle case editrici alla carta stampata, si appalesano figure cresciute nel circuito dei network e delle piattaforme digitali che ambiscono a svolgere una funzione intellettuale sulle ali del successo mediatico.
Vale per Zerocalcare, definito da uno storico mensile di sinistra come “l’ultimo intellettuale”, e vale per il rapper Fedez, le cui esternazioni sul disegno di legge Zan e le sue intemerate, imbarazzanti scorribande sui temi di maggior sensibilità sono ormai all’ordine del giorno.
Tutto questo provoca nient’altro che confusione, disordine, disorientamento. Persino delegittimazione della stessa figura dell’intellettuale.
D’altro canto, l’impoverimento della politica, anzi la sua assenza, è il rovescio della medaglia.
Quello della crisi dei partiti è un argomento che abbiamo affrontato più volte su queste colonne. Vale la pena ricordare solo alcune delle cause più evidenti come il tramonto delle ideologie, la perdita di radicamento sociale, la corruzione, l’affermarsi impetuoso di leadership fortemente personalizzate, la scomparsa dei luoghi di formazione e selezione della classe dirigente, la prevalenza di oligarchie ristrette a discapito di reti organizzative e decidenti diffuse nel territorio, l’umiliazione di ogni forma di democrazia interna, sistemi elettorali congegnati più per rendere ininfluente le scelte degli elettori e premiare la fedeltà al capo di turno. Schiacciata da fenomeni globali complessi, difficili da interpretare, alle prese con regole sovranazionali sempre più stringenti, la politica ha perso mordente, ruolo, visione del mondo. Si è appiattita sul presente.
Ha smesso di immaginare e costruire il futuro.
Nell’arsenale confuso dei social e delle nuove dinamiche della comunicazione ha perso la capacità di mantenere un filo conduttore con i processi di cambiamento in atto. Rintanata nella gestione del quotidiano, si è lasciata sopravanzare sul piano della narrazione, della definizione dei valori comuni e della ricerca di identità dall’opinione di tecnici, economisti, giuristi.
Tecnocrazia come surrogato della incompetenza della politica.
E proprio questa rinuncia ad una visione complessiva del mondo, ad una narrazione della storia e dei mutamenti globali, ad una lettura attenta e a tratti suggestiva delle sfide epocali che scuotono stili di vita e comportamenti collettivi, la scarsa attitudine ad analizzare i fenomeni nella loro complessa articolazione preferendo ridurre il tutto a singole questioni: sono tutti elementi che hanno di fatto indebolito la politica, liberandola dalla fatica di approfondire la complessità dei temi da trattare. E’ quella che alcuni opinionisti chiamano “politica Netflix”, ossia una politica on demand, una sorta di piattaforma sulla quale gli utenti-elettori si appassionano agli argomenti che più di altri attirano il loro interesse senza curarsi della portata complessiva dei fatti da esaminare e giudicare, e dei problemi da risolvere.
La fluidità dell’elettorato, la sua volatilità e l’accentuarsi del dato dell’astensionismo hanno un forte legame con questi processi.
Va da sé che, per ridurre la distanza tra politica e intellettuali e restituire alla cultura il ruolo che le compete come arsenale delle idee, bisognerebbe che la politica incentivasse la creazione dei luoghi di formazione, di dibattito, di elaborazione.
Restituisse prestigio alle università, ai giornali, alle riviste, alle fondazioni, alle scuole di politica indipendenti dai partiti, a tutte le articolazioni culturali della società capaci di alimentare dibattiti e confronti.
Da questi luoghi di pensiero e di approfondimento la politica potrebbe trarre nuova linfa e idee utili per avanzare proposte e assumere decisioni.
Nella convergenza di interessi tra una politica alla ricerca di senso, lontana da pregiudizi, e intellettuali alla ricerca di ruolo e di impegno, scevri da subalternità e da compromessi, potremmo forse salutare la maturità di una nuova stagione della cultura e della politica.
Sperare non è vietato.
Politica
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