Lauro de Bosis, un antifascista romantico e dannunziano che sognò, agì e pagò con la vita il suo volo su Roma

11 Agosto 2009

Fonte: readme.it

 

Lauro de Bosis. Fu uno dei pochi antifascisti che nel pieno del successo del regime seppe sfidarlo e morire come Icaro

Non ne condividiamo assolutamente le idee, le analisi, i giudizi, ma uomini come questo vanno rispettati e additati come esempio. L’antifascismo di personaggi di piccolo cabotaggio spesso tollerati dal regime anche se quasi sempre  controllati dice quanto asfittica fosse l’aria che essi respiravano e quanto grande il loro isolamento morale. I limiti ideali e programmatici del pensiero ideologico dello stesso de Bosis sono ampiamente superati dalla qualità della sua coerenza e della sua perseveranza nel realizzare un ardito progetto “in solitario” emulando le imprese aviatorie di D’Annunzio. Cosa che è macata quasi sempre a tanti italiani, da allora ad oggi. Ad iniziare da ideologi e intellettuali voltagabbana, fuggiaschi e smidollati che attesero soltanto il momento del tracollo della guerra e dello sbarco delle armate nemiche. Il volo di de Bosis su Roma fu fatale e tragico, senza ritorno, sotto il segno di Icaro. Dalle parole dello stesso de Bosis si colgono le preoccupazioni ben datate di cosa gli antifascisti non comunisti avrebbero fatto, consegnando ai “sovversivi” l’anima e la storia dell’antifascismo sia di quegli anni che… della “resistenza”. Riportiamo integralmente quanto pubblica il sito readme.it, compresi il suo testamento e le testimonianze, tra gli altri,  di Gaetano Salvemini e di Giovanni Spadolini. Domenico Cambareri

 

 

 

Lauro de Bosis

 

 

 

 

Storia della
mia morte
Il volo antifascista su Roma
 
a cura di
Alessandro Cortese de Bosis
 
 
 
 
 
mancosu editore
 
 
 
 
 
 
 
 
A Lillian Vernon de Bosis
madre di due caduti per l’Italia
e la libertà.
 
Avvertenza
 
 
 
Ringrazio Furio Colombo, che presenta a Roma il libro di Lauro de Bosis. Furio ha scritto recentemente pagine indimenticabili nel volume “Fascismo e Antifascismo”.
Insegnare ai giovani che cosa sia stato in Italia il fascismo, vecchio e nuovo, è dovere dell’uomo di cultura, specie oggi, ricordando la guerra di liberazione dal nazifascismo di cinquanta anni fa: liberazione che significa anche lotta ad ogni forma di liberticidio, comunista e non.
Il compito di chi scrive si limita a collegare l’introduzione, alcune note esplicative, le testimonianze e i commenti di Salvemini, Spadolini, Rogari, che precedono e accompagnano il testo di “Storia della mia morte”: scritto nel 1931, dal pilota dell’aereo che, dopo il volo antifascista su Roma, non è più rientrato alla base.
 
A. C. d. B.
 
Introduzione
di
Alessandro Cortese de Bosis
 
 
 
Mezzo secolo fa si concludeva il capitolo della Resistenza contro il nazifascismo.
Rievocazioni storiche del 50º Anniversario si svolgono in tutto il Paese, collegate idealmente al ricordo della Resistenza al regime fascista, fin dagli anni venti, con il sacrificio di tanti, e fra i più grandi, Gobetti, Amendola, Matteotti, i fratelli Rosselli; il rifiuto, l’esilio e la prigionia di Turati, Saragat, Pertini; il movimento “Giustizia e Libertà”. Impossibile citare tutti gli individui, isolati spesso, o associati in gruppi segreti: come l’ “Alleanza Nazionale della Libertà”, creata da Lauro de Bosis. Tutti protagonisti di quello che fu giustamente definito il Secondo Risorgimento.
L’Alleanza, nata ai primi del 1930, si proponeva di sensibilizzare l’opinione pubblica moderata con l’invio di lettere circolari sui guasti prodotti dal regime con la soppressione delle libertà statutarie, con il bavaglio posto alla stampa, con il “delitto Matteotti” e con il progressivo insorgere di una dittatura veramente totalitaria, la prima del genere in Europa, dopo le leggi “fascistissime” del ’25-’29.
L’Alleanza Nazionale ebbe una vita breve, non già improduttiva.
Colleghi e amici di Lauro, nel sodalizio, vennero arrestati e processati nel dicembre 1930 dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da alti gerarchi fascisti. Fra gli imputati, di cospirazione, vi era anche la madre di Lauro, Lillian Vernon de Bosis.
In quell’epoca Lauro era in America e perciò fu l’unico a non essere processato.
Fallita l’Alleanza, Lauro decise di sfidare il regime con un gesto spettacolare, diretto a dimostrare la permanente validità della Resistenza liberale contro il fascismo.
E fu il volo su Roma, durante il quale egli disseminò 400.000 manifestini contenenti un monito e un appello al Re e al popolo italiano.
Dal suo volo del 3 Ottobre 1931, Lauro non fece più ritorno.
Storia di un anno, dunque, o poco più. Ma la risonanza che ebbe il volo è testimoniata dal rilievo che la stampa mondiale seppe dare all’episodio e alla diffusione di Storia della mia morte,il testamento spirituale che egli scrisse alla vigilia del decollo da Marsiglia.
L’idea di rievocare Lauro e la sua “Storia”, oggi, nell’ambito delle celebrazioni della Resistenza, ha trovato il più autorevole sostegno nell’iniziativa del compianto Giovanni Spadolini che ha dedicato a Lauro alcune mirabili pagine de “Il Mondo frantumato”. Il Presidente del Senato scriveva: “…noi proponiamo a qualche editore animoso e intraprendente di ristampare un piccolo e prezioso libro… uscito a Torino presso una testata editoriale ormai avvolta nel mito, Francesco De Silva… e che comprendeva nella sua breve e gloriosa storia Se questo è un uomo di Primo Levi e l’Antologia della rivoluzione liberale, curata dal nostro vecchio e indimenticabile amico e collega Nino Valeri.
“Storia della mia morte”, un’operetta scritta quasi in una notte da un poeta e studioso, che si chiamava Lauro de Bosis, già autore predestinato di Icaro, che aveva deciso di ripetere sulla Roma di Mussolini il gesto di Bassanesi su Milano. Proprio nel pieno degli ‘anni del consenso’ per dirla con De Felice.”
“De Bosis. Un personaggio unico e inconfondibile. Di padre italiano (e quale padre!) e di madre americana. Professore a New York: cultore profondo e appassionato della storia della civiltà italiana, largamente permeato di dannunzianesimo (Valiani, che se ne intende e che è di Fiume, ama dire che D’Annunzio ha influenzato egualmente fascismo e antifascismo). Arrivato tardi alla lotta contro il regime e non senza qualche sgradevole equivoco coi compagni di esilio (eccetto Salvemini che lo capì subito e lo protesse sempre). Fondatore nel ’30, insieme con Mario Vinciguerra (un altro personaggio che meriterebbe una “Vita”) dell’Alleanza Nazionale, una specie di riduzione dell’ “Unione democratica” amendoliana in chiave monarchica, anzi in chiave di collaborazione tra forze liberali cattoliche e moderate, al fine di premere su Monarchia e Chiesa per la rottura col fascismo (non importa se due anni dopo il Concordato). Scriveva de Bosis nella “circolare n.1” dell’Alleanza nazionale (1 luglio 1930):
…”Eppure bisogna agire: per essere in pace colla propria coscienza, per salvare l’Italia da mali peggiori, bisogna fare. Il regime non poggia che sulla inerzia degli italiani. Guai a lasciare ai sovversivi il monopolio della lotta contro il fascismo! Non solo si rischia che al momento della inevitabile crisi non vi siano di pronti che loro, ma si finisce col lasciar identificare nell’opinione pubblica antifascismo con comunismo, col risultato che chiunque ha interessi da difendere preferirà in ultima analisi rassegnarsi al fascismo”.
“Una specie di 25 Luglio ante litteram. Sanzionato dal volo che porterà il poeta angelico sulla capitale, da un’altezza di duemila metri a poco più di trecento metri, con un aereo disseminante 400.000 manifestini proprio nella zona di Palazzo Venezia e di Palazzo Chigi. Un errore nel rifornimento della benzina, condurrà a morte il pilota e il suo apparecchio nel rientro in terra di Francia. ‘Il martirio’ – diceva Mazzini – ‘non è mai sterile'”.
È opportuno soffermarsi su queste parole che confermano in sintesi l’analisi già elaborata dall’illustre storico nel 1981 durante il Convegno di studio su Lauro de Bosis nel 50° anniversario del volo e sul quale più ampiamente ritorneremo: analisi che restituisce al gesto di Lauro de Bosis il suo pieno significato storico-politico di collegamento ideale tra il movimento di resistenza amendoliano e la nascita, tredici anni dopo, del movimento di Liberazione Nazionale. La relazione di Spadolini, e lo studio di Sandro Rogari, letti al Convegno, segnano perciò una svolta importante nella storiografia dell’antifascismo e dell’Alleanza Nazionale.
Spadolini ha avuto il merito di collocare la Storia della mia morte e l’Alleanza Nazionale nella concatenazione storica dei movimenti di Resistenza degli anni trenta.
Vi sono dunque due tempi o due fasi storiografiche sull’opera di Lauro de Bosis. Dagli anni trenta al 1981 prevale la fase dell’elogio all’episodio isolato di un solitario romantico-liberale senza conseguenze politiche di rilievo; dal 1981, grazie allo storico Spadolini, il volo diventa uno dei capitoli nella storia di una lunga, tenace resistenza che, nonostante le sue disfatte, non ebbe soluzione di continuità; e in cui il monito di Lauro insieme al “non mollare” di Giustizia e Libertà, al rifiuto dei pochi ma valorosi cattedratici di sottomettersi al regime e all’opera degli esuli, politici e uomini di cultura, costituì un punto di riferimento costante nel mondo occidentale e una ragione di speranza per gli oppositori del fascismo – pochi o molti – in Italia e fuori dai nostri confini.
Nelle pagine che seguono cercheremo di integrare, con dati finora inediti, i commenti di Gaetano Salvemini, Giovanni Spadolini, Sergio Fenoaltea, Mario Vinciguerra, Sandro Rogari sull’impresa di Lauro de Bosis.
 
Il volo su Roma
di A. C. d. B.
 
 
Lauro de Bosis concepì e decise il volo su Roma e il lancio dei messaggi al Re e al popolo italiano come l’adempimento di un preciso dovere morale e politico. Dovere morale, perché egli solo era rimasto libero dopo l’arresto e la condanna dei suoi compagni d’azione. Solidarietà dunque con Vinciguerra e Rendi condannati a quindici anni di carcere, solo per aver proposto il ripristino delle libertà statutarie, soppresse dalle cosiddette “leggi fascistissime” che avevano demolito lo Stato liberale nato dal Risorgimento. Dovere politico, perché occorreva dimostrare al regime che la lotta continuava nonostante la cattura di membri dell’Alleanza Nazionale; e rassicurare anche gli altri gruppi di oppositori, come ‘Giustizia e Libertà’ e più in generale gli antifascisti in esilio e in patria. Soprattutto occorreva che la grande stampa liberale europea, la quale aveva registrato non senza amarezza la condanna di Vinciguerra e Rendi, nel Dicembre 1930, riprendesse e rilanciasse l’eroico gesto di sfida che Lauro aveva in animo di compiere.
Lauro aveva appreso la notizia della condanna dei suoi colleghi il 1 Dicembre 1930, quando era ancora in navigazione dall’America verso Southampton, per rientrare poi in Italia. La sua decisione fu immediata. Bisognava continuare la lotta. L’accusa della propaganda fascista che lo dipinse come un disertore, indifferente al destino dei suoi compagni di lotta, esigeva una risposta. Come ricorda Salvemini, egli decise dunque di regolare il suo conto personale con il regime, con o senza l’appoggio dei fuorusciti antifascisti.
Il volo di Bassanesi su Milano fu certo un importante precedente di cui Lauro tenne conto nel progettare il volo su Roma. Vari scrittori hanno accennato anche ad un altro episodio più remoto che può averlo ispirato: il volo di D’Annunzio su Vienna, dodici anni prima, nel 1918, e il lancio di manifestini sulla capitale austriaca.
Ancora più struggente per Lauro il ricordo di un altro de Bosis aviatore: suo fratello Valente, che era stato decorato di medaglia d’argento con i Granatieri di Sardegna, in prima linea nel 1917, e che era poi passato all’aeronautica. Comandante di una squadriglia di idrovolanti antisommergibili a Palermo, Valente de Bosis, dopo numerose azioni di guerra, era precipitato nello specchio d’acqua della città siciliana. “Il tempo non lenirà il dolore” avevano scritto i suoi ufficiali sui resti dell’aereo, reliquie poi inviate a Roma, alla madre di Valente e di Lauro.
Sì, un gesto ardito si imponeva per Lauro: scriverà poi in Storia della mia morte: “Varrò più da morto che da vivo”.
La determinazione di Lauro ad attuare la sua beffa aerea si rivela anche nel suo rifiuto di tener conto dei consigli di esperti da lui consultati e che gli dettero un giudizio negativo sulle possibilità di riuscita dell’impresa. Egli aveva pensato ad una rotta aerea Francia-Roma-Corsica come progetto più valido. E nel Novembre 1930 egli si consultò circa la fattibilità del volo non solo con lo stesso Bassanesi, ma anche con un pilota americano, Eric Wilmer Wood, che Lauro aveva conosciuto negli Stati Uniti. La prudente risposta di Wood lo metteva in guardia dall’affrontare il rischio dell’impresa. Secondo Wood, il pilota dell’aereo (naturalmente l’amico non pensava che Lauro lo avrebbe pilotato personalmente, data la sua inesperienza), il pilota – dicevamo – avrebbe dovuto avere almeno 600-800 ore di volo a suo credito (Lauro ne avrà solo sette al momento del decollo), e non meno di duecento ore nell’anno precedente; e per quanto concerne il volo notturno si sarebbe dovuto trattare di uno dei migliori piloti europei, con lunga esperienza di volo strumentale. Wood consigliava anche – ben conoscendo l’obiettivo politico del gesto – di prendere il volo durante una giornata caratterizzata da annuvolamenti cumuliformi per poter scomparire e nascondersi dagli eventuali aerei da caccia. E Wood terminava consigliando di usare un aereo “anfibio” Lockheed-Vega oppure un Boeing da cinquecento cavalli.
Ma quegli aerei erano troppo dispendiosi per un esule isolato come Lauro che dovette perciò ripiegare su un tipo di apparecchio di seconda mano, che costava più o meno quanto il velivolo di Bassanesi: 45.000 franchi francesi. E volle ignorare del tutto il parere negativo (e saggio) dell’amico pilota; come pure i consigli della sua guida spirituale, Gaetano Salvemini. Lo storico pugliese era contrario al progetto: per l’altissimo rischio dell’impresa, data l’inesperienza di Lauro come aviatore, rischio di vedere un altro esponente della lotta clandestina cadere in un’impresa presumibilmente sterile di risultati politici. Era la stessa posizione di “Giustizia e Libertà”: e sta qui una delle principali differenze – pur tra varie analogie – fra il volo di Bassanesi e quello di Lauro. Il volo su Milano non fu il progetto di un individuo isolato: i migliori nomi dell’antifascismo in esilio, da Rosselli a Tarchiani, lo assistettero nella redazione dei manifestini, ben diversi come contenuto, dall’appello al Re e ai cittadini lanciati nel cielo di Roma. “Giustizia e Libertà” non considerava affatto valido, anzi del tutto inattuale il programma dell’ “Alleanza Nazionale” con il suo proposito di radunare intorno alla monarchia gli elementi liberali e conservatori. (E tuttavia si leggono con commozione le pagine che la stampa clandestina di “GL”, dedicò a Lauro dopo la sua scomparsa).
De Bosis proseguì dunque da solo il suo proposito. Prese lezioni di volo in Inghilterra. Con l’aiuto di pochi amici riuscì ad acquistare un piccolo velivolo. Concordò con un pilota inglese il trasferimento dell’aereo in Francia; la rotta più breve e più sicura, egli calcolava, sarebbe stata quella da Cannes alla Corsica, e poi da là su Roma.
Impressionato, come si è detto, dal successo di Bassanesi, Lauro riuscì a mettersi in contatto con un collaboratore del pilota lombardo, Gioacchino Dolci, che aveva preso parte al volo su Milano. In precedenza il giovane Dolci aveva altresì collaborato all’organizzazione della fuga da Lipari di Rosselli, Lussu e Fausto Nitti. Lauro si recò poi a ispezionare i luoghi più opportuni per il decollo. In Corsica visitò un’area pianeggiante sulla costa orientale presso la “Ghisonaccia”. Decise anzi che l’aviatore inglese avrebbe trasferito lui stesso l’aereo (un De Havilland Moth di otto cavalli, ben diverso, dunque, dal Lockheed di cinquecento cavalli che gli era stato suggerito dall’amico Wood) da Cannes alla Corsica. Lauro lo avrebbe preso in consegna alla Ghisonaccia. I manifestini dovevano essere stampati in una tipografia di fiducia a cura di un altro grande protagonista dell’antifascismo in esilio, con cui Lauro era da tempo in contatto: Don Sturzo.
L’appuntamento col pilota inglese è dunque fissato per l’11 Luglio 1931 al campo della Ghisonaccia. Lauro attende ansiosamente l’aereo e il suo carico di manifestini.
Ma il pilota sbaglia la manovra d’atterraggio, un’ala tocca il terreno, il velivolo si spezza. E, quel che è peggio, si perdono molti manifestini, che verranno poi sequestrati dalla polizia francese. Tutto da ricominciare. Scriverà poi Salvemini in Memorie di un fuoriuscito. “Occorreva una forza di volontà sovrumana per ricominciare da capo. Lauro ricominciò”. (Chi scrive ricorda ancora, incredibilmente, quel giorno di Luglio 1931. Bambino di cinque anni, giocava sul terrazzo di Piazza di Spagna, dove abitava la famiglia de Bosis. Un terrazzo con vista su tutta Roma, pieno di fiori, “un’isola felice”. Egli ricorda una sola frase della madre di Lauro: la nonna materna dello scrivente. Le era giunto un telegramma, lo lesse, disse soltanto: “È in Corsica”. Che cosa voleva dire la parola “Corsica”, evidentemente mai sentita da quel bambino? E come tanti incisivi eventi, quella frase si impresse indelebile nella memoria infantile: forse riallacciandosi al ricordo di uomini sconosciuti, col cappello in testa anche dentro la nostra casa, che erano venuti una certa notte di un anno prima, per arrestare i famigliari di Lauro).
Luglio-Ottobre 1931. Pochi mesi di febbrile attività per riorganizzare il volo su Roma. Fra le decisioni da prendere vi è la scelta del periodo ottimale per la trasvolata notturna. Ma Lauro pensò perfino ad un’impresa duplice e simultanea: un altro volo di Bassanesi al Nord congiunto col volo su Roma. E lo scrisse in segreto ad un amico liberale, l’avvocato Ferrari, uno dei pochissimi oltre Salvemini, Sforza, Ferlosio, Don Sturzo, con cui egli era in contatto: “…Capisco che questo (il duplice volo) complicherebbe le cose, ma si potrebbe all’ultimo momento fissare una data; se uno dei suonatori all’ultimo istante vede che non può, pazienza. Per la vigilanza, ormai sanno perfettamente quali erano le mie intenzioni su luogo, ora, percorso; sicché io credo che più vigilanza di così sia impossibile. La cosa non mi preoccupa; ma credo che se anche avvenisse un altro concerto a nord prima del mio non pregiudicherebbe le cose a mio riguardo più di quanto lo siano ora. Vede: mi tocca farlo quando non c’è luna, dalle 20 alle 21. Sicché o verso il 15 Agosto, il ché mi pare un po’ presto, o fra il 3 e il 15 Settembre”.
Giorni dopo questa lettera, Lauro s’incontrò con Bassanesi, in Svizzera o in Francia, e Bassanesi gli prospettò le grandi difficoltà che Lauro avrebbe incontrato per un volo tanto più lungo e difficile del percorso effettuato da Bassanesi stesso, dal Canton Ticino a Milano. Ma cercare di rimuovere Lauro, accumulando difficoltà su difficoltà, era tempo perso. “Non discutete il problema. Le difficoltà parleranno da sole”, così Churchill ammonì i suoi collaboratori prima dello sbarco in Normandia (come avrebbe sorriso, Lauro, con il suo sense of humour, di fronte a certi paragoni storici…).
Sulla preparazione, e soprattutto sulla ricerca del secondo apparecchio, occorre lasciare la parola a Franco Fucci, che nel suo libro narra con precisione di giornalista e di storico i particolari della vicenda. “…In Agosto e Settembre egli percorre in su e in giù la Germania; mantiene una fitta corrispondenza con i suoi amici, che impazziscono per inseguirlo con la posta nei suoi fulminei e continui spostamenti. È, di volta in volta, a Monaco, Friburgo, Lindau, a Garmisch, a Sciaffusa poi di nuovo a Monaco che è la sua base principale. Il 4 Agosto scrive a La Piana (professore ad Harvard): “…In Italia hanno capito subito che il pilota ero io dallo stile dei foglietti, perché tra questi esuli non ce n’è neppure uno che sia in speaking terms col Re. Salvemini se non altro approva [ma con quali critiche negative e inquietudini diffuse, l’abbiamo detto], ma gli altri preferirebbero vedere il fascismo continuare per cinquant’anni piuttosto che di vederlo finire con l’aiuto del Re…”.
“Verso la metà di Agosto – è sempre Fucci che scrive – “Lauro ha un contrattempo: un ritardo nella consegna dell’aereo, ormai acquistato a Monaco, un Klemm con nominativo D-1783. Il velivolo è di un modello che, per strana combinazione, la casa costruttrice ha battezzato “Pegasus”; proprio il nome che Lauro aveva scelto per l’aeroplano – qualunque esso sia – con cui compirà il volo su Roma. Il ritardo gli fa perdere l’ultima sera di Agosto senza luna…”.
Per varie circostanze la stampa dei volantini venne effettuata vicino a Ginevra e Lauro stesso li recò con sé a Marsiglia da dove – dopo i vari mutamenti di programma e soprattutto dopo l’incidente sul campo della Ghisonaccia – Lauro aveva deciso di decollare, non appena possibile, verso Roma.
L’aereo “Pegaso” gli venne effettivamente consegnato all’aeroporto di Marignane (Marsiglia) la mattina del 3 Ottobre 1931 dai due aviatori tedeschi, ex piloti di guerra, Hans Böhning e Max Rainer, dai quali lo aveva acquistato all’aeroclub di Monaco per la somma di 45.000 franchi (anche questo secondo apparecchio, superfluo dirlo, era “di occasione”, ma in condizioni soddisfacenti).
La notte dal 2 al 3 Ottobre, all’Hotel Terminus di Marsiglia, Lauro scrive Storia della mia morte. Il manoscritto, che egli invierà all’amico Francesco Ferrari a Bruxelles era destinato ad essere pubblicato, in caso di scomparsa dell’autore, dal giornale liberale belga “Le Soir”, secondo accordi presi con il redattore capo della testata, Auguste d’Arsac, che aveva entusiasticamente aderito alla iniziativa anticipando una parte della somma. Il liberalismo europeo non conosceva confini: la “buona battaglia” di Lauro era condivisa da questo autentico liberale belga. I due aviatori tedeschi avevano ricevuto l’ordinazione del velivolo da Lauro, che nascondeva la propria identità sotto il nome di William Morris. L’acquisto doveva servire – secondo l’acquirente – per un “volo pubblicitario” su Barcellona.
Franco Fucci ricostruisce nel libro su de Bosis le probabili cause della scomparsa del pilota. Insufficienza di carburante per un volo così lungo e per una “permanenza” aerea su Roma così prolungata, venti contrari che ne rallentarono notevolmente la velocità? Nessuno credette ad uno scontro con gli aerei da caccia predisposti dal regime. Un anno prima (Luglio 1930), subito dopo il volo di Bassanesi, il Capo della Polizia aveva chiesto e ottenuto l’intervento dell’aeronautica, negli aeroporti lungo il confine svizzero, per prevenire e respingere “incursioni” come quella effettuata su Milano: “Avvistato l’aereo sospetto ed esperiti gli ordinari mezzi tendenti a ottenere il pacifico atterraggio, il capo pattuglia farà una raffica di mitragliatrice a vuoto; se il primo avvertimento risulta inefficace, il capo pattuglia, con altra raffica, colpirà l’aereo sospetto in parti non vitali; se anche il secondo avvertimento non avrà pratici risultati, il capo pattuglia potrà abbattere l’apparecchio(…). Tutta la materia, comunque, dovrebb’essere… rigorosamente studiata sotto il triplice aspetto tecnico, giuridico e di polizia… anche per evitare… equivoci che potrebbero causare incidenti di natura internazionale e per perfezionare… questo primo rudimentale servizio di difesa aerea contro incursioni di criminali politici”. Così recita la richiesta ufficiale.
Quel 3 Ottobre, contro l’incursione del nostro “criminale politico” gli aerei da caccia ebbero, tardivamente, l’ordine di levarsi in volo. Presumibilmente, l’aereo “Pegaso” aveva già lasciato il cielo di Roma quando il comandante dell’aeroporto, informato dell’accaduto, ordinò in tutta fretta il decollo.
A quanto risultò più tardi, presero il volo gli aerei pilotati dagli ufficiali Aldo Pellegrini, Guido Bonini e Letterio Cannistracci. Il Maresciallo Italo Balbo – che Lauro nomina nella Storia della mia morte come “il mio amico Balbo” – conosceva e apprezzava i tre piloti. Essi erano stati accuratamente selezionati per la trasvolata atlantica dall’Italia al Brasile prevista per il 1932. Piloti esperti dunque. E Lauro ricorda, nel suo ultimo scritto, che la velocità dei loro apparecchi era circa il doppio di quella di “Pegaso”.
Ma le ricerche furono vane. Gli aerei da caccia rientrarono a Ciampino dopo essersi sospinti sullo specchio d’acqua dell’arcipelago toscano, a volo radente sul mare, anche per rintracciare l’eventuale relitto. L’aereo “Pegaso” era scomparso. Anche i tre ufficiali, anni dopo, come accadde all’aviatore solitario, caddero con i loro aerei. Aldo Pellegrini, divenuto Generale di squadra aerea, morì nel Dicembre 1940, in un incidente di volo. Il Colonnello Guido Bonini nel Marzo 1941, anche egli per un incidente. Il Colonnello Letterio Cannistracci cadde durante la guerra civile spagnola. Il Maresciallo dell’Aria Italo Balbo morì nel 1940, abbattuto dall’artiglieria antiaerea italiana, nel cielo di Tobruk, dopo una incursione aerea inglese su quella città.
 
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“Icaro cadde qui…” Così inizia un sonetto di Jacopo Sannazaro, che Lauro aveva incluso tra le liriche da lui pubblicate nell’antologia The Golden book of Italian Poetry (Oxford University Press 1930).
Lauro cadde qui, nel Tirreno. E a questo punto non ci resta che dare la parola ai testimoni del tempo. Primi fra tutti gli “storici di un giorno solo”, ossia i giornalisti che sui quotidiani di tanti Paesi dettero subito notizia del volo, nonché i diplomatici che dall’estero riferirono sulle reazioni della stampa locale. Subito dopo citeremo gli esponenti della Resistenza, i compagni d’arme che difendevano dall’esilio una “certa idea” dell’Italia, di un’Italia libera e del suo onore. Di idee e programmi d’azione diverse. “Marciare divisi, ma colpire uniti” ammoniva Salvemini.
 
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Che la stampa estera si sarebbe subito impossessata della notizia del volo del 3 ottobre, appariva ovvio alle autorità del regime: bastava raccogliere uno delle centinaia di migliaia di manifestini e il “pezzo era fatto”, anche se le congetture e le illazioni sull’autore potevano essere le più svariate. E così infatti scriveva al suo capo, un anonimo funzionario della Pubblica Sicurezza, in un “appunto riservato” del 4 Ottobre 1931, “anno IX dell’Era fascista”.
 
RISERVATO
Da fonte giornalistica estera:
 
“Nella mattina ho potuto constatare che la notizia del raid compiuto ieri su Roma dall’aeroplano che ha lanciato manifestini antifascisti è conosciuta da tutti i corrispondenti esteri e devo avvertire che alcuni di essi hanno deciso di lanciarla, questa sera per telefono, a Londra, Parigi, Berlino, mentre gli americani la telegraferebbero.
Il corrispondente dell’Agenzia ‘Patt’, Corecki, mi ha detto che all’Ambasciata di Polonia il fatto è biasimato e si dice che colui che lo ha compiuto deve essere un matto, sia per il rischio per il quale si è esposto, sia per il male che produce. Il servizio d’ordine disposto intorno al Palazzo Farnese è considerato come una conferma della supposizione che l’apparecchio sia venuto dalla Corsica. Waring, del ‘Daily Telegraph’, si esprimeva anche egli in senso ostile ai fuoriusciti, ai quali ormai tutti attribuiscono il proposito di tentare qualche nuova impresa con lancio di bombe. Alla Stampa Estera si diceva stamane che l’apparecchio misteroso, di colore bianco, di modello diverso da quelli italiani, volando a bassissima quota ed a lumi spenti, sarebbe passato sopra il Vaticano, il Palazzo Venezia, la Villa Torlonia ed il Quirinale. A Piazza San Silvestro sembrava che stesse per precipitare tanto si era avvicinato ai tetti dei fabbricati. Alcuni corrispondenti non sarebbero disposti a trasmettere la notizia. Ma se altri lo fanno, tutti si troveranno in questa necessità”.
E infatti tutta la stampa europea pubblicò subito notizie sul “misterioso volo”. Riportiamo qualche titolo. “Un avion mystérieux lance sur Rome des Tracts politiques” (Ere Nouvelle, Parigi); “Le raid clandestin sur Rome” (Heure); “Les aviateurs allemands dont l’appareil survola Rome vont être expulses de France” (Echo de Paris); “Il testamento di un eroe che va volontariamente alla morte”, (Duch Casu, giornale cecoslovacco); “La legende d’Icare renouvélee (Volonté, Parigi); “O poeta aviator De Bosis” (O seculo, Lisbona); “British plane is chased over Rome” (Daily Herald, Londra), quando per un momento si credette che l’aviatore fosse un certo Sir Morris, o Maurice, come Lauro aveva fatto credere ai due aviatori tedeschi che lo avevano assistito. “Chi ha bombardato Roma con manifestini antifascisti?” “Il misterioso ‘Sir Morris’ o un asso italiano dell’aria?” si chiedeva il 6 Ottobre l’Agenzia Reuter; “Antifascist leaflets addressed to King” (Manchester Guardian). “Identificato l’uomo che ha ‘bombardato’ Roma” (Morning Post); “Un titolato inglese in un volo spettacolare su Roma”. “Search for Lauro de Bosis” (Manchester Guardian).
Fin nella remota Riga il volo fu seguito come un eccezionale avvenimento. Il quotidiano in lingua russa “Segodnja”(Oggi) pubblicò la notizia. A Sofia il giornale “Narod” scriveva: “De Bosis non ha voluto rimanere vivo dopo il suo atto eroico per non essere poi trascinato davanti ai tribunali come è avvenuto per Bassanesi? “Der Flieger über Rome”, scrive la “Kölnishe illustrierte Zeitung”.
E finalmente, quando apparve l’intero testo del suo testamento spirituale dal titolo Storia della mia morte su “Le soir” di Bruxelles e poi sul “New York Times”, tutta la stampa europea, chiarito il mistero, dedicò amplissimo spazio all’impresa: “The story of my death” (Times, Londra); “Die Geschichte meins todes” (Der Abend, 16 Ottobre 1931); “Il Testamento dell’aviatore della libertà Lauro de Bosis” (Munchen Post, 20 Ottobre 1931).
Quasi si direbbe che la grande stampa europea scorgesse nel gesto di Lauro una nota “rassicurante”: perché dimostrava che vi erano ancora persone disposte a rischiare la vita per la libertà in pericolo, non solo in Italia ma anche in Germania, dove, nemmeno due anni dopo, Hitler sarebbe andato al potere.
Sull’identità dei due aviatori tedeschi che consegnarono l’aereo a Lauro, è interessante leggere quanto riferì a Roma il Console Generale a Monaco, Guerrini Maraldi:
 
R. Ministero dell’Interno
Direz. Gen. della P.S.
 
R. Ministero degli Esteri
Ufficio STAMPA
R O M A
 
per conoscenza:R. Ambasciata d’Italia BERLINO
 
Oggetto: Notizie circa volo aviatore sconosciuto su Roma.
 
Riferimento: Telegramma R. Ministero dell’Interno n. 28022 del 7 corr.
 
La “München Telegramm Zeitung” del 6 corr. riportava la notizia che nel volo misterioso compiuto su Roma sabato decorso da ignoto aviatore erano rimasti implicati, sebbene involontariamente, due aviatori di questa città, il signor Hanz Böhning ed il signor Max Rainer, i quali avevano pilotato l’apparecchio, acquistato dal presunto suddito inglese Morris in questa città, fino a Marignano (Marsiglia).
Nell’intento d’appurare quanto di vero vi fosse in tale notizia, mi rivolsi subito al signor Heiler, ex maggiore dell’esercito germanico, da lungo tempo da me favorevolmente conosciuto, ora direttore generale di questo aeroporto, il quale mi fornì le seguenti informazioni:
“Nel decorso Settembre, certo signor Morris, spacciatosi per suddito inglese, che aveva preso alloggio all’Hotel Bayerischer Hof di questa città, entrò in trattative con questo aeroclub per l’acquisto di un aeroplano. Gli fu offerto l’apparecchio Klemm D.1783 per il prezzo di 8.000 marchi, che l’aeroclub aveva poco tempo prima acquistato per la somma di 7.000 marchi da una nota fabbrica di aeroplani d’Augusta andata in fallimento. Il signor Morris che nel frattempo, allo scopo di poter eseguire voli con minor spesa, si era fatto socio temporaneo di questo club, si dimostrò soddisfatto dell’apparecchio e senz’altro pagò l’importo richiestogli. Dichiarando inoltre che l’aeroplano gli sarebbe servito a scopo di propaganda commerciale, pregò che all’apparecchio fosse applicato un migliore sistema di illuminazione ed uno speciale ordigno che gli permettesse il lancio, con maggiore facilità, di foglietti propagandistici. Ad operazione compiuta l’apparecchio avrebbe dovuto essergli portato a Cannes, poiché egli doveva ripartire subito in ferrovia.
Il signor Böhning ed il signor Hans Rainer, dietro compenso delle spese da parte del Morris, partirono il 22, senonché furono costretti ad atterrare a Ginevra per difetto di motore. Ritornarono a Monaco di Baviera, da dove ripartirono il 2 Ottobre pilotando l’apparecchio fino a Cannes, ove l’aeroplano – sempre secondo quanto mi è stato raccontato – fu regolarmente consegnato al Morris.
Circa il Böhning ed il Rainer, già piloti di guerra ed attualmente soci di questo aeroclub, ho potuto sapere che sembrano persone aliene dalla politica, piuttosto interessate a far danari essendo sprovvisti assolutamente di mezzi di fortuna. Il Böhning – mi disse il magg. Heiler – è persona assai poco benvoluta in questi ambienti aviatori per il suo carattere litigioso e per la sua indisciplinatezza. Più volte è stato ripreso dal club per aver eseguito voli senza autorizzazione e senza le carte di bordo in ordine. Nient’altro mi è stato possibile conoscere – anche dietro informazione di altre persone – circa le loro tendenze politiche. Mi è stato però decisamente assicurato che i due sunnominati fossero in buona fede e completamente all’oscuro delle intenzioni del Morris e della sua reale identità. Sembra che i due piloti abbiano ricevuto come compenso duecento marchi.
Non sono riuscito ad appurare se il presunto Morris fosse effettivamente in possesso di un passaporto inglese intestato a tale nome. Devo presumere però che egli lo fosse, ad evitare che nel corso delle trattative per l’acquisto dell’aeroplano e per poter divenire socio dell’Aeroclub, potesse, se richiesto dei suoi precisi documenti personali, destare sospetti.
Unisco alcuni ritagli di giornali nonché tre fotografie, che sono riuscito a procurarmi mediante uno stratagemma e che – per ragioni intuibili – sarei a pregare di tenere colla massima riservatezza, evitandone la pubblicazione. Nessun’altra traccia – a quanto mi risulta almeno a tuttora – è stata lasciata dal presunto Morris. Continuo tuttavia colla massima discrezione”.
 
Ben dodici anni dopo, in piena guerra mondiale, “The Times Literary supplement” di Londra, in un articolo dedicato agli eroi dell’aviazione mondiale, da Blériot ai piloti da caccia della battaglia d’Inghilterra, così concludeva la sua rievocazione: “Non tutta l’Italia ha dimenticato la libertà… Nell’attuale guerra d’idee le frontiere nazionali esistono solo come distinzioni geografiche. Questa è una guerra civile e la RAF in occasione del suo anniversario può annoverare nella sua ideale brigata internazionale… un nobile giovane poeta e aviatore italiano, Lauro de Bosis, uno dei primi nella Resistenza alla minaccia contro l’Europa, che nell’Ottobre 1931 partì da Marsiglia in aereo per diffondere parole di libertà su Roma; e di cui nessuno seppe più nulla… Fintanto che la causa della libertà produrrà uomini di questa tempra che dedicano la loro fede e il loro coraggio contro l’incommensurabile malvagità dei tiranni, la liberazione della civiltà e il trionfo della pace sono garantiti. Essi non hanno bisogno dell’aureola della leggenda per far meditare gli uomini: il nudo resoconto delle loro gesta ispira le menti alla risoluzione”.
Così il Times, in piena guerra, include un italiano, di un Paese nemico, tra gli eroi dell’aviazione: caduto in difesa della libertà, come i “così pochi” nell’autunno 1940 contro gli aerei nazisti demolitori di Coventry e di Londra.
Aggiungiamo, tra le ironie della storia, che il Comando della polizia fascista, venuta a conoscenza di quest’articolo, e credendo di capire che Lauro fosse ancora vivo, diramò ordini segreti affinché lo si ricercasse in patria o all’estero, “essendo egli probabilmente emigrato in Inghilterra e arruolatosi. nella RAF” (sic).
L’articolo del Times apparve nell’Aprile 1943, tre mesi prima della caduta di Mussolini con il concorso del Re, che Lauro aveva prefigurato fin dal 1930.
 
 
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Hanno dunque parlato i giornalisti del mondo occidentale. Ma quali furono le reazioni degli amici di Lauro, dei testimoni a lui piu vicini? L’onore di essere il primo a parlare spetta a Mario Vinciguerra, che languiva da un anno in carcere quando Lauro volava su Roma. Mario Vinciguerra “sentì” nel suo spirito che Lauro era accorso in volo anche per testimoniare, fino al supremo sacrificio, la sua solidarietà con l’amico di “Allenza Nazionale di Libertà”. Il volo di Pegaso doveva significare al prigioniero, a lui e a Rendi, che Lauro era loro fisicamente e idealmente vicino.
E prigioniero, lui, l’eminente giornalista del “Mondo”, lo fu per due volte. Amnistiato dopo otto anni di carcere, nel 1938, venne nuovamente arrestato insieme alla figlia Claudia allora ventenne, nel 1943 a Milano: perché Claudia – buon sangue non mente – fu trovata dalla polizia mentre recava stampati antifascisti da Milano a Firenze. Liberati dopo il 25 Luglio, Mario e sua figlia, inutile dirlo, continuarono la lotta clandestina durante l’occupazione tedesca. Aveva ragione Lauro quando scrisse, di Vinciguerra e dell’Alleanza Nazionale: “Siamo in pieno Risorgimento”.
Ecco cosa seppe dire Mario Vinciguerra rievocando il suo amico e compagno di lotta:
“Sono diciassette anni come oggi che la più audace, più generosa e più poetica avventura dell’antifascismo si svolse, nel vespero cristallino del 3 ottobre 1931, col volo di Lauro de Bosis su Roma. Ma quell’avvenimento, prima di presentarsi al pubblico internazionale nel suo aspetto poetico e avventuroso, fu un cocente tormento e un turbinoso dramma nello spirito del suo eroe”.
“Questo è stato poco inteso fino adesso, per due ragioni: perché in genere, nel considerare la vita di Lauro, persone che gli furono vicine hanno amato soffermarsi su atteggiamenti della prima giovinezza, fatalmente influenzata dalle tendenze estetizzanti dannunziane, che dominarono i primi anni di questo secolo; e perché la politica organizzata dal governo onnipotente fece discendere una cappa di silenzio su tutta l’ultima parte della vita di Lauro, rendendo quasi impenetrabili le ragioni che lo determinarono all’ultimo atto”.
“Il vero è che Lauro de Bosis, che era stato precocissimo, si trovava sulla via di un processo di svolgimento e approfondimento delle ideologie carezzate nei primi anni, quando si presentarono davanti alla sua coscienza, in forma imperativa, i problemi della vita civica, ai quali fino al 1924 circa, aveva dato poca attenzione, assorbito dalle visioni ed ambizioni poetiche”.
“Fu la grande sorpresa e l’angosciosa rivelazione non solo per lui, ma per tanti suoi coetanei, vissuti fino allora come in un cielo di sogno”.
“A queste esigenze, politiche ed etiche insieme – quali gli si presentarono col delitto Matteotti e sue conseguenze – egli rispose secondo il suo temperamento, poetico e cavalleresco”.
“Allontanatosi dall’Italia si recò negli Stati Uniti, ed ivi per un paio d’anni s’illuse di poter fare una propaganda culturale italiana, fingendo di non conoscere la politica del governo italiano. Ma posizioni di questo genere sono insostenibili per un’anima retta e leale. Egli tornò in Italia nella primavera del ’30, deciso a cambiare strada definitivamente, ad entrare direttamente nella lotta politica. Egli si era persuaso ormai che un mondo poetico estraneo alla vita sociale è un’astrazione arcadica, un nascosto egoismo o una nascosta viltà; e che dove non c’è libertà di coscienza non c’è neanche poesia”.
“Con questi convincimenti si gettò nella lotta, in cui impegnò il fuggevole, ma luminoso resto della sua vita, creando d’incanto intorno a sé una atmosfera tra l’inno e il romanzo d’avventure, in cui si mossero gli amici, che egli attrasse intorno a sé in quei mesi. Colui che è sopravissuto sente il dovere a questo punto di collocare accanto al ricordo di Lauro quello di Renzo Rendi, che anche lui non è più, dopo avere molto sofferto con alta dignità, senza pentimenti e senza rinunzie”.
“Cosa si proponeva quel gruppo di amici? Ora è più facile dirlo in sintesi, perche Franco Antonicelli, animatore della casa editrice De Silva, e che ha creato la collana di memorie storiche della resistenza intitolata a Leone Ginzburg, proprio in questi giorni ha fatto apparire in essa i documenti di quell’episodio storico e le ultime fiammanti lettere di Lauro, insieme con le pagine scritte alla vigilia del volo, Storia della mia morte che danno il titolo al libro. La genesi della vicenda è lucidamente narrata nella prefazione di Gaetano Salvemini”.
“Lauro e gli amici si proponevano non di costituire un altro partito, ma di raccogliere intorno alla bandiera dei diritti civili e delle libertà costituzionali tutti i ceti e gli ordini che potessero esercitare una azione efficiente”.
“Per dire tutto in poche ed efficaci parole, mi avvarrò di quelle di Croce, il quale, interpellato, ebbe a dire che, al punto in cui stavano le cose, bisognava cercare di raccogliere tutte le forze sulle quali, sia pure in via ipotetica, si potesse contare per la liberazione dal fascismo”.
“Facili critici, quando sulla fine del 1930 gli amici di Lauro furono travolti in un processo, e, poco dopo, Lauro fu inghiottito dalle acque, dissero con un sorriso di commiserazione che il progetto di Lauro era pur sempre della poesia, e che era un sogno pensare di mettere insieme laici liberali e democratici, militari, aderenti al distrutto Partito popolare e dell’Azione Cattolica”.
“Ebbene, guardando a quello che è avvenuto dopo, bisogna dire che la Storia ha avuto il capriccio di dare ragione ai poeti; poiché, quando è venuto il momento della stretta finale, nella fatale estate del 1943, l’unica via d’uscita, in quel momento, è stata quella disegnata nel programma dell’Alleanza nazionale; e gli elementi che teoricamente parevano ripugnassero, operarono insieme, sotto la spinta della necessità comune, per liberare la strada dall’immane sasso, e ridare via libera al paese”.
 
“Io non so se, in quella tragica ora in cui giunse al colpo di stato, Vittorio Emanuele III abbia pensato al programma dell’Alleanza nazionale, e soprattutto all’ultimo disperato appello di Lauro a lui lanciato coi manifestini dall’aeroplano nell’ottobre 1931. Se ci pensò, mi pare impossibile che un gelo non abbia percorso le sue vene, considerando quella nobile giovinezza perduta, e il troppo tardivo ricorso a quelle idee e progetti, che minacciava ormai di sterilità e di rovina la loro attuazione da parte della Monarchia”.
“Così quel breve episodio che il governo del tempo crede’ di avere annegato nell’oblio, riappare ora nelle sue giuste proporzioni, e nel suo valore storico, oltre che umano”.
Mario Vinciguerra
 
Venti anni dopo, Sergio Fenoaltea – uno dei più strenui animatori della lotta di liberazione nella Roma occupata dai nazisti, e poi Ambasciatore a Washington e Senatore della Repubblica – così scriveva acutamente sui tre successivi messaggi personali inviati al Re Vittorio Emanuele, da tre esponenti della Resistenza: Giovanni Amendola, poi Lauro de Bosis, infine Carlo Sforza: “…Il messaggio di Lauro era il secondo solenne avvertimento alla monarchia. Il primo fu un celebre articolo di Giovanni Amendola, allora capo dell’opposizione costituzionale al fascismo, apparso su ‘Il Mondo’, se ricordiamo esattamente, nel 1925. Il giornale fu naturalmente sequestrato: ma nell’articolo si prevedeva il sequestro, e si diceva: ‘A noi importa che questo articolo abbia un solo destinatario’. Amendola avvertiva il sovrano che, rinnegando il patto statutario e facendosi complice del fascismo, la monarchia segnava la propria condanna. Il terzo messaggio al Re fu la lettera di Carlo Sforza, del Giugno 1940 quando, nel pieno del trionfo hitleriano, egli avvertì Vittorio Emanuele che firmare la dichiarazione di guerra – di una guerra che, malgrado tutto, le democrazie avrebbero vinto – era firmare il suicidio della monarchia sabauda. Fra l’uno e l’altro, il sublime avvertimento di Lauro de Bosis, che per darlo affrontava la morte”.
Ricordiamo che esattamente cento anni prima, nel giugno 1831 – accennarlo non significa paragonarlo – un altro patriota italiano, Giuseppe Mazzini, indirizzava a Carlo Alberto, bisavolo di Vittorio Emanuele III, un messaggio-avvertimento. La “lettera di un italiano”, anch’essa rimasta inevasa, anch’essa profetica di un “risorgere” della libertà: diciotto anni dopo.
Perché Lauro decise di volare su Roma, con la minaccia – fra le altre – di essere intercettato e abbattuto dagli aerei da caccia di Balbo? La risposta ce la dà Lauro stesso. L’idea del volo come rivincita e come dimostrazione al regime che la lotta continuava; quell’idea era divenuta per lui “un’ossessione”, come il Capo Horn per l’olandese volante, aveva scritto. E poi, perché andare a cercare oggi, con il metodo dello psicoanalista, i motivi reconditi dell’azione eroica di un uomo solo?
Chi spinse, vent’anni dopo, Solzenitsin a sfidare da solo il regime dei gulag?
Chi, che cosa, indusse Luciano Bolis, prigioniero dei nazisti durante la resistenza di Genova, a cercare la morte per non cedere alle torture e poi a recidersi le corde vocali “perché non riuscivo a morire”?
Chi, che cosa spiega la sfida di Jean Moulin – capo della Resistenza francese – che chiede una matita ai suoi torturatori, perché non può più parlare dopo i giorni di tormenti continui, non già per scrivere i nomi dei colleghi clandestini, ma per tracciare uno schizzo del capo torturatore, rassomigliante a un maiale, venendone poi ucciso subito dopo?
Chi, che cosa indusse i martiri del Risorgimento a dire “tirem innanz” verso il patibolo?
E perché Pertini, evaso dal carcere di Regina Coeli e poi libero dopo l’arrivo degli alleati, decide di passare le linee e tornare in territorio occupato dai tedeschi, al Nord, per continuare la lotta?
Perché Edgardo Sogno, medaglia d’oro, lascia anch’egli l’Italia libera per dirigere al Nord la banda Franchi ed essere catturato dai nazisti mentre, vestito da SS, cercava di liberare i capi partigiani?
E infiniti altri eroi – non vi è altro nome che questo – militari e civili rifiutarono la vita per quest’idea d’onore, che “detta dentro” il suo comando implacabile.
Perché i giudici Falcone e Borsellino e tanti altri che sanno tutto sulla mafia e perciò sanno anche di essere condannati a morte, perché resistono, perché non si fanno trasferire nelle retrovie? Come Lauro, anche loro avrebbero potuto scrivere Storia della mia morte, lasciando in bianco solo la data… “Varrò più da morto che da vivo”, scrive Lauro, nello stesso testo in cui si domanda perché nel Risorgimento tanti giovani sceglievano la lotta e la morte, mentre “oggi sono così pochi”. Forse perché si pensava che il Fascismo fosse un fenomeno passeggero e che l’eterno trasformismo italiano avrebbe finito alla lunga con il mitigarlo, renderlo democratico.
Non è vero, egli ammoniva. Il fascismo va preso sul serio, per quello che è. E ne prevedeva anche l’avvio ad una politica di riarmo e di aggressione. Non poteva nel ’31 prevedere l’insorgere del nazismo. Ma guerre e aggressioni non furono proprio il contrassegno del fascismo e del nazismo, dal 1935 al 1941?
Del resto il suo commento alla condanna fascista di Vinciguerra (“è una tragedia, ma la lotta deve continuare con fede incrollabile, fino alla vittoria”) non ricorda forse la sua poesia: “Ciascun mattino sugli azzurri monti…” scritta a vent’anni e che conclude con una nota di incoraggiamento: “cosa t’importa se a soffrir sei tu? Trionfa altrove un’altra gioventù”. Poesia che rievocherà poi, commosso, il suo maestro Gaetano Salvemini.
Severità del dovere. Del dovere fino in fondo, del dovere come conseguenza ineluttabile dell’impegno di responsabilità personale, non delegabile a nessuno. L’atto di Lauro è dunque perfettamente coerente alla sua psiche. Uomo di cultura risorgimentale vedeva nel fascismo il tradimento dell’etica e dello Stato risorgimentale, che è libero oltre che indipendente. Scrittori liberali hanno ammonito nei decenni scorsi a non confondere questi due valori. Fenoaltea citava Cuba e la Romania comunista come Paesi indipendenti sì ma non certo liberi. E il Risorgimento aveva dato all’Italia uno Stato-Nazione libero. Sessantacinque anni dopo non lo era più.
Occorreva dunque rimediare al più presto a questa contraddizione lottando contro un regime che – adoperando le parole di Orwell ante litteram – assicurava i giovani che “Nel fascismo è la salvezza della nostra libertà”. E contro una propaganda che esaltava le “opere del regime”, Lauro dimostrò con i fatti il rigoroso monito di Pertini che non si può parlare di progresso sociale se il prezzo da pagare per conseguirlo è la rinuncia alla libertà.
De Bosis – Solzenitsin – Luciano Bolis – Jean Moulin – Palach – chi di loro poteva illudersi che il sacrificio personale di ognuno avrebbe portato alla disfatta della tirannia? Nessuna illusione. Ma un dovere da compiere comunque: portare testimonianza della propria fiducia nel proprio Paese “che può essere tuo solo se è anche patria di libertà”. La loro vita stessa si identifica con questo dovere. Ecco perché la Storia della mia morte diventa in realtà “La storia della mia vita”. La vita di Lauro si riassume in quel volo verso la morte.
Ma Lauro aveva l’abitudine all”‘understatement”: forse per controbilanciare la drammaticità degli autori con cui si era misurato, traducendo “Edipo Re”, “Antigone” e scrivendo “Icaro”. Quell’understatement che gli fece dire: “Questo mio gesto dovrà essere considerato dai miei connazionali solo come un piccolo atto di spirito civico…”. Poco più che una buona azione da boy scout? Così scrive Lauro nel suo ultimo messaggio.
 
*****
 
Sì, lo stato d’animo di Lauro, dopo la condanna degli amici Vinciguerra e Rendi è di profondo dolore, ma al tempo stesso di fredda determinazione a continuare la lotta. Lo dice in una lettera del 20 Gennaio 1931: “… quando si è impegnati in battaglia, l’unica regola è quella di combattere il più duramente possibile nonostante il dolore e l’infelicità che ne derivano… Nell’ultima guerra abbiamo perso seicentomila vite per liberare due province. Oggi si tratta di liberarne novantatre… Il dolore di una dozzina di persone vicine a noi è cosa tragica, ma la causa che abbiamo fatta nostra (non senza successo) coinvolge la felicità di 42 milioni di persone. Il prezzo non appare sproporzionato… Dio sa – prosegue Lauro – la mia angoscia di essere libero e di non esser stato processato invece degli altri… Sì, il dolore dei nostri amici è terribile ma quello di milioni di italiani è ancora più terribile… Il mio cosiddetto ottimismo non deriva certo dal fatto di essere meno sensibile di altri al dolore dei miei amici, lo sa Dio: ma dal fatto di essere immerso nel dolore del Paese. Guardo perciò le cose con gli occhi del soldato il quale è così intento a dare il meglio di sé nella lotta che non ascolta pienamente il lamento dei suoi compagni caduti o dei suoi cari… La battaglia è appena iniziata e coloro che sono caduti oggi avranno più grande gloria e felicità domani…”.
Ritorna poi sulla sua assenza da Roma durante il processo dei suoi amici: “… Se tu sapessi il mio tormento, la mia invidia. Se fossi rimasto a Roma forse sarei apparso da solo al processo e vi avrei fatto una buona figura. Certo è facile oggi dire quale terribile errore fu lasciare Roma (e nessuno lo rimpiange più di me) ma la gente non sa che era necessario per me andare in America, non solo per la Società (Italy-America, di cui era Segretario esecutivo) ma anche per ottenere un posto senza il quale mi sarebbe stato assolutamente impossibile continuare il mio lavoro in Italia… E comunque l’Alleanza Nazionale va avanti… Dunque, quando parlo di pace non intendo certo indifferenza nei riguardi del dolore degli altri, ma guardare al futuro con fermezza e fede incrollabili…”.
E più tardi, sullo stesso tema: “… L’Alleanza Nazionale trionferà, alla fine, anche senza di me, forse senza che il mio nome venga menzionato, o menzionato solo per essere condannato… Ma questo mi è perfettamente indifferente: sarà stata una di quelle battaglie perdute, ma che solo per averle combattute assicurano la vittoria finale. Che più potrei sperare?”.
Hanno parlato i testimoni di quei giorni. Di essi, il più illustre, Gaetano Salvemini, così commentò, da par suo, il gesto di Lauro, anche alla luce del suo credo politico, e dell’influenza esercitata sul giovane patriota dalle esperienze familiari. Egli scriveva, in occasione della prima pubblicazione di Storia della mia morte, nel 1948, citata da Giovanni Spadolini all’inizio di questo volume.
 
Gaetano Salvemini
su Lauro de Bosis
 
 
Adolfo Lauro de Bosis nacque, ultimo di sette figli, in Roma il 9 dicembre 1901, da Adolfo de Bosis e Lillian Vernon.
Il padre fu uomo di nobile cultura e d’alto sentire. Si debbono a lui versi e saggi critici di vigore e signorilità non comuni. Tradusse stupendamente le Liriche, I Cenci, e il Prometeo Liberato di Shelley, frammenti di Omero e poesie di Walt Whitman. Nella rivista da lui diretta, Il Convito, che uscì in dodici fascicoli dal gennaio 1895 al dicembre 1897, Carducci pubblicò La Canzone di Legnano, d’Annunzio Le vergini delle Rocce, Pascoli alcuni dei suoi migliori Poemi Conviviali. La sua casa fu convegno a quanto di meglio la intelligenza italiana e non italiana contò in Roma fra il 1890 e il 1920: poeti, pittori, musicisti, scienziati, critici, giornalisti, uomini politici.
Pubblicando nel 1922 la traduzione del Prometeo Liberato di Shelley, scrisse nella dedica:
Ed ora a te, Adolfo Lauro, figlio mio! Pur dedicata a tua madre, questa traduzione ti appartiene: perché io sono lieto di pubblicarla unicamente per rendermi a un tuo desiderio. Come si può resistere a una domanda lampeggiata dagli occhi tuoi? Tu dunque va e portala ai vivi, tu giovinetto.
Nel 1924, in una nota alla quarta edizione delle sue rime Amori ac Silentio, respinse il rimprovero di aver ceduto “a un certo andazzo di poesia democratica o socialistica in voga al declinare dell’Ottocento”:
Così avessi fiato pari al mio animo veemente per inalzare pur sempre il mio verso in grido di protesta e d’indignazione contro tutte le insolenze, contro tutte le iniquità, per la difesa e per la elevazione degli umili, per salutare le fide cittadinanze ideali… che i poeti cercano, con indefettibile animo, dalle altezze dei loro sogni! Non è questa fede la lampada commessa alle loro mani, alla quale, sola, si riconoscono? Giungerà ella a rischiarare la tenebra?
Morì il 28 agosto 1924, dopo crudele malattia, con stoicismo eroico.
La madre di Lauro apparteneva a una famiglia americana di origine inglese, che dal New England aveva proceduto verso il Middle West al tempo dei “pionieri”. Era figlia di un ministro protestante che fondò la Chiesa Metodista Episcopale in Italia. Era vissuta in Italia fino dalla infanzia.
La casa paterna fu la migliore scuola di Lauro e contribuì più che ogni altra influenza alla formazione della sua vasta coltura e della sua solida struttura morale. Studiò chimica all’Università di Roma, dove si laureò nel 1922. Ma la poesia, la filosofia e la critica letteraria erano le sue vere passioni. Era buon grecista. La sua traduzione dell’Edipo Re di Sofocle fu rappresentata nel 1923 allo Stadio del Palatino, e l’anno seguente fu data alle stampe.
Gli anni formativi della sua adolescenza videro la prima guerra mondiale (1914-1918) e quella crisi di smarrimento che aprì la via al trionfo di Mussolini (1919-1921). Lauro seguì con simpatia la prima fase del movimento fascista. La città di Roma, in cui viveva, era immune dalle forme più bestiali del fascismo, i giornali non ne parlavano o attribuivano tutte le responsabilità ai “sovversivi”, ed era facile a un giovane inesperto non vedere nel fascismo che un risveglio del sentimento nazionale offeso. Ma non prese mai parte attiva in quel movimento. La politica non lo interessava. Gli studi lo assorbivano intero. D’Annunzio era allora l’idolo della gioventù. Lauro ne subì la influenza. Quando se ne liberò, soleva dire di quello che chiamava il “cimurro dannunziano”: “Ce lo leveremo d’addosso, ma ci vuole tempo”.
Sempre in quegli anni ebbe qualche accenno di curiosità, più che di fede, religiosa. Ma ben presto cessò in lui anche quella curiosità. Si sentì parte di un “ordine cosmico” nel quale la vita doveva essere accettata con tutti i suoi conflitti, i suoi dolori, le sue gioie. Questa visione del mondo, della vita e dell’umano destino è consegnata in una poesia che fu ritrovata nelle sue carte dopo la sua morte, e che a me sembra assai bella:
 
Ciascun mattino sugli azzurri monti
Ebbre di luce balzano le aurore.
Ciascun mattino i mari, i laghi, i fonti
Rispecchiano il novissimo splendore.
 
Ciascun mattino mille vivi cuori
S’empion di gioia alla novella luce.
Ciascun mattino nuova forza adduce
Novelli canti e più novelli amori.
 
Dunque, fanciullo, sta sereno e pensa
Che i tuoi tormenti e la tua gioia frale
Son le pallide note di un’immensa
Sinfonia che trascende il bene e il male.
 
Indifferente alle tue poche pene
La Natura prosegue il suo cammino.
Canta la sera e canta sul mattino
E in un inno compone il male e il bene.
 
Ascolta, ascolta il suo canoro andare,
Piaciti di sue note or bianche or nere,
Gli uomini sono i flutti del suo mare,
La tristezza è sorella del piacere.
 
Cosa t’importa se a soffrir sei tu?
Trionfa altrove un’altra gioventù.
 
In politica era “liberale” come Croce, nel senso che la parola aveva allora in Italia, cioè era un conservatore dell’Italia quale era stata creata dal Risorgimento. Accettava i diritti personali e politici dei cittadini e le istituzioni rappresentative e la indipendenza del governo secolare della Chiesa. Nell’atmosfera di un regime libero tutte le riforme e trasformazioni politiche e sociali erano accettabili, purché volute dalla maggioranza e promosse per vie legali.
Croce prese posizione netta contro il fascismo solo nel 1925, dopo che Mussolini “era andato troppo avanti”, demolendo ogni reliquia delle libertà costituzionali italiane. Lauro stesso, nel 1931, nella prefazione all’opuscolo sulla “Alleanza Nazionale”, indicò il 1925 come l’anno critico della politica italiana.
Alla fine del 1924 – a ventitrè anni – chiamato dalla società “Italia-America” di New York, visitò per la prima volta gli Stati Uniti e vi fece conferenze su soggetti di letteratura, storia e filosofia. Parlava correttamente l’inglese, era attraente, di maniere semplici e raffinate. Ebbe un grande successo. D’allora in poi passò sempre parte del tempo in America. Nell’estate del 1926 insegnò lingua e letteratura italiana nel corso estivo di Harvard. In quegli anni pubblicò in forma abbreviata la traduzione dell’opera famosa di J. G. Frazer, Il Ramo d’oro, sulla magia e religione dei popoli primitivi (1925); e poi le traduzioni de La vita privata di Elena di Troia di J. Erskine (1928) e di Il ponte di San Luis Rey di T. Wilder (1929).
Negli Stati Uniti, meglio che se fosse vissuto in Italia, Lauro non poteva non aprire gli occhi al significato di quanto avveniva in Italia. Gli scritti più seri che si pubblicavano in America sull’Italia, e le conversazioni con persone assennate e moralmente integre gli rivelavano che il fascismo invece di essere unanimemente ammirato fuori d’Italia, come si faceva credere alla ignara gioventù italiana, era oggetto di disprezzo quando non faceva ridere.
La traduzione dell’Antigone di Sofocle, pubblicata nel 1927, è in lui il primo indice del passaggio all’antifascismo militante. Antigone, che Lauro ha prescelto per il suo lavoro, vìola la legge scritta per obbedire al comando della legge morale.
Al 1927 appartiene anche Icaro, la sola completa opera poetica che rimanga di lui. Nessuna influenza dannunziana in questo poema. Nessuna traccia del provincialismo sgonfione, volgare e selvaggio, che dominava nel pensiero fascista allora. Lauro ha definitivamente scelto la sua fede e la proclama senza veli.
Icaro e suo padre, Dedalo, sono schiavi di Minosse. Dedalo ha scoperto il ferro, e con questo assicura a Minosse la dominazione del mondo. È il tecnico che bada solo alla sua arte. Vive in solitudine, non ha fede negli uomini, vorrebbe uscire di schiavitù, ma non pensa che a se stesso: “che so io di tiranni e libertà?” Icaro è il poeta che sogna un mondo nuovo di uomini liberi ed eguali, e intende operare per raggiungerlo. La spada, che suo padre ha regalata al tiranno, egli avrebbe voluto brandirla per liberare il popolo.
Dedalo costruisce le ali per volare: lui e suo figlio potranno sfuggire alla servitù e tornare liberi nella loro patria. Icaro ha una mira più vasta:
 
Il nuovo
mondo che sorge senza ceppi e senza
vincoli di muraglie e di frontiere,
uno ed uguale per gli uguali, libero
per i liberi, che accerchia le diverse
genti, sfatte dall’odio, in una sola
 
azzurra patria, luminosa e immensa:
il cielo, o Fedra, il cielo, ecco il mio regno!
 
– E se si frangon l’ale?
– Quando si corre a un buon cimento, sfuma
ogni labile aspetto de la vita
e più non v’è che un demone e una meta.
 
Minosse scopre che Dedalo e Icaro pensano di fuggire volando; fa mettere nei ferri Dedalo, e ordina che Icaro sia gettato nell’antro dei leoni. Fedra, figlia di Minosse, impetra ed ottiene la grazia per Dedalo e per Icaro, che essa ama riamata. Ma Icaro non accetta il dono, se prima non proverà la scoperta paterna.
 
Giovine
sai tu il rischio che corri?
– Tutto il fascino è questo.
 
– E se cadrai?
Tu non temi la morte?
– Non mi tocca.
Finché c’è vita si combatte; e poi…
pace! Il mio fato, quale sia, io voglio!
 
Dedalo nel momento in cui il figlio si accinge all’impresa si sente preso dall’angoscia:
 
– Figlio,
figlio valente ed animoso, quanto
avrei con te dividere voluto
il rischio! Insieme non sarebbe stato
nulla. Ma ora da tuo padre forse
avrai avuto insieme con l’immensa
gloria la morte. E sarò stato io…
– De la gloria e del rischio parimente
grazie ti rendo, poi che l’una, padre,
nulla sarebbe senza l’altro. Bella
anche di più la gloria se fiorisca
su la morte.
 
In una lettera dell’inverno 1931, Lauro accennò all’origine del suo poema:
Perché ho scritto Icaro? Chi lo sa? Fu in un momento piuttosto eccezionale. La mamma mi suggerì l’idea di prendere come soggetto Icarus. Questa le era venuta mentre leggeva un sonetto francese su Icaro del secolo decimosesto… Poi c’era stato propria allora il volo di Lindbergh. E c’era la memoria di mio fratello che morì a ventitre anni cadendo nel mare come Icaro. Le parole di Erigone nel quinto atto sono veramente quelle della mamma allora. Per diverso tempo avevo desiderato scrivere una tragedia lirica per glorificare il progresso, l’élan vital, nella sua forma individuale ed eroica. Il mito di Icaro è quello che incorpora, più di qualunque altro, lo spirito d’oggi. Eppure non era mai stato messo in una tragedia. Lo scrissi in diciotto sere.
Ecco il sonetto di Philippe Desportes:
 
ICARE est cheut icy, le jeune audacieux,
Qui pour voler au ciel eut assez de courage;
Icy tomba son corps dégarni de plumage
Laissant tous braves coeurs de sa chute envieux. O bienheureux travail d’un esprit glorieux,
Qui tire un si grand gain d’un si petit dommage; O bienheureux malheur plein de tant d’avantage, Qu’il rende le vaincu des ans victorieux!
Un chemin si nouveau n’estonna sa jeunesse.
Le pouvoir lui faillit mais non la hardiesse,
Il eust pour le brûler des astres le plus beau.
Il mourut poursuivant une haute adventure,
Le ciel fut son désir, la mer sa sépulture,
Est il plus beau dessein, ou plus riche tombeau?
 
È curioso notare che il sonetto di Desportes è la traduzione di un sonetto di Sannazaro, che Lauro doveva poi riprodurre nel Golden Book of Italian Poetry. Ma più che dal poeta francese, più che dal poeta italiano, più che dalla memoria di suo fratello Valente, Lauro trasse la ispirazione dalle convinzioni morali e politiche a cui aveva oramai dedicato il suo cuore. Naturalmente l’uomo non deve essere giudicato su quanto scrisse a ventisei anni. C’erano in lui ben altre possibilità spezzate dalla morte.
Nell’estate del 1928 gli fu offerto l’ufficio di segretario della società “Italia-America” negli Stati Uniti. Questa organizzazione, sorta nel 1920 per promuovere le buone relazioni fra i due paesi, si era così cambiata a poco a poco dopo il 1923 che era diventata organo di propaganda fascista. Dapprima Lauro rifiutò.
Non potevo accettare – scrisse nell’agosto del 1928 a persona amica – senza fare un compromesso colla mia coscienza e tradire i miei principî. Nella conferma ufficiale dell’offerta affermano che l’ufficio è assolutamente apolitico. Ma è ovvio che l’ufficio rende necessità un’attitudine favorevole al fascismo e che non è possibile sfuggire all’obbligo di diventare strumento di propaganda fascista. Forse non si resero conto di questo fatto e credono di potere tenersi fuori dalla politica. Ma al punto a cui siamo arrivati, nulla rimane in Italia che sia apolitico, e per quanti sforzi si facciano, non è possibile rimanere neutrali. Eppoi la mia nomina avrebbe dovuto essere “convalidata” da Mussolini. Certo lui l’avrebbe passata pensando che io sono ancora favorevole al fascismo. Ma io non avrei potuto accettare sapendo che egli avrebbe rifiutato il consenso se avesse conosciuto la mia fede. Sarebbe stato disonesto approfittare della sua ignoranza sul mio cambiamento per escamoter da lui un favore.
Ma tutti gli amici insistevano che accettasse. Chester Aldrich, che era diventato allora presidente della società “Italia-America”, ed era generoso amico dell’Italia e liberale sincero, gli garantì che avrebbe dovuto fare solamente opera di cultura disinteressata. Si arrese. E in verità nei due anni in cui egli occupò l’ufficio, la Società tenne una condotta onesta e dignitosa. Ma si sentiva a disagio. La ripugnanza contro il fascismo cresceva. Ripeteva spesso a se stesso e agli amici che non era lecito starsene inerti innanzi a tale disastro morale. Bisognava far qualcosa. Ma che cosa?
Nella primavera del 1929, quando ci incontrammo per la prima volta in New York, egli mi domandò che cosa avrei io pensato se un aeroplano avesse volato su Roma esortando gl’italiani a mettere fine alla loro schiavitù e vergogna. Io gli risposi che se fosse stato possibile avrei applaudito di tutto cuore. “È possibile”, egli replicò, “un aviatore inglese, mio amico, mi assicura che è possibile”. Icaro aveva cominciato a prendere realtà nel suo spirito.
Nel 1930 pubblicò Icaro e la traduzione del Prometeo Incatenato di Eschilo, e preparò il Golden Book of Italian Poetry (che doveva uscir postumo nel 1932). I fascisti non capirono quello che Antigone e Icaro e Prometeo insegnavano. Credevano che Lauro fosse uno dei loro, e questo doveva bastare. Eppoi Icaro aveva ottenuto il premio olimpico della poesia nella gara internazionale di Amsterdam nel 1928. Quel “bravo giovane si faceva onore”. Passi, dunque, Icaro. Possono i libri di poesia essere pericolosi per chi comanda centinaia di migliaia di armati?
Lauro andava ripetendosi che qualche cosa bisognava fare. Nell’estate di quell’anno, tornato dagli Stati Uniti per le vacanze, iniziò sotto il nome di “Alleanza Nazionale” un lavoro di propaganda clandestina. Fra il giugno e l’ottobre, compose otto foglietti, li ciclostilò in seicento copie e li impostò lui stesso, viaggiando sotto il naso delle spie, dall’una all’altra città dell’Italia settentrionale. Egli si rivolgeva al Re ricordandogli il suo dovere di tener fede al giuramento di re costituzionale. Non vi era nelle circolari dell'”Alleanza Nazionale” una sola parola che eccitasse ad azioni illegali o rivoluzionarie. I lettori erano invitati “se volevano rimanere in pace con la loro coscienza” a “non lasciare alle forze sovversive il monopolio della lotta contro il fascismo”. Se gli uomini di buona volontà non promuovevano essi il ritorno alle pratiche della monarchia costituzionale, i comunisti avrebbero preso l’iniziativa. Gli italiani dovevano guardarsi bene dall’aderire ai movimenti antimonarchici e anticlericali. Mussolini era ben contento di mostrare al Quirinale e al Vaticano che la sola alternativa al fascismo era una rivoluzione contro la monarchia e contro la Chiesa. Il Re aveva l’esercito e non era possibile mettersi contro l’esercito. Il Papa aveva con sé l’Azione Cattolica. Quando la crisi fosse sopravvenuta, esercito e Azione Cattolica si sarebbero associati non solo contro il fascismo ma anche contro ogni pericolo estremista. L'”Alleanza Nazionale” intendeva servire come terreno d’intesa per chiunque volesse combattere il fascismo stringendosi intorno al Quirinale e al Vaticano.
Oggi si può rivelare che Lauro non si mise alla ventura, “Orazio sol contro Toscana tutta”. Alcuni uomini maturi, fra cui uno che oggi è morto, il Duca di Cesarò, lo incoraggiarono. Anche Croce guardò con simpatia il tentativo, ed ebbe a dire che, al punto a cui stavano le cose, bisognava cercare di raccogliere tutte le forze sulle quali, sia pure in linea ipotetica, si potesse contare per la liberazione dal fascismo. Umberto Zanotti Bianco aderì con entusiasmo e prestò ogni aiuto all’impresa, e così Romolo Ferlosio, raro esempio di banchiere idealista. E poiché l’ “Alleanza” si proponeva di penetrare anche negli ambienti cattolici, fu cercato e trovato un favoreggiatore anche da questo lato, nella persona di padre Enrico Rosa, S. J., tra i più distinti collaboratori della Civiltà cattolica, e uno dei pochi ecclesiastici del tempo più sinceramente riluttante al compromesso vaticano-fascista, da cui non presagiva nulla di bene per la Chiesa. Egli usò di fidate amicizie per divulgare discretamente i fogli dell’ “Alleanza” in mezzo all’Azione cattolica.
Quale diffusione ebbero i fogli di Lauro? Quanti di essi furono intercettati dalla censura postale? Quanti arrivarono a destinazione? Quanti furono distrutti per paura? Quanti ridattilografati o riciclostilati e rimessi in circolazione? Nessuno lo saprà mai.
Dalle lettere di Lauro a Francesco Luigi Ferrari e a me risulta chiaro che Lauro era sì monarchico, ma nel senso tradizionale che è piuttosto il senso inglese: “un re ci vuole, ma bisogna che sappia fare il suo mestiere, se no lo mandiamo via”. Nel 1931 salutò con gioia la nascita della repubblica spagnola. Quanto alla monarchia di Savoia, dopo il 1922, e più ancora dopo il 1924, egli non s’illudeva, e riconosceva che essa era venuta meno a specifici doveri statutari. Ma, sul piano politico, che cosa era più conveniente fare? La monarchia esisteva di fatto, e possedeva nell’esercito una forza propria. Le forze antifasciste in Italia non potevano prevalere, se minacciavano non solo Mussolini ma anche il Re, e così spingevano il Re e l’esercito a stringersi con Mussolini. Era più pratico – Lauro pensava – utilizzare la monarchia e l’esercito nell’intento di restaurare il regime di libertà in Italia. Nel clima di libertà ristabilito dopo la caduta del regime fascista, ciascun partito politico avrebbe ripreso la sua funzione. Chi avesse avuto miglior filo avrebbe tessuto miglior tela. E se la maggioranza del paese avesse voluto la repubblica, perché non una repubblica anche in Italia?
Quanto al Vaticano, Lauro viveva nella atmosfera del Risorgimento italiano. Il cattolicesimo era per lui una delle religioni primitive da lui studiate nell’opera di Frazer. La distinzione crociana fra filosofia (religione superata) e religione (filosofia cristallizzata) gli consentiva di trattare la religione come una realtà da tenere in conto. Il Papa esisteva in Italia come il Re. Non era un ideale, ma, come Lauro usava dire, era una forza, era un interesse, e doveva essere uno strumento da utilizzare in una lotta contro il fascismo, che altrimenti sarebbe stata senza speranza.
Nella primavera di quell’anno Lauro aveva conosciuto Mario Vinciguerra, e ben presto una cordiale amicizia s’era stretta tra loro. Quando si risolse ad intraprendere la propaganda dell’ “Alleanza nazionale”, si confidò con lui, e ne ebbe immediata promessa di appoggio. Finché egli rimase a Roma, però, tenne per sé la parte più pesante e rischiosa del lavoro, cioè la tiratura delle copie mediante un ciclostile e la loro impostazione. Egli sapeva che Vinciguerra, già arrestato due anni prima per alcuni mesi, era sorvegliato dalla polizia, e il suo animo generoso non lo avrebbe mai indotto a mettere l’amico in una situazione molto pericolosa (naturalmente una percentuale di pericolo spettava a chiunque volesse fare dell’antifascismo sul serio). Ma nell’ottobre gli fu necessario ritornare negli Stati Uniti per alcune settimane. Intendeva dimettersi da segretario della società “Italia-America” e poi ritornare e rimanere in Italia. Doveva fare le consegne dell’ufficio al suo successore. Sperava anche di ottenere dalla “Lega per l’educazione internazionale” l’ufficio di rappresentarla in Italia. Con un incarico di quel genere avrebbe potuto viaggiare spesso, mettersi a contatto con molte persone colte nelle diverse parti d’Italia, estendere la propria influenza e attività.
Egli, che era leale e candido come un fanciullo, doveva dissimulare se voleva operare. Chi vive in un paese libero trova difficile comprendere e approvare siffatti sotterfugi. Questo è il delitto più orribile dei regimi dispotici: costringono quanti vogliono rivendicare per il proprio popolo i diritti di libertà a mascherare opinioni e attività, a servirsi della stampa clandestina, a vivere due vite contraddittorie, una vita pubblica e una vita segreta, sacrificando i doveri della verità al diritto della resistenza politica. Perfino i caratteri più onesti ed aperti sono trascinati a servirsi di metodi, che in regime di libertà sarebbero essi i primi a condannare. Messosi su questa strada pericolosa, Lauro commise un errore di cui doveva ben presto subire le conseguenze amare. Per ottenere l’incarico della “Lega per l’educazione internazionale” scrisse all’ambasciatore italiano a Washington una lettera in cui protestava fedeltà al regime. Sperava così di lavorare in Italia con maggiore sicurezza per sé e per le sue idee.
Prima della partenza de Bosis, di Cesarò, Vinciguerra, Ferlosio, Zanotti Bianco si misero d’accordo sul modo di continuare l’impresa durante la breve assenza dell’amico e promotore. La compilazione dei foglietti sarebbe avvenuta su per giù come era proceduta fino allora, cioè mediante un’amichevole collaborazione in massima parte tra Lauro, Vinciguerra e Ferlosio (per la parte finanziaria). Lauro, a questo scopo, lasciava una buona messe di appunti e prometteva di far pervenire in modo sicuro dall’estero altro materiale. Si trattava di superare le altre maggiori difficoltà riguardanti il lavoro al ciclostile e la diffusione. Su quest’ultimo punto, di Cesarò e Zanotti Bianco offrirono la loro opera, e infatti si prodigarono; per l’altro, de Bosis e Vinciguerra pensarono di avvalersi di un giovane pubblicista laborioso e serio, Renzo Rendi, che sul finire di settembre s’era accostato ad essi con sincero desiderio di collaborare, e della signorina Maria Cardoni, nella quale giustamente il Ferlosio riponeva ogni fiducia.
Lauro partì dagli Stati Uniti per Roma alla fine di novembre. Quando il piroscafo era prossimo all’Inghilterra, ricevette da un amico attraverso il telegrafo la notizia che sua madre, tre altre persone della famiglia e i suoi due amici Vinciguerra e Rendi erano stati arrestati.
Il suo primo impulso fu di continuare nel viaggio, andare a Roma, e farsi arrestare. Mentre a Londra si dibatteva in angosciose incertezze fu chiamato d’urgenza a Berna dall’amico Ferlosio, il quale, disponendo del passaporto ed essendo insospettato, in seguito a preghiera della famiglia de Bosis, s’era messo subito in viaggio per la Svizzera. Da lui Lauro poté apprendere più ampie notizie sull’avvenimento. Tanto Ferlosio, a nome della famiglia, quanto altri amici di Londra, di Parigi, di Svizzera furono concordi nel dissuaderlo dal primo proposito. Andando in Italia egli non avrebbe salvato né sua madre né i suoi amici, ed avrebbe perduto se stesso. Il dovere del soldato che vede cadere al suo fianco i suoi compagni, è di continuare nella lotta e non quello di rendersi prigioniero. Lauro doveva dimostrare la sua solidarietà con la madre e gli amici continuando la loro battaglia e non lasciandosi murare con essi nella stessa galera.
Una serie di circostanze avverse aveva portato all’arresto di Vinciguerra. In provincia di Verona era avvenuto, circa due mesi prima, l’arresto di alcuni diffonditori delle circolari. Da qualche scritto e dagli interrogatori la polizia fu portata a rivolgere la sua attenzione sugli antifascisti di Roma. Malgrado questo, e checché si sia potuto dire in altro senso, essa non era riuscita ad individuare nessuno. L’arresto di Vinciguerra avvenne per un caso disgraziato, dopo che egli aveva imbucato alcune circolari; futili circostanze provocarono quello di Rendi e, immediatamente dopo, della signora de Bosis. La polizia perquisì minutamente l’appartamento dei de Bosis, e scoprì la macchina da ciclostilare. La signora de Bosis non si era mai interessata di politica. In assenza di Lauro aveva ciclostilato una delle sue circolari, per affetto materno più che per determinata adesione alle sue idee. Non si perde’ d’animo al momento dell’arresto. Il delegato che l’arrestò le domandò cortesemente: “Signora, perché ha fatto così?”
E lei, ricordando che poco tempo prima Mussolini aveva parlato del popolo italiano come di “quaranta milioni di buone pecore italiane” che davano al governo la loro lana, rispose: “Perché non sono una pecora”.
Chi si trova solo in carcere per la prima volta e non è un delinquente di professione, va soggetto alle esaltazioni e allucinazioni più inaspettate, anche se ha un carattere di ferro. La Signora de Bosis aveva sessantasei anni ed era malata. Quattro guardie rimanevano giorno e notte nella sua stanza alla infermeria. Tre persone della sua famiglia erano state arrestate come lei e trattenute per due giorni.
Le lasciarono vedere Rendi e Vinciguerra il secondo giorno, ma non poté parlare con loro. Se non si fosse sottomessa, se non avesse promesso di non far più nulla in futuro contro il fascismo, i suoi altri figli avrebbero pagato insieme a lei la pena; le loro carriere sarebbero state spezzate – così le diceva l’avvocato che la consigliava.
Si aspettava di essere mandata al confino ed era pronta ad accettare la pena. Ma dopo avere cercato di assistere uno dei suoi figli, doveva ora evitare che gli altri fossero danneggiati dalla propria azione. Anche a costo di spergiurare doveva fare il possibile per salvarli. La sua anima apparteneva a lei, e non le importava quel che la gente avrebbe detto, ammesso che la gente volesse interessarsi proprio di lei.
In questi pensieri era confortata dai suggerimenti dell’avvocato sceltole dai familiari. Alla fine fra costoro, l’avvocato e la prigioniera si giunse d’accordo alla decisione di piegarsi alla dura condizione, offerta con modi insinuanti dal governo, che la signora scrivesse una lettera di sottomissione personale a Mussolini. Questa era prospettata dagli organi governativi come una soluzione bonaria, confidenziale di una vertenza incresciosa per entrambe le parti. Purtroppo si die’ fede a quelle lusinghe. La signora de Bosis non pensò mai che una lettera scritta da lei potesse essere usata contro il figlio assente. La lettera sarebbe rimasta un segreto fra il Duce generoso e lei. Perché rifiutarsi a un passo così necessario alla intera famiglia, innocuo per tutti, naturale per una madre? La donna infelice scrisse la lettera. (Questo non evitò che da allora in poi i suoi figli in Italia fossero sempre tenuti d’occhio e spesso disturbati).
Il 22 dicembre ebbe luogo il processo innanzi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Vinciguerra e Rendi tennero un contegno dignitoso. Accettarono la propria responsabilità, ma protestarono di non aver mai esortato alla violenza. Questa era la pura verità. La signora de Bosis ammise di avere ciclostilato un foglio dell’ “Alleanza nazionale”. Con sua grande sorpresa e costernazione a questo punto fu letta la sua lettera a Mussolini. Ogni via di scampo le era intercettata.
Alla fine venne il colpo di scena più clamoroso. Fu letta solennemente la lettera di Lauro nell’ottobre all’ambasciatore fascista a Washington.
Ottenuto lo scopo di demolire moralmente l’assente, il Tribunale assolvette la signora de Bosis, che come cittadina americana era protetta dalla opinione pubblica del suo paese, e una condanna avrebbe fatto scandalo. Quanto a Vinciguerra e Rendi, la stessa legge fascista non condannava “la propaganda delle dottrine, programmi e metodi tradizionalmente riguardati come compatibili con la costituzione politica ed economica dello Stato”. Tutt’al più i due accusati avrebbero dovuto essere condannati per avere violato la legge che vietava le pubblicazioni clandestine e quella che proteggeva dalle critiche la persona di Mussolini. I giudici, invece, li condannarono a quindici anni di reclusione. Una persona accusata di aver ciclostilato le circolari fu condannata a tre anni. Altri tre accusati che avevano fatto lo stesso, ma espressero la loro ammirazione per il Duce, furono assolti. Insomma i giudici distribuirono a capriccio condanne e assoluzioni. Condannarono a pene feroci quegli accusati che non fecero atto di contrizione, e assolvettero quelli che avevano fatto pace con il regime. Non fu osservata né la lettera né lo spirito di nessuna legge. Il fascismo era fatto così.
I pennivendoli italiani e non italiani fecero il resto, gareggiando a gettare il ridicolo sui condannati e il fango sull’assente. Chi più si segnalò in questa opera abbietta, fu il corrispondente del New York Times, Arnaldo Cortesi.
Una prima notizia delle condanne, ma non del modo come il processo si era svolto, arrivò a de Bosis in Parigi la mattina del 23 dicembre. Ne fu turbatissimo. Sarebbe stato assai più sereno se avesse condiviso la sorte dei suoi amici, anzi fosse stato condannato a una pena maggiore! Ad ogni modo, il processo aveva fatto conoscere all’Italia e al mondo l’esistenza dell’ “Alleanza nazionale”. Questa avrebbe ora allargato la sua azione. Niente era perduto. Dall’estero egli avrebbe ripreso il lavoro.
Il giorno dopo, le corrispondenze dei giornali francesi, in cui il pubblico dibattimento era descritto in modo da aggravare iniquamente la posizione morale della signora de Bosis e dell’assente, e poi le infamie dei giornali italiani lo annientarono. La sua azione politica minacciava di essere paralizzata. Come avrebbe potuto respingere efficacemente il rimprovero di godersi la libertà, mentre i due amici suoi erano sepolti vivi?
Adorava sua madre. Quando conobbe le circostanze in cui aveva scritto la lettera a Mussolini, comprese e giustificò il suo smarrimento. Ma come far accettare il proprio giudizio agli estranei e agli ignari?
Furono mesi di tragico muto dolore. Nessuno più rispondeva dall’Italia ai suoi appelli. La certezza che il lavoro dell’ “Alleanza nazionale” fosse continuato in Italia da altri, unico possibile conforto al suo cuore, svaniva. Sfuggì alla disperazione perché un’idea cominciò a dominare nel suo spirito. Egli doveva testimoniare la propria fede affrontando un pericolo mortale. Doveva volare nel cielo di Roma in un aeroplano da cui cadessero manifestini per esortare il Re e il popolo d’Italia ad ascoltare la voce dell’onore e del dovere. Confortata, rafforzata da questa idea, la sua fibra giovanile superò la prova di quell’inverno terribile. Il suo carattere ne uscì ritemprato e più forte.
Tradusse in inglese e pubblicò nell’opuscolo The “Alleanza nazionale”: documents of the Second Italian Risorgimento (Paris, Imprimerie Vendôme, 338, Rue Sant-Honoré; MXCXXXI) i manifesti dell’ “Alleanza nazionale”, per dimostrare quanto ingiusta e illegale era stata la condanna inflitta ai suoi due amici.
Viveva a Parigi solitario. Fra gli emigrati non ve n’era uno solo che approvasse le sue idee sul Re e sul Papa. Parecchi ne diffidavano. Vedeva solamente qualche inglese e americano, i Nitti, amici di famiglia – era legato specialmente alla Luigia Nitti, giovane di eccezionale ingegno e angelico cuore – e me. Si teneva a contatto per lettera con Don Sturzo, che viveva a Londra; con Francesco Luigi Ferrari, un altro cattolico di bella intelligenza e di bel carattere, che aveva dovuto evadere dall’Italia e viveva a Bruxelles, e col conte Carlo Sforza, che dimorava anche lui a Bruxelles e di tanto in tanto passava per Parigi.
L’idea di presentarsi a Roma e farsi condannare affiorava spesso nel suo spirito. Lo sconsigliai tenacemente. Si togliesse dalla testa di poter sfidare un processo pubblico. I giornalisti italiani e non italiani asserviti a Mussolini avrebbero falsificato le sue parole e fatto scempio del suo onore, ancora una volta. Probabilmente non sarebbe neanche stato portato al pubblico dibattimento. Appena arrivato a Roma, sarebbe sparito senza lasciar traccia di sé.
Naturalmente discutevamo sulla monarchia e sul Vaticano, e discutevamo a perdita di fiato. Il dissenso politico era sul metodo più che sulla sostanza. Lauro era giunto alla conclusione che in ultima istanza una repubblica era diventata oramai inevitabile in Italia, ma per il passaggio dal dispotismo fascista alla repubblica riteneva probabilmente necessaria la fase intermedia di una monarchia costituzionale, grazie alla quale il paese avesse un minimo di libertà, che gli permettesse di cercare a ragion veduta la sua strada. Un rovesciamento del regime fascista non poteva avvenire senza la cooperazione della monarchia e dell’esercito. Secondo me, Lauro perdeva il suo tempo quando eccitava il Re a restaurare le istituzioni libere. L’uomo era troppo scettico e vile per prendere una iniziativa di quel genere. Nel 1925 aveva lasciato che i fascisti bastonassero a morte uno dei suoi fedeli, Giovanni Amendola. Aveva lasciato ora che due monarchici, Vinciguerra e Rendi, fossero condannati a quindici anni di galera. Perché sciupare energie preziose su una via senza uscita? Quanto al Papa e alla Azione cattolica, non erano essi che sostenevano Mussolini in Italia. Era Mussolini che li proteggeva quando facevano quel che voleva lui, e li minacciava quando non obbedivano. In compenso dei privilegi che ottenevano in Italia, facevano la “propaganda” di Mussolini all’estero. Finché la dittatura fascista fosse rimasta salda sulle sue basi, il Papa sarebbe rimasto buon amico di Mussolini insieme al Re. Dopo che la dittatura fascista fosse andata in rovina, che bisogno ci sarebbe più stato di esortare tanto il Re quanto il Papa a cambiare connotati? “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, gli ripetevo.
Come sempre avviene, ciascuno rimaneva del proprio parere. Ma il nostro dissenso non offuscò mai la nostra amicizia affettuosa. Io sentivo in lui un cuore sincero e puro. C’era nel suo pensiero una eccezionale onestà. Aveva un assoluto disinteresse personale. Era immune da quello che è un difetto più comune in Italia che negli altri paesi: la vanità. A parte il fascino che esercitava su di me quella lucida aurora giovanile, io ero persuaso che chiunque intendesse combattere la dittatura fascista – monarchico, cattolico, repubblicano, socialista, comunista, anarchico che fosse – dovesse essere accolto come fratello e cooperatore. Ciascuno combattesse sotto la propria bandiera coi propri metodi. Marciar divisi e colpire uniti. Caduto il nemico comune, ognuno avrebbe ripreso la propria strada nel nuovo clima di libertà per tutti.
Col passare dei giorni si rinsaldava nel suo animo il proposito di effettuare il volo su Roma.
Volare su Roma! Ma dove trovare i mezzi per imparare a volare e per acquistare un aeroplano? Viveva come portiere in un piccolo albergo economizzando ottocento franchi al mese che mandava alla famiglia di Rendi. Quando ricevé la prima mancia, ne fu tutto costernato. “Ma ci si fa presto l’abitudine”, diceva sorridendo in quel suo sorriso dolce, triste e insieme gioviale.
Nell’aprile venne da me tutto felice. Il denaro per l’impresa era trovato. Oggi si può rivelare che il denaro fu procurato dal redattore capo del quotidiano liberale di Bruxelles, Le Soir, d’Arsac, un vecchietto dal cuore d’oro, anticlericale, anticomunista e antifascista, insomma liberale sul serio e non a parole. L’idea di rivolgersi a lui venne a Ferrari, nonostante l’anticlericalismo di d’Arsac, e fu idea felice: Lauro, se l’impresa fosse riuscita, l’avrebbe raccontata sul giornale di d’Arsac, e questo sarebbe stato il pagamento.
Il dottor Sicca, un medico italiano che viveva a Londra, amico generoso degli esuli, contribuì largamente alle spese.
Io non avevo nessun diritto né di sollevare obiezioni, né di incoraggiare, il che del resto non era necessario. Data la sua decisa volontà, ogni consiglio che potesse indebolirlo nel momento dell’azione sarebbe stato delittuoso. E quando mi domandò la mia opinione sul testo dei fogliolini che si proponeva di far cadere dall’aeroplano, gliela detti mettendomi naturalmente dal suo punto di vista. Perciò lo consigliai a parlare al Re come monarchico coerente e non come uomo che non lo rispettasse più. Parlava della impresa con perfetta calma, come di un affare d’ordinaria amministrazione. Sapeva di mettere in gioco la vita. Ma la vita non gli sarebbe valsa niente, se non l’avesse giocata in quel modo. Se fosse rimasto incatenato a una esistenza mediocre e tranquilla mentre i suoi due compagni rimanevano in galera, non avrebbe potuto più dedicarsi a nessuna attività politica senza sentirsi accusato di viltà da gente che aveva interesse a vituperarlo e da gente di buona fede che non lo conosceva affatto. Se invece fosse riuscito nella sua impresa, avrebbe dimostrato anche ai più ciechi che non era uomo da sfuggire ai pericoli e che era rimasto libero per continuare la buona battaglia. Si era fidanzato ad una donna ammirevole. Chi più di lui doveva desiderare di vivere? Ma le circostanze lo avevano condotto al punto che il volo su Roma era diventato per lui una necessità, un dovere, e un desiderio, la più perfetta espressione del suo carattere. Se la vittoria avesse coronato il suo ardire, egli avrebbe continuato a vivere la sua vita con maggior forza e certezza, nel più alto grado d’intensità.
Cominciò a imparare l’uso dell’aeroplano in aprile in un campo privato di aviazione vicino a Versailles. Il 24 maggio, giorno di Pentecoste, fece il primo volo da solo. Ma proprio allora si sentì sorvegliato. Si trasferì a Londra, e qui continuò la pratica, sempre sotto falso nome. Il piano era di acquistare un aeroplano inglese; un amico inglese lo avrebbe portato dall’Inghilterra in Corsica in un luogo fuori mano, presso Bastia; Lauro allora avrebbe preso l’aeroplano; sarebbe arrivato a Roma verso il tramonto; il ritorno nella oscurità della notte sarebbe stato pericoloso, anche se gli aeroplani fascisti non gli avessero dato la caccia; l’amico avrebbe acceso dei fuochi per indicare il luogo dove discendere; se tutto fosse andato bene, non sarebbe rimasto più per lui e per l’aiutante che tornarsene in Francia.
Il 22 giugno cominciò a mettere per iscritto in francese le ragioni dell’impresa. Era il primo abbozzo di quel che doveva essere la Storia della mia morte. Non ne fu contento. Il manoscritto fu trovato fra le sue carte. Non occorre riprodurlo per intero. Farebbe doppione col testo definitivo. Ma alcune parti danno una idea immediata del suo stato d’animo in quel momento.
 
Il mio tecnico dice che ho una probabilità su dieci di riuscire, e da buon inglese sorride dietro gli occhiali. Una su dieci! Ma questo è molto più di quanto mi occorre. Il mio tecnico non sente che per me la via più comoda per trovare la pace dell’anima è la via di Roma. Mi occorrebbe più coraggio a rinunciare che ad andare. Eppoi tutti i pericoli sono nel ritorno. Non c’è dubbio che se arrivo a Roma, una volta compiuto il mio lavoro, io posso chiudere il bilancio della mia vita. E se sarò abbattuto dalle mitragliatrici degli aeroplani fascisti, il successo del mio volo dal punto di vista della causa sarà raddoppiato… Siccome questo scritto sarà letto solamente se io muoio, mi sia permesso di parlare in stile oltretomba. Che i miei amici non rimpiangano la mia morte. Essa è stata per me il miglior modo di vivere intensamente la mia vita. Sarei partito anche se avessi saputo che non sarei ritornato. Anzitutto era il mio semplice dovere di soldato. Io avevo un debito urgente da pagare. Se non l’avessi pagato, la vita mi sarebbe stata intollerabile.
Se fosse sopravissuto, Lauro pensava di ritornare in America e farvi un giro di conferenze su: La filosofia dell’umanità, L’unità dell’Europa, e L’Umanesimo della civiltà italiana. Impossibile trovare una contraddizione più radicale, assoluta, inconciliabile fra dottrina del fascismo e la fede internazionalista di Lauro.
L’aeroplano fu comprato in Inghilterra, attraverso il tecnico, di cui Lauro parla nel testo del 22 giugno. I manifesti avrebbero dovuto essere stampati ad Auch, presso la frontiera franco-svizzera, per cura di Carlo Emanuele Aprato. All’ultimo momento parve più opportuno stamparli in una piccola cittadina inglese per caricare l’aeroplano in Inghilterra ed evitare questo traffico in Francia dove la polizia poteva stare all’erta. Le autorità inglesi, insospettite, non volevano lasciar partire l’aeroplano. Insistevano per conoscere le ragioni, la via, la mèta del viaggio. Quante bugie siano state necessarie per tenerle a bada, Dio solo lo sa.
Finalmente l’aeroplano poté partire. Arrivò l’11 luglio in Corsica al luogo designato. Nell’atterrare si ruppe un’ala sparpagliando i fogli. L’impresa era fallita. E quel che era peggio, il progetto non era più segreto.
Occorreva una forza di volontà sovrumana per ricominciare da capo. Lauro ricominciò.
Questa volta non poteva più prendere come base d’operazione l’Inghilterra. Sotto il nome di Mr. Morris, un inglese, agente di pubblicità, che voleva usare l’aeroplano per i suoi affari, andò ad acquistare un altro aeroplano in Germania. Due meccanici tedeschi, ignari delle sue intenzioni, lo assistettero nello scegliere e impratichirsi della macchina. I manifesti furono stampati ad Annmasse, questa volta. Fu fissato per il volo il pomeriggio del 4 settembre. Ma la persona che avrebbe dovuto portare l’aeroplano a Cannes si ammalò. Bisognò aspettare per un altro mese una serata senza luna. In ottobre, finalmente, non vi furono difficoltà.
I due meccanici tedeschi arrivarono la sera del 2 ottobre al campo di Cannes. Lauro era già a Marsiglia. Assicuratosi che tutto era in ordine scrisse in francese nella notte dal 2 al 3 ottobre la Storia della mia morte, e la mattina del 3 la imbucò perché Ferrari la facesse pubblicare qualora il viaggio fosse stato senza ritorno. L’aeroplano, il 3 ottobre, passò dall’aeroporto di Cannes a quello di Marignano presso Marsiglia. Ecco quanto riferì uno dei due meccanici tedeschi, l’ultima persona che Lauro vide prima di partire:
Verso le due pomeridiane un taxi arrivò e ne saltò fuori Mr. Morris, salutandoci cordialmente. Nell’hangar sgombrammo l’aeroplano di ogni altro peso mentre Mr. Morris portava sacchetti pieni di roba stampata. Noi non ce ne meravigliammo perché già ci aveva detto a Monaco che aveva contratti di pubblicità. Era nervoso. Pensammo che questo dipendesse dal fatto che per tre o quattro settimane non aveva fatto esercizio. Perciò gli dissi che avrebbe fatto bene a provare un paio di volte prima di partire per Barcellona. “Non ho tempo,” mi disse, “tutto andrà bene.” In circa dieci minuti caricai la benzina per il motore, mentre Mr. Morris collocava tutta la roba stampata sul sedile anteriore dell’aeroplano, e il mio compagno dava un’ultima occhiata alla macchina. Riempito il serbatoio, accertammo che tutto era in perfetto ordine. L’aeroplano aveva un raggio d’azione di almeno otto o nove ore. Ce n’era d’avanzo per andare a Barcellona e tornare a Nizza. Mr. Morris venne a me e mi disse: “Herr Rainer, sono lieto che ella sia venuto. Ci ritroveremo a Nizza questa notte. Questo è del denaro. Paghi il taxi e faccia un buon pranzo col suo compagno”. Mi dette 600 franchi, e dopo alcuni minuti altri 400 franchi, perché 600 franchi non sarebbero bastati. Disse “Prenda il treno che lascia Marsiglia alle 4 pomeridiane circa. Quando tornerò, ce la godremo”. Prese il suo posto nell’aereo. Prese anche una bottiglia ordinaria. Credo fosse caffè. A noi non piaceva vederlo partire. Io gli dissi: “Mr. Morris, non dimentichi di pompare in tempo la benzina dal serbatoio laterale in quello principiale; se no, la macchina si fermerà.” Mr. Morris mi domandò sull’uso della lampada elettrica che gli avevo portato in dono, e io gli detti le spiegazioni. Spingemmo l’aereo fuori dell’hangar coll’aiuto del conduttore del taxi. Temendo che Mr. Morris potesse dimenticare di pompare la benzina in tempo, gli ripetei ancora una volta l’avviso. Adesso egli era più calmo. L’elica cominciò a girare. Io dissi: “Buon viaggio, buona fortuna, e arrivederci a Nizza stanotte”. Il mio compagno lo seguì fino al punto di partenza, mentre io raccoglievo i nostri oggetti e li mettevo nel taxi. Guardai l’aereo mentre partiva e salutai. La partenza fu eccellente.
Partito alle 15,15, Lauro arrivò a Roma, poco dopo il tramonto, alle 20. Discese da un’altezza di duemila metri fino a poco più di trecento metri. Disseminò 400.000 manifestini proprio sul centro di Roma: Piazza Venezia, il Corso, intorno a Palazzo Chigi, e poi sull’aeroporto. Migliaia di foglietti caddero in grembo agli spettatori di un cinematografo all’aperto. Fu uno spettacolo di abilità e di coraggio che riempì di ammirarazione e trepidazione chi ne fu testimone. Le strade della città in cui i manifestini cadevano furono tutte in subbuglio. La gente leggeva e passava i fogli di mano in mano. “Era come vivere in un mondo nuovo, qualcosa che non si era mai sentito per anni”. Dopo circa mezz’ora l’aeroplano sparì nella notte.
Sulla fine di Lauro si può fare una sola ragionevole ipotesi. Vi erano fra Marignan e Roma meno che cinque ore di volo. La benzina nei due serbatoi era sufficiente per otto o nove ore, cioè non per tornare da Roma a Cannes. Ma vi era un terzo serbatoio che avrebbe dato la benzina necessaria per l’ultima parte del volo. Gli assistenti credendo che Lauro sarebbe andato a Barcellona e non a Roma, non pensarono che fosse necessario fornire anche il terzo serbatoio. Lauro verso la fine del viaggio si trovò senza la benzina necessaria. “E il fatal gorgo sopra lui si chiuse”.
L’aviazione preposta alla difesa di Roma fu in pieno scompiglio. Gli ufficiali erano tutti assenti dai loro posti, con immenso furore di Balbo e di Mussolini. Solo dopo mezz’ora, si fecero vivi, iniziarono la caccia, e tanto per far qualcosa andarono ad aspettare Lauro al varco verso la Corsica, mentre lui volava verso l’isola d’Elba. Camions e motociclette della polizia perlustrarono la città per soffocare possibili dimostrazioni. Carabinieri e agenti investigatori in cerca dei foglietti illegali, perquisirono case private dopo avere letti quelli che erano caduti dal cielo, e qualcuno fra essi ne approvò il contenuto e ne conservò una copia come reliquia. Anche la macchina del partito si mise in movimento. Le occorsero quattro ore per sgranchirsi. A mezzanotte vi fu una “dimostrazione spontanea” di fedeltà fatta da gente mezzo assonnata che aveva dovuto levarsi dal letto.
Volando su Roma per mezz’ora e riprendendo la via del ritorno senza essere disturbato, Lauro aveva clamorosamente dimostrato quanto fosse inefficace la decantata arma antiaerea fascista. Questa seconda sfida li aveva trovati inetti allo stesso modo. Eppure, la intenzione di de Bosis era nota fin da quando, nel luglio, aveva lasciato in Corsica l’aeroplano e i manifesti.
I giornali del 4 ottobre ricevettero l’ordine di non dedicare che due righe all’avvenimento e di non fare neanche il nome del colpevole. Dissero solamente che l’aeroplano da Roma si era diretto verso la Jugoslavia. In quel momento le relazioni colla Jugoslavia erano torbide e un po’ di calunnia “patriottica” veniva a proposito. Quella falsa notizia è interessante, perché dimostra che nessuno a Roma sapeva dove l’aeroplano fosse andato e che quindi non ha fondamento la voce che Lauro sia stato abbattuto dall’aviazione fascista. Un “trionfo” di questo genere sarebbe stato magnificato in tutti i toni se fosse realmente avvenuto.
In Roma gli agenti fascisti, e fuori d’Italia i diplomatici del regime sparsero la voce che Lauro si godeva la vita sulla Riviera francese, ma si teneva nascosto per “non aver seccature” e per suscitare simpatia, facendo credere di essere morto. Dissero anche che guadagnava quattrini in America, e tutto sommato non aveva corso nessun pericolo. La menzogna non si arrestò neanche innanzi alla morte.
Dodici anni dopo, altri aeroplani violarono il cielo di Roma, portando un messaggio, non di riabilitazione e di vita, ma di distruzione e di morte.
Nel 1931 la voce di Lauro de Bosis cadde nel deserto. Il suo sacrificio fu vano. Fu vano? Un atto di eroismo non va mai perduto. Chi muore per un ideale non sa quel che succederà alle speranze del suo cuore. Obbedisce all’appello del dovere. “La voce del mio cor per l’aria sento”. Da cosa nasce cosa. Sarà quel che sarà. Altri ripresero il lavoro di Lauro dove lui dove’ arrestarsi. Quale lunga schiera di lottatori e di martiri! Senza tanta preparazione e tanti sacrifici gli eroismi dei patrioti italiani nella guerra di liberazione non sarebbero stati possibili dopo il settembre 1943. Altri mieterono dove lui seminò.
Che cosa penserebbe, che cosa farebbe oggi Lauro? Nessuno può dare una risposta assoluta a domande di questo genere. Lo spirito umano è un complesso di forze e impulsi incalcolabili. Fattori infinitesimali possono condurre lo stesso uomo a reagire dinanzi allo stesso fenomeno nelle maniere più inaspettate. Ma non è in nessun modo pensabile che l’autore di Icaro avrebbe sentito altro che orrore innanzi alle vittorie feroci di Hitler, che non avrebbe protestato con tutte le forze della sua anima quando aeroplani italiani bombardarono e cosparsero di iprite l’Etiopia; che dopo avere salutato con gioia il sorgere della repubblica in Spagna, egli non sarebbe accorso a difendere quella stessa repubblica contro i complici italiani e tedeschi di Franco; che l’alleanza con Hitler, l’attacco all’Albania, l’attacco alla Francia e all’Inghilterra, l’attacco alla Grecia, e poi le disfatte militari,- e poi la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, e poi l’intera penisola divenuta campo di battaglie e distruzione agli eserciti di tutto il mondo – insomma dodici altri anni di tragiche esperienze lo avrebbero lasciato immobile nelle posizioni del 1931.
Nel 1943 Mussolini fu eliminato da un colpo di stato preparato dal Re d’accordo coi capi militari e senza dubbio con l’approvazione del Vaticano: proprio quello che Lauro avrebbe desiderato. Ma nel luglio del 1943 intervennero nel gioco forze che Lauro non prevedeva, e che del resto nel 1931 nessuno di noi prevedeva. Nel luglio del 1943, il Re e i capi militari organizzarono il colpo di stato contro Mussolini, perché le forze anglo-americane avevano occupato la Sicilia, e i capi militari italiani e il Re si erano fino alla fine dell’anno precedente convinti della inevitabilità della sconfitta. Nello stesso tempo, il malcontento popolare montava da ogni parte. I grandi scioperi dell’Italia settentrionale nella primavera del 1943 minacciavano di trasformarsi in un movimento rivoluzionario ben più minaccioso che quel primo movimento economico. Sotto l’incubo delle due minaccie – la sconfitta militare e la rivolta popolare – il Re e i suoi si decisero ad agire non per salvare l’Italia dal fascismo, ma per salvare se stessi dalla rovina. Quello che essi volevano era sostituire in Italia al fascismo con Mussolini un neofascismo senza Mussolini.
È ben difficile ammettere che Lauro, messo di fronte a questa nuova situazione, se ne sarebbe accontentato, come se essa rappresentasse la culminazione delle sue speranze. Più difficile ancora è ritenere che egli avrebbe insistito nel suo piano primitivo dopo la fuga del Re e di Badoglio da Roma e dopo la totale disintegrazione delle forze armate provocata da quella fuga.
Gaetano Salvemini
 
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Dopo questo esauriente commento dello storico pugliese che fu titolare della cattedra “Lauro de Bosis”, istituita da Ruth Draper all’Università di Harvard, leggiamo ora il testamento spirituale e politico di Lauro, scritto alla vigilia del suo ultimo volo.
 
STORIA DELLA MIA MORTE
 
 
 
Domani alle tre, su un prato della Costa azzurra, ho un appuntamento con Pegaso.
Pegaso – è il nome del mio aeroplano – ha la groppa rossa e le ali bianche; benché abbia la forza di ottanta cavalli, è svelto come una rondine. S’abbevera di benzina e si avventa nei cieli come il suo fratello di un tempo, ma di notte, se vuole, sa scivolare nell’aria come un fantasma. L’ho trovato nella foresta Ercinia, e il suo ex-padrone me lo porterà sulle rive del Mar Tirreno credendo in buona fede che abbia da servire agli svaghi di un giovane signore britannico. La mia cattiva pronuncia non gli ha destato sospetti: gli chiedo qui scusa dell’inganno.
Ma non andremo a caccia di chimere. Andremo a portare un messaggio di libertà a un popolo schiavo di là dal mare. Fuor di metafora (bisognava usarne per lasciar discretamente nell’ombra le origini del mio velivolo) andiamo a Roma per diffondere in pieno cielo quelle parole di libertà che, da ormai sette anni, son proibite come delittuose; e con ragione, giacché se fossero permesse, scoterebbero in poche ore la tirannia fascista. Tutti i regimi della terra, anche l’afgano e il turco, posson lasciare, chi più chi meno, una qualche libertà ai loro sudditi: solo il fascismo, per difendersi, è costretto a annientare il pensiero. Né gli si può rimproverare di punire la fede nella libertà e la fedeltà alla costituzione italiana più severamente che non il parricidio: se vuol sopravvivere, non può fare altrimenti. Non gli si può rimproverare di aver deportato senza processo migliaia di cittadini, né di aver distribuito, in quattro anni, settemila anni di galera: come potrebbe tenere soggetto un popolo libero se non lo terrorizzasse con la sua nera guarnigione di trecentomila sicari? Per il fascismo non v’è scelta. Se si accetta anche minimamente il suo punto di vista, si è obbligati a dichiarare col suo apostolo Mussolini: “La libertà è un cadavere putrefatto”. Se si desidera anche minimamente la continuazione di un tal dominio, bisogna approvare l’assassinio di Matteotti e le ricompense elargite agli assassini, la distruzione dei giornali italiani, la devastazione della casa di Croce, i miliardi spesi ad assoldare spie e agenti provocatori, la spada di Damocle sospesa sulla testa di ogni cittadino.
So bene che né gli austriaci nel 1850, né i Borboni, né gli altri tiranni d’Italia son mai arrivati a tanto: essi non han mai deportato gente senza processo; il totale delle loro condanne non s’è mai, neppur da lontano, avvicinato alla cifra di settemila anni di galera in quattro anni; soprattutto, essi non si sono mai sognati di arruolare di forza, nelle file del loro esercito di aguzzini, i figli stessi dei liberali, come fa il fascismo, strappando i figli a tutte le famiglie (anche liberali e socialiste) fin dall’età di otto anni per imporre loro la divisa dei carnefici e assoggettarli a una barbara educazione guerresca: “Amate il fucile, adorate la mitragliatrice, e non dimenticate il pugnale”, ha scritto Mussolini in un articolo destinato ai ragazzi.
L’atteggiamento che consiste nell’ammirare il fascismo pur deplorando gli eccessi non ha senso. Il fascismo non può esistere che grazie ai suoi eccessi. I suoi cosiddetti eccessi sono la sua logica. E per la logica stessa della sua natura che il fascismo è condotto a esaltare il sicario e a schiaffeggiare Toscanini. Si è detto che l’assassinio di Matteotti fu un errore: ma dal punto di vista del fascismo, quel delitto fu un colpo di genio. Si dice che il fascismo fa male a ricorrere alla tortura per estorcere confessioni ai suoi prigionieri: ma se il fascismo vuol vivere, non può fare altrimenti. I giornali esteri dovrebbero capirlo una buona volta. Non si può augurarsi che il fascismo diventi pacifico e umano senza volere la sua liquidazione piena e completa. Il fascismo questo l’ha capito e, da sette anni a questa parte, l’Italia è diventata una grande prigione, dove s’insegna ai bambini a adorare le loro catene e a compiangere quelli che ne sono liberi. I giovani che hanno adesso vent’anni non possono avere nessun ricordo di una atmosfera diversa da questa. Il nome di Matteotti è loro quasi sconosciuto. Fin dall’età di tredici anni si è loro insegnato che gli uomini non hanno nessun diritto, tranne quelli che lo Stato si degna di dar loro in prestito a suo unico arbitrio. Molti ci credono. Il mito che Mussolini ha salvato l’Italia dal bolscevismo è ormai accettato senza discussione. Ma non bisogna per questo credere che l’Italia si lasci ingannare. La prova che il popolo italiano è in grandissima maggioranza profondamente antifascista ne è data dallo stesso regime, con la paura che esso mostra al minimo sussurro e con la ferocia con la quale punisce i minimi accenni di pensiero indipendente. I regimi che si sentono forti non agiscono a questo modo.
Nel giugno 1930, io cominciai a far circolare delle lettere bimensili, di carattere strettamente costituzionale, sulla necessità che tutte le persone d’ordine venissero a una qualche intesa tra loro per il giorno il cui il fascismo sarebbe crollato. Siccome il fascismo sembra aver fatto suo il motto di Luigi XV “Dopo di me, il diluvio”, l’iniziativa era quanto mai opportuna. Difatti le lettere, secondo il principio della catena, cominciarono a circolare a migliaia. Per cinque mesi, riuscii a compiere questo lavoro da solo, spedendo ogni quindici giorni seicento lettere firmate l'”Alleanza nazionale”, con la preghiera che ogni persona che le riceveva ne facesse a sua volta sei copie. Sfortunatamente, in dicembre, durante un breve viaggio che ero stato costretto a intraprendere all’estero, la polizia arrestò i due amici che avevano accettato di imbucare le lettere in mia assenza. Essi furono sottoposti alla tortura e condannati a quindici anni di carcere. Uno dei due, Mario Vinciguerra, scrittore fra i migliori che abbia l’Italia, critico d’arte e di letteratura, sebbene di salute malferma, fu lasciato un’intera notte (una notte di dicembre) completamente nudo sulla terrazza della Questura centrale di Roma. Dopodiché fu malmenato e battuto a tal segno da rimanere sordo da un orecchio. Poi fu gettato in una cella di due metri per due, dove non c’era neppure uno sgabello per sedersi e dove, ogni mattina, gli si toglieva persino il letto. Dopo le proteste dei giornali esteri e di eminenti personalità politiche inglesi e americane, le sue condizioni son state migliorate. Mussolini è arrivato ad offrire la libertà a tutt’e due, purché firmassero una lettera di sottomissione. Tutti e due han rifiutato.
Il giorno in cui lessi la notizia dell’arresto dei miei amici ero in procinto di riattraversare la frontiera per tornare a Roma. Il mio primo impulso fu naturalmente di recarmi ugualmente a Roma per condividere la loro sorte; ma mi resi subito conto che il dovere di un soldato non è di consegnarsi nelle mani del nemico, bensì di continuare a battersi fino all’ultimo. Decisi immediatamente di andare a Roma, non già per arrendermi, ma anzi per dare impulso all’attività dell’Alleanza lanciando dal cielo quattrocentomila lettere e poi, o morire combattendo, oppure tornare alla base per prepararvi altri colpi. Il cielo di Roma non è mai stato violato da aeroplani nemici. Mi dissi che io sarei il primo, e mi misi subito a preparare l’impresa.
La cosa non era facile. Anche la modesta impresa di guadagnarsi il pane è cosa ardua, per un poeta. Quando, per giunta, egli si trovi nelle condizioni del profugo, e per colmo di sfortuna in un anno di crisi economica, non c’è da stupirsi se egli scenda assai presto fino ai più bassi gradini della vita randagia. Per giunta, non sapevo guidare neppure la motocicletta: figurarsi l’aeroplano! Per cominciare, trovai un impiego come portiere all’Hôtel Victor Emanuel III, rue de Ponthieu, a Parigi. I miei amici repubblicani mi prendevano in giro dicendo che ero punito dove avevo peccato. A dire il vero, non adempivo soltanto le mansioni di portiere, ma anche quelle di gerente e di telefonista. Talvolta, con tre o quattro campanelli che squillavano all’unisono, mi si sentiva gridare con voce stentorea nella tromba delle scale: “Irma, un doppio burro al 35”. Come preparazione al mio volo su Roma, non era un gran che; e tuttavia, tra il conto del fornaio e le ricevute dei clienti, scrivevo un messaggio al Re d’Italia e studiavo la carta del Mar Tirreno.
Il seguito dei miei preparativi è la parte più interessante della storia, ma purtroppo deve rimaner segreto. Nel mese di maggio feci il mio primo volo da solo a bordo di un apparecchio Farman, nei pressi di Versailles. Poi, avendo saputo che il mio segreto era giunto alle orecchie dei fascisti, mi affrettai a sparire per ricomparire sotto altro nome in Inghilterra. Il 13 luglio lasciavo Cannes su un biplano inglese, portando con me ottanta chili di manifestini. Siccome la mia esperienza di pilota si limitava a cinque ore di volo, partii solo, per non rischiare la vita di un amico.
Sfortunatamente, la mia impresa fu troncata sulle coste della Corsica da un incidente, e dovetti darmi alla macchia, abbandonando l’aeroplano in un campo. Il mio segreto era svelato. Le polizie d’Inghilterra e di Francia mi si misero alle calcagna con uno zelo che mi lusingò assai: arrivarono fino a disputarsi la mia fotografia. Le prego di scusarmi per le noie che ho causato.
Il peggio è che ormai non potevo più contare sulla sorpresa, la mia maggiore possibilità di successo. E tuttavia, Roma divenne per me quel che il capo Horn era per l’Olandese volante; giurai di arrivarci vivo o morto. La mia morte (benché seccante per me, che ho tante cose da portare a termine) non potrà che giovare al successo del volo. Siccome i pericoli son tutti nel ritorno, essa non potrà sopraggiungere prima che io abbia recapitato le mie quattrocentomila lettere: queste non ne saranno che meglio “raccomandate”. Dopo tutto, si tratta di dare un piccolo esempio di spirito civico, e d’attirare l’attenzione dei miei concittadini sull’anormalità della loro situazione.
Io sono convinto che il fascismo non cadrà se prima non si troveranno una ventina di giovani che sacrifichino la loro vita per spronare l’animo degli italiani. Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Non è che il coraggio e la fede siano in loro minori che nei loro padri. Gli è piuttosto che nessuno prende il fascismo sul serio. Tutti, cominciando dai suoi stessi capi, si aspettano una fine prossima, e sembra sproporzionato dar la vita per far finire una cosa che crollerà da sé. È un errore.
Bisogna morire. Spero che, dopo di me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l’opinione pubblica.
Non mi resta che dare il testo dei miei messaggi.
Nel primo – diretto al Re – ho cercato d’interpretare il sentimento della massa del popolo, facendo astrazione dal mio personale. Credo che un repubblicano e un monarchico potrebbero egualmente sottoscriverli. Noi ci limitiamo a porre il dilemma: “Per la libertà o contro la libertà”. Il nonno dell’attuale Re, dopo la più terribile disfatta della storia d’Italia, seppe resistere al maresciallo austriaco, il quale voleva forzarlo ad abrogare la costituzione. Vuole veramente l’attuale monarca, dopo la più grande vittoria della storia d’Italia (vittoria di liberali), lasciar perire senza il minimo gesto l’ultimo brandello di costituzione?
A parte le lettere, getterò molte copie di un magnifico libretto di Bolton King: Il fascismo in Italia. Come si getta pane a una città affamata, così a Roma bisogna gettare libri di storia.
Dopo aver sorvolato a quattromila metri la Corsica e l’isola di Montecristo, arriverò a Roma verso le otto, facendo gli ultimi venti chilometri a motore spento. Sebbene non abbia, per tutta esperienza, che sette ore e mezzo di volo, se cado non sarà per errore di pilotaggio. Il mio aeroplano non fa che centocinquanta chilometri all’ora, quelli di Mussolini ne fanno trecento. Egli ne ha novecento, e han tutti ricevuto l’ordine di abbattere a ogni costo con le loro mitragliatrici qualunque aeroplano sospetto. Per poco che mi conoscano, devon sapere che, dopo il primo tentativo, non posso aver abbandonato l’impresa. Se il mio amico Balbo ha fatto il suo dovere, essi sono ora là ad attendermi. Tanto meglio: varrò più morto che vivo.
 
Ecco i testi:
 
ALLEANZA NAZIONALE
 
Roma Anno VIII dal delitto Matteotti
 
Cittadini,
voi tenete un altare davanti alla salma dell’ignoto eroe della libertà; ma lasciate ch’essa venga profanata ogni giorno da chi, lì accanto, getta in galera tutti coloro che nella libertà credono ancora. L’Absburgo in camicia nera, rientrato di soppiatto nel suo palazzo, è un oltraggio per tutti i nostri morti. Quella libertà per cui essi dieder la vita, egli la chiama “un cadavere putrefatto” e lo calpesta indisturbato da nove anni.
Seicentomila cittadini si son fatti ammazzare per liberar due città: fino a quando tollererete voi l’uomo che tiene schiava l’Italia intera?
Da nove anni vi si dà a intendere che torna a conto sacrificare libertà e coscienza pur d’avere un governo forte e capace. Dopo nove anni vi accorgete che avete avuto non solo il più tirannico e il più corrotto ma anche il più bancarottiero di tutti i governi. Avete rinunziato alla libertà per vedervi tolto anche il pane!
Accampato tra voi, come una guarnigione straniera, il fascismo oltre a corrompere le vostre anime, distrugge le vostre sostanze: paralizza la vita economica del paese, sprofonda miliardi per preparare la guerra e per tenervi oppressi, lascia ingigantire tutte le spese rimaste senza il vostro controllo ed abbandona il paese alla rapacità dei suoi gerarchi famelici. Mentre esso vanta il suo “prestigio nel mondo”, il mondo guarda con orrore un regime che per ridurvi a un gregge di schiavi, deve logicamente schiaffeggiar Toscanini ed esaltar la brutalità dei suoi sgherri.
Cittadini, non vi lasciate intimorire dalle bande che voi stessi pagate né da questo “Radetzky in quarantottesimo”: il secondo Risorgimento trionferà come il primo. L’Alleanza nazionale ha lanciato il programma d’unione di tutte le forze contro il fascismo. La borbonica ferocia delle condanne vi dimostra quanto quel programma gli faccia paura. Stringetevi in alleanza! Gli spagnuoli han liberato la patria loro: non tradite la vostra!
 
Il Direttorio
 
ALLEANZA NAZIONALE
 
Roma Anno VIII dal delitto Matteotti
 
Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia. Non cercarti un’illusoria giustificazione col dirti che non c’è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d’onore lavorano in silenzio per preparare un’Italia libera. Anche se non vuoi esser dei nostri, vi son sempre dieci cose che tu puoi fare da solo. Puoi, dunque devi.
1. Non assistere a nessuna cerimonia fascista. 2. Non comprare nessun giornale. Son tutte bugie.
3. Non fumare. (Il fumo rende al fascismo oltre 3 milardi l’anno, tanto di che pagare tutti i suoi sbirri. Fa contro il nuovo Radetzky quel che fecero i milanesi contro l’antico. E fu il principio delle Cinque giornate).
4. Non far nessun atto né dir nessuna parola che suoni ossequio al regime.
5. Boicotta nei rapporti personali e d’affari i servitori del regime. Sono i tuoi sfruttatori. 6. Boicotta o intralcia con l’ostruzionismo tutte le iniziative fasciste. Anche le migliori servono a ribadirti addosso le catene. (Bottai ha dichiarato: “Lo Stato corporativo è i1 miglior strumento di polizia che abbiamo trovato finora!”)
7. Non accettare nulla dal fascismo. Qualsiasi cosa ti dia è il prezzo della tua prostituzione.
8. Diffondi le circolari dell’Alleanza. Diffondi ogni notizia vera che puoi ghermire. La verità è sempre antifascista.
9. Forma una catena di amici fidati su cui contare per ogni evenienza.
10. Abbi fede nell’Italia e nella Libertà. Il disfattismo degli italiani è la vera base del regime fascista. Comunica agli altri la tua fede ed il tuo fervore. Siamo in pieno Risorgimento. I nuovi oppressori son più corruttori e più selvaggi di quelli antichi, ma cadranno egualmente. Essi non sono uniti che da una complicità e noi dalla volontà d’esser liberi. Gli spagnuoli han liberato la patria loro. Non disperar della tua.
 
Il Direttorio
 
ALLEANZA NAZIONALE
Al Re d’Italia
 
Maestà,
tra il re e il popolo v’è un patto sacro: Voi lo giuraste. Quando in nome di quel patto Voi ci chiamaste a difendere la libertà d’Italia ed i principi da Voi giurati, noi prendemmo le armi in sei milioni, e seicentomila morirono al Vostro comando. Oggi, in nome di quegli stessi principi, calpestati come non mai, in nome del Vostro onore di Re, ed in nome dei nostri morti, tocca a noi di rammentarVi quel patto.
Seicentomila cittadini han dato a un Vostro cenno la vita per togliere il giogo da due città: è col Vostro consenso che un giogo infinitamente peggiore grava da anni sull’Italia intera? Accettate Voi veramente d’infrangere dopo Vittorio Veneto quel giuramento cui il Vostro Avo restò fedele dopo Novara?
Son sette anni che Vi vediamo firmare i decreti di Radetzky con la penna di Carlo Alberto. Pure, Voi ci avete guidati alla vittoria e per ventiquattr’anni siete stato il campione della libertà. No; non possiamo dimenticarlo. Noi abbiamo ricevuto dai nostri padri un’Italia libera. Sareste proprio Voi, il re vittorioso, a tramandarla schiava ai nostri figli? Maestà, non vogliamo crederlo.
Molti hanno perso fede nella Monarchia. Non fate che il loro numero cresca. Non fate che il popolo italiano, seguendo l’esempio di quello spagnuolo Vi giudichi responsabile dell’oppressione. Come può seguitare ad avere fede in Voi se i migliori tra noi vengono puniti per questa fede come se fosse il peggior dei delitti, e ciò vien fatto nel Vostro nome?
Gli italiani che soffrono la vergogna d’esser bollati di fronte al mondo come un gregge servile, non sanno se Voi siete con loro o con la guarnigione degli oppressori.
Maestà, scegliete. Una terza via non esiste. Dal fondo della loro disperazione quaranta milioni d’Italiani Vi guardano.
 
Il Direttorio
 
 
 
Cinquant’anni dopo il volo, così prendeva la parola sul gesto di Lauro un altro grande storico e statista: Giovanni Spadolini.
 
Relazione di
Giovanni Spadolini
nel Cinquantenario del volo di Lauro de Bosis
3 ottobre 1981
 
 
 
Cari amici, costretto da inderogabili impegni dovuti ai miei compiti istituzionali a restare lontano dall’incontro di studi, ormai a periodicità annuale, dell’ Istituto per la Storia del Movimento Liberale, che l’amico Camurani presiede con competenza pari alla passione, desidero porgere il mio saluto a tutti gli studiosi intervenuti e in particolare all’amico e collega Carlo Bo, di cui mi è caro ricordare i molti anni di proficua collaborazione giornalistica, e a Giovanni Malagodi, del quale ricordo il felice incontro sul terreno del dibattito storiografico poco più di un anno fa, a Ferrara, nella città che gli è quasi natale, per il convegno di studi su un personaggio caro ai miei studi gobettiani, Max Ascoli.
Einaudi, Amendola, Gobetti, Ascoli, de Bosis. L’Istituto per la Storia del Movimento Liberale prosegue nell’approfondimento dei fili della nostra cultura democratica e liberale, di quella cultura revisionistica e contestatrice di un certo Risorgimento agiografico e retorico, volta alla ricerca dei fondamenti democratici di uno Stato che nel primo dopoguerra doveva aprirsi a nuove istanze di riformismo sociale che la guerra aveva suscitato.
Dopo Amendola, di cui mi è particolarmente cara la memoria del convegno del 1976, tenuto nelle sale bolognesi del Circolo della Stampa, per l’affettuosa e calda partecipazione di uno degli ultimi amendoliani viventi, uno degli ultimi protagonisti di quell’entusiasmante anche se effimera esperienza che fu l’Unione Nazionale, Ugo La Malfa; dopo Ascoli, esponente dell’altro filone del revisionismo democratico del primo dopoguerra, quello gobettiano, che aveva proseguito la sua battaglia antifascista in America, Lauro de Bosis, che rappresenta una singolare mediazione fra la vicenda personale e culturale di Amendola e di Ascoli.
Perché, cari amici, della battaglia politica di Giovanni Amendola molto ricorre in de Bosis. Che cos’è la stessa Alleanza Nazionale, col suo programma di coalizzazione delle forze costituzionali del paese, dai cattolici ai socialisti, in funzione antifascista se non l’ideale continuazione della battaglia morale dell’Aventino? Che cosa è l’Alleanza Nazionale se non la prefigurazione, sia pure limitata e condizionata dai tempi, dei Comitati di Liberazione Nazionale? Che cos’è la necessità avvertita di tenere conto delle forze storiche presenti nel paese, la Chiesa e la monarchia, se non l’anticipazione di un realismo politico che fu proprio di tanta parte dell’antifascismo, senza con ciò compromettere i principi di una visione laica dello stato e di un orientamento ormai sostanzialmente repubblicano che de Bosis manifesta chiaramente nelle sue lettere a Salvemini.
E, d’altra parte, di Ascoli ricorre in de Bosis la comune esperienza americana. Anzi vien fatto di chiedersi, anche se manca documentazione in proposito, se si sono conosciuti. Di certo, anche se per brevi periodi, nel 1930, sia Ascoli che de Bosis erano a New York. Comunque, per ambedue l’esperienza americana è stata decisiva. Per Ascoli ha contribuito a far maturare una riflessione che già si era formata nelle pagine di “Critica Sociale” e della”Rivoluzione Liberale”, per il giovane Lauro che, figlio di madre di nazionalità americana approdava in America per la prima volta venticinquenne nel 1926, lo spirito e l’influenza delle libertà di cui il cittadino americano poteva godere avevano accelerato la sua conversione antifascista, avevano suscitato il fermo proposito di combattere l’ignobile degradazione in cui il fascismo aveva ridotto l’Italia.
Un proposito che si era concretizzato nell’estate del 1930 nell’organizzazione clandestina dell’Alleanza Nazionale per la Libertà per la quale Lauro aveva subito trovato l’appoggio, il sostegno e la collaborazione di Renzo Rendi e di quella indimenticabile figura di antifascista e carissimo amico e collega di tante battaglie giornalistiche che fu Mario Vinciguerra. Un proposito che, quale che sia il giudizio dello storico sulle sue reali possibilità di successo nella lotta al regime fascista – e sarà proprio questa giornata di studi che dovrà dare una risposta a questo problema storiografico – fu pagato ad un prezzo altissimo da tutti i suoi promotori: quindici anni di carcere, solo più tardi ridotti a sette per Vinciguerra e Rendi, e la sua morte, cercata dallo stesso Lauro, che era fortuitamente sfuggito alla cattura, col suo volo su Roma di cinquant’anni fa, compiuto per lanciare un appello contro chi teneva schiava l’Italia…
Io credo, cari amici, che la testimonianza di intransigenza morale, fino al sacrificio della vita, che Lauro de Bosis ha voluto dare resti pietra miliare di quella certa idea dell’Italia per la quale ci siamo battuti e continueremo a batterci.
 
Dopo Gaetano Salvemini, dopo Giovanni Spadolini, la parola spetta ora a Sandro Rogari.
Questo lucido ed esauriente commento del Professor Sandro Rogari, letto nel 50º Anniversario del volo di Lauro de Bosis su Roma nell’importante convegno di Ancona animato dal Professor Camurani, pone in luce il rifiuto del fascismo di un de Bosis che come tanti altri giovani aveva sulle prime aderito a certi aspetti retorici ed attivistici del movimento. È lo stesso travaglio critico che ha ispirato altre opere come il bellissimo libro di Francesco Berti Arnoaldi “Viaggio con l’amico” (Sellerio, Palermo) in cui l’autore, valoroso esponente della Resistenza, ricorda con parole indimenticabili, il sacrificio di un altro “fratello ideale” di Lauro, Giuliano Benassi, trucidato dalle SS dopo un’epica, esemplare resistenza personale. Dopo le “Lettere di condannati a morte della Resistenza” e tante altre sublimi testimonianze (leggiamo sempre con commozione “Il mio granellino di sabbia” di Luciano Bolis) ripercorrere il libro di Berti Arnoaldi insieme a queste pagine di Sandro Rogari fa riemergere la coerente continuità ideale fra la prima e la seconda Resistenza italiana.
 
Relazione di Sandro Rogari
 
 
 
Scrive Giuseppe Prezzolini in uno dei più penetranti ritratti che siano stati dedicati a Lauro de Bosis – anche se, a mio avviso, molto ingeneroso – che la sua scomparsa nel cielo di Roma il 3 ottobre 1931 è un “mistero da spiegare”. “Non il fatto in sé, – scrive Prezzolini – che par semplice, ma le ragioni, se di ragioni si può parlare in atti della vita, che tutta la vita riassumono”. E il quesito nasce in Prezzolini proprio dalla profonda conoscenza del personaggio, dalla sua convinzione, per il giudizio che si era fatto, che si trattasse di uomo simpatico e generoso ma un po’ leggero; capace di grandi entusiasmi e di grandi propositi, ma inadeguati ai fini che intendeva raggiungere, e comunque alimentati soprattutto da un grande ottimismo. Insomma non si trattava di uomo capace di condurre una lunga battaglia clandestina e di morire per un ideale politico. Ma era un uomo, secondo Prezzolini, che proprio per l’aura dannunziana che lo circondava, per le ascendenze paterne, per sua formazione e cultura era capace piuttosto di divenire un martire cavalleresco. Poteva morire, o comunque arrischiare in modo grave la vita per un motivo di carattere morale, che in quel momento stava, sempre secondo Prezzolini, nella pessima figura fatta quando, sia pure per una combinazione fortuita, era sfuggito alla cattura, perché all’estero, nel novembre-dicembre del 1930, mentre i suoi due compagni di cordata della Alleanza nazionale, Vinciguerra e Rendi, assieme a tanti altri e alla stessa madre, erano stati arrestati.
A questo punto, in realtà, il quesito iniziale di Prezzolini finirebbe per rivelarsi retorico. La risposta c’è, anche se diversa da quella che ci aspetteremmo. Ma credo che sia necessario prendere subito le distanze da Prezzolini chiarendo che il giudizio espresso muove da una valutazione personale, non da una analisi storica della vicenda politica di de Bosis; manca nel ritratto del poeta d’Icaro un collegamento con quello che de Bosis, talvolta in modo non del tutto consapevole, è stato nella storia dell’antifascismo italiano; manca, ancora, un collegamento con l’Aventino e con quanto la sua sconfitta ha pesato anche nell’analisi politica dell’Alleanza nazionale. Insomma, il giudizio di Prezzolini è tutto confinato negli ambiti, che a noi stanno un po’ stretti, della valutazione personale, ma sfuggono alla reale dimensione storica del problema.
Dovendo quindi noi muoverci su questo secondo piano, che è poi l’unico che ci interessa, è necessario anzitutto riuscire a comprendere da dove nasca l’antifascismo di Lauro; quali ne siano le prime manifestazioni. E, stando ai testi e ai ricordi di chi l’ha conosciuto,gli anni coincidono con l’avvio del processo di instaurazione dello stato totalitario. Il fascismo ha superato la crisi dell’Aventino e sta avviando la costruzione del regime che otterrà un successo decisivo nell’acquisizione del consenso grazie alla Conciliazione. Questa fase della costruzione dello stato totalitario coincide col primo svilupparsi di una sensibilità politica in Lauro.
In ciò deve essere stata determinante l’esperienza americana. A questo proposito abbiamo la testimonianza di Gaetano Salvemini, ma abbiamo soprattutto una lettera scritta da Lauro a Prezzolini. Scriveva da New York, nel maggio 1926, prima di iniziare ad Harvard il corso estivo di lingua e letteratura italiana:
” … è doloroso confessarlo, ma mi si son sviluppate delle insane aspirazioni politiche (naturalmente a lunga scadenza) e ho deciso di mettermi a studiare sul serio per essere pronto quando verrà il tempo tra cinque o dieci o quindici anni. Non so se è un’illusione, ma credo che tra un certo numero di anni ci sarà un terribile bisogno di uomini nuovi, che non siano stati né dall’una né dall’altra parte in questi anni, e ho paura che ce ne saranno pochissimi. Almeno a vedere con che preparazione e con che educazione politica vengon su i giovani tra i venti e i trentacinque anni. Che ne dici tu?”
Cinque o dieci o quindici anni; non si dà una scadenza politica precisa, anzi non si parla neanche del regime fascista, che pure è presente e anzi determinante nella conversione di Lauro all’impegno politico. Direi addiritura, stando al testo parziale della lettera, che la stessa conversione di Lauro sia in fieri, ancora indefinita, non chiarita soprattutto a se stesso. Purtroppo mancandoci fonti dirette – in questo ha ragione Prezzolini: gli epistolari finora pubblicati sono del tutto incompleti – dobbiamo giustificare certi percorsi del suo pensiero tramite la sua biografia. La sua chiamata alla fine del 1924 in America per conto della società ”Italia-America”, i suoi cicli di conferenze nel continente americano, ebbero senza dubbio un peso decisivo. Come ricorda Salvemini, l’immagine che la propaganda fascista dava dell’Italia, presentata come un paese abitato da un popolo anarcoide e corrotto, fortunatamente salvato dall’uomo della Provvidenza, da Mussolini, finiva per essere fortemente offensiva per chi, come de Bosis, era orgoglioso d’essere italiano, non suddito di Mussolini. Ma soprattutto deve avere avuto il suo peso constatare come nell’ottica americana il fascismo non era quella panacea che si voleva presentare agli italiani. A Lauro che ventenne, pur non prendendo parte in prima persona, aveva plaudito al fascismo forse soprattutto per quel tanto di volontaristico, di eroico, di accattivante, il regime di Mussolini cominciava a rivelare il suo vero volto.
Del resto, se andiamo a leggere quei frammenti di lettere che sono reperibili di Lauro ventenne, troviamo proprio quello spirito d’attivismo frenetico, quell’entusiasmo per il diverso e per il nuovo che, tipico di tutti i giovani, era esasperato dai riflessi della guerra appena conclusa, era attratto dai movimenti politici emergenti. “Sono passato fin ora per questa mia vita senza fermarmi e senza riflettere, – scriveva a Sibilla Aleramo nel dicembre 1921 – cantando e mordendo ad ogni frutto, senza chiedermi né il perché né il dove. Se mi guardo intorno non so né quel che ho voluto né quel che voglio, per l’avvenire non vedo né una meta né una ragione(…) Ho molto imparato e molto goduto delle parole degli altri (e delle vostre, Sibilla) ma, ch’io sappia, non ho mai detto, io, nessuna parola che avesse qualche valore”. C’è in queste parole l’ansia di volere vivere ad ogni costo, d’essere protagonista; il fascismo non poteva non avere una attrattiva irresistibile, era inevitabilmente frainteso da questi giovani, come del resto lo fu, con ben peggiori implicazioni da uomini ben più anziani e gravati di ben altre responsabilità.
Ma se nell’estate del 1926 la maturazione politica era ancora incerta, l’anno successivo, di ritorno in Italia, l’antifascismo di Lauro è ormai pienamente acquisito. La traduzione dell’Antigone di Sofocle è – come scrive Salvemini – “il primo indice del passaggio all’antifascismo militante”. E in quello stesso 1927 Lauro scrive la sua unica opera poetica organica, Icaro, che già nel titolo è rivelatrice degli intenti dell’autore. Ad una componente famigliare difficilmente ponderabile e valutabile nella sua portata, nella sua influenza su Lauro, si unisce una componente culturale che fonde il mito positivista di una scienza dominatrice del mondo, e quindi creatrice di libertà per l’uomo, con forme di vitalismo bergsoniano di marca nettamente antipositivista. Del Bergson dell’Evoluzione creatrice Lauro avrebbe potuto sottoscrivere il detto che la vita “è ininterrotto zampillo di novità”. Questa lettera è rivelatrice di ascendenze culturali che emergeranno ancor più chiare dall’analisi dei pochi testi politici e filosofici che ci ha lasciato.
Un punto importante da rilevare è che l’antifascismo di de Bosis si manifesta in via primaria con un linguaggio poetico che gli è più congeniale. Sotto questo profilo, anche se Lauro scrisse significativi testi di analisi politica e filosofica negli ultimi mesi di vita, ha ragione Mario Vinciguerra quando sostiene che de Bosis “sentiva bene e riconosceva di non essere un uomo politico nel vero senso della parola, né la sua anima infiammata di poesia e tesa verso un ideale di assoluta indipendenza avrebbe potuto giammai piegarsi alla formulazione precisa di un programma politico e ad una disciplina di partito”. Sarebbe inutile cercare in lui l’organizzazione di un pensiero sistematico, ma è certo possibile trovare colleganze intellettuali significative, magari anche sedimenti di una cultura liberale fortemente innovativa – da Amendola a Gobetti – che riemerse nell’esilio, quasi effetto di letture che nella prima metà degli anni venti non avevano rappresentato per lui uno stimolo immediato.
Dopo Icaro, nell’estate del 1928, la sua irrequietezza lo riporta in America a ricoprire l’ufficio di segretario della società Italia-America. Dapprima aveva rifiutato per il rischio di compromissione politica che quella carica poteva comportare. Poi accettò su pressioni di Chester Aldrich che era divenuto presidente della società e gli aveva garantito che avrebbe fatto solo cultura del tutto disinteressata.
E a tal proposito possiamo fare una considerazione apparentemente banale, ma in realtà sempre a torto trascurata, a proposito dell’impressione che deve avere esercitato su di lui la grande crisi economica. Il trovarsi in America in quell’ottobre del 1929 e assistere agli sviluppi successivi della grande crisi sul continente americano fece maturare a mio avviso, in de Bosis, la convinzione che l’impatto di questo maremoto sarebbe stato sconvolgente anche sulle società europee. Non ho pezze d’appoggio adeguate per giustificare questa tesi, ma mi pare del tutto significativo – e mi scuserete se anticipo questo tema – che alla crisi economica del regime sia dedicato addirittura un numero doppio dell’Alleanza nazionale, il 3-4 del 1-15 agosto 1930.
“Nessuno sa – si legge nel foglio – come i prossimi buoni del tesoro saranno pagati. L’Italia ‘non ha più bisogno di danaro straniero’, perché non riceve più credito da nessuno. Dappertutto prestiti nascostamente forzosi, quindi nessun bilancio sincero. Ogni fascio tassa le imprese secondo un proprio calcolo. Licenziamenti impossibili senza permesso dell’autorità politica, quindi rapido aumento di fallimenti e di cambiali insolvibili”.
L’immagine che si dà della crisi è gravissima; il suo sviluppo sembra irreversibile. E su questo tema si ritorna in un documento finora rimasto inedito e che getta nuova luce sulla sopravvivenza dell’Alleanza nazionale che gli storici hanno dato fino ad oggi virtualmente liquidata con gli arresti del dicembre 1930.
Una lettera firmata l'”Alleanza nazionale per la libertà” e datata 8 maggio 1931, impostata a Roma, viene recapitata a certo onorevole Baragiola che il giorno prima aveva esaltato alla Camera il rinnovo dei buoni del tesoro come indice della forza economica del regime. “Ma quale forza” – si legge nella lettera – “Alle tre parole ‘prestiti al fascismo’, tutte le casseforti estere si sono inchiavardate come per incanto. Dunque, la volontà d’indipendenza si risolve nella storiella dell’uva acerba”. La truffa econonica perpetrata dal regime verso il popolo italiano viene ribadita in questa lettera di cui non è possibile stabilire la paternità – de Bosis non si trovava a Roma nel maggio del 1931 – ma che è facile ricollegare in qualche modo al promotore della Alleanza nazionale. E ancora vale la pena di fare un’ultima annotazione sul riflesso dei fallimenti bancari che sono interpretati dall’organo della Concentrazione antifascista “La Libertà” e da altri quotidiani stranieri come sintomo dello sfacelo economico del regime, non senza che la polizia fascista vi dedichi una preoccupata attenzione.
Tutto questo per dire che, a mio avviso, gli aspetti economici della crisi o supposta crisi del fascismo sono in de Bosis e nei suoi amici un prius che precede gli altri aspetti della crisi, quelli più strettamente politici. Anche perché altrimenti non si comprende come mai Lauro nel maggio del 1926 dava al regime una scadenza non lunga, ma certo piuttosto lontana nel tempo, mentre nel 1930 egli è convinto che il regime non abbia più di due anni di vita. Il 21 dicenbre 1930 scrivendo da Parigi a Ruth Draper in merito all’arresto della madre e di Rendi e Vinciguerra, Lauro manifesta la convinzione che per i suoi compagni prendere due o trent’anni sia lo stesso, dal momento che “questo regime non può durare più di due anni”. In queste parole si può leggere certamente ancora l’iniziale smarrimento di chi si trova al sicuro mentre i propri compagni di lotta sono stati arrestati – un problema di coscienza che senza dubbio graverà sulla decisione del volo – ma, se collegate alla iniziativa dell’estate precedente, possono anche riflettere una reale convinzione di precarietà del fascismo.
Comunque, chiusa questa parentesi, che tuttavia investe un punto qualificante dell’analisi del fascismo operata da Lauro – e anche delle deformazioni da cui era viziata – riprendiamo la ricostruzione della nascita dell’Alleanza nazionale dal ritorno in Italia di Lauro nell’estate del 1930; ossia dal momento in cui le fonti e la memorialistica ci offrono materiali più consistenti di analisi storica. Vale subito la pena di correggere certa storiografia americana sull’antifascisno in merito all’ispiratore dell’Alleanza. Non Mario Vinciguerra, come scrive Charles F. Delzell, ma lo stesso Lauro fu l’ispiratore e l’organizzatore della trama clandestina nel giugno del 1930. Questo risulta chiaramente non solo dalla prefazione all’opuscolo The ‘Alleanza Nazionale’, documents of the Second Italian Risorgimento, pubblicato nel 1931 a Parigi ma anche nella lettera inviata a Salvemini nel gennaio 1931.
“Vinciguerra è stato veramente eroico – scriveva Lauro. – Ha persino affermato che l’idea dell’Alleanza era venuta a lui, mentre in realtà, pur ricevendo i fogli non seppe che ero io che li mandavo fino alla metà di agosto (Rendi lo seppe solo in ottobre)”.
Il meccanismo con cui Lauro intendeva sviluppare la sua trama clandestina era molto semplice. Egli stesso all’inizio si sarebbe preoccupato della stesura e dell’invio per posta di un buon numero di circolari dell’Alleanza che i singoli destinatari dovevo riprodurre in sei copie e a sua volta spedire ad altrettante persone. La diffusione avrebbe avuto così una progressione geometrica. Questo doveva essere il marchingegno – che è facile definire ingenuo – che avrebbe dovuto organizzare il dissenso contro il fascismo che, secondo Lauro, era diffuso nel paese; e che investiva anche i quadri del fascismo: si tenga presente che destinatari delle circolari non erano solo persone note per i loro precedenti antifascisti, ma anche piccoli gerarchi del regime.
Questo per quanto riguarda l’avvio organizzativo, mentre i perni politici del ribaltone che avrebbe dovuto fare il regime dovevano essere la monarchia e la Santa Sede. Era ferma convinzione di Lauro che l’antifascismo avesse commesso due gravi errori: l’essere antimonarchico e l’essere anticlericale. Questo, invece di ostacolare Mussolini, aveva fatto il suo gioco.
“Ora sarebbe follia disconoscere i seguenti fatti: – si legge nella seconda circolare del 15 luglio 1930 – la Monarchia con l’esercito e il Vaticano con l’Azione cattolica sono le due più grandi forze che esistano in Italia fuori del fascismo. Nessuno dubita che il Re e il Papa non siano in cuor loro antifascisti. Se fin’ora hanno, l’uno subìto, l’altro utilizzato il fascismo per quel che, a torto o a ragione, è parso loro il bene della Monarchia e della Chiesa, tocca a noi capovolgere e non già consolidare quel gioco d’interessi, di speranze e di timori, che han fin qui determinato la loro condotta. E non è chi non veda come già di per sé sta mutando diametralmente.”
Siamo così giunti al punto centrale di quella che con termine un po’ altisonante potremmo definire la strategia politica di Lauro de Bosis: coinvolgere le forze istituzionali del paese nella lotta antifascista puntando sulla loro reale – o presunta – ostilità verso il regime. Questo piano aveva due risvolti essenziali nelle intenzioni di de Bosis. Anzitutto doveva essere tranquillizzante per i cosiddetti ben pensanti, per gli uomini d’ordine. De Bosis mirava a sfatare il mito alimentato per fini strumentali dal regime che l’alternativa al fascismo era il comunismo.
Coinvolgere monarchia e Santa Sede significava soprattutto questo: garantire con la coalizione liberale italiana – ma intesa in senso lato perché, come vedremo, l’Alleanza non si qualificava come movimento liberale contrapposto o differenziato da altri movimenti politici compresi in quello che potremmo chiamare l’arco aventiniano – che la caduta del regime sarebbe avvenuta nell’ordine costituzionale. Sotto questo profilo il primo manifesto dell’Alleanza era stato chiaro: “tocca (…) agli uomini d’ordine di determinare la crisi del fascismo e salvare così l’Italia anche dalla minaccia contraria”.
Il secondo risvolto della strategia di de Bosis implicava una critica di fondo a quella che era stata la politica dell’Aventino e anche alla linea della Concentrazione parigina.
“Per il passato,- si legge nell’ultima circolare, del dicembre 1930 – responsabili del fascismo sono stati un po’ tutti: quelli che gli hanno aperto le porte non più di quelli che in cinquant’anni hanno contribuito alle miserie della vita politica italiana. Qualunque azione imperniata sopra una intransigente valutazione morale era quindi condannata a trovar tutti nemici e a isterilirsi in una vacua e generale condanna dell’Italia in blocco”.
In fin dei conti, de Bosis è profondamente contrario alle tesi della pura condanna morale proveniente da quella che a torto, secondo lui, si considera “l’altra Italia”. Le magagne e i meriti, se ci sono e per quel tanto che ci sono, appartengono a tutti gli italiani; la purificazione dalle prime e l’esaltazione dei secondi può essere solo una opera comune, non può nascere dalla divisione manichea fra chi ha perduto l’Italia e chi può salvarla. La Monarchia e la Chiesa cattolica, pur con i loro gravi errori e le loro responsabilità, pur se gravati dal peso di aver provocato ritardi e cadute nello sviluppo civile del paese, fanno parte della storia d’Italia, e gli antifascisti devono prenderne atto. Questa mi sembra essere l’intuizione di fondo che de Bosis trasfuse nel programma dell’Alleanza nazionale. Ed essa rappresenta, a mio avviso, un superamento delle posizioni aventiniane e un programma che anticipa la logica ispiratrice dei comitati di Liberazione nazionale.
Naturalmente, si tratta di un programma che è suscettibile di essere qualificato come sostanzialmente conservatore, desideroso di ripristinare uno status quo ante che l’antifascismo rifiutava. E che questo fosse l’atteggiamento assunto dalla “Concentrazione” e da “Giustizia e Libertà” nei confronti dell’Alleanza è comprovato da molteplici testimonianze. Lo stesso de Bosis ne fa riferimento in una lettera a Giorgio La Piana spedita dal parigino hotel Victor-Emmanuel III ove lavorò nell’inverno del 1931 come portiere, per preparare l’impresa dell’ottobre successivo. “La stessa Concentrazione di Parigi, – scrive – che in settembre ci aveva violentemente attaccato (con la sciocca idea che val meglio il fascismo che non un’Italia ancora monarchica), ora ha capito la forza del nostro movimento e cerca di mettersi in contatto con esso. Insomma i sacrifici non sono stati vani”. Ma esiste anche una documentazione inedita che conferma le rivalità soprattutto provenienti da “Giustizia e Libertà”. In un rapporto del 14 gennaio 1932 proveniente da Parigi si legge che “l’affermarsi della nuova organizzazione antifascista ‘Alleanza Nazionale’ – che si è rivelata con il noto volo di Lauro de Bosis e la recente istituzione repubblicana ‘La Giovane Italia’ – con un programma di natura terroristica – fecero comprendere ai dirigenti del comitato ‘Giustizia e Libertà’ che le su accennate associazioni, in quanto operavano nel regno potevano rappresentare un serio pericolo di concorrenza per l’azione antifascista, con un conseguente grave discapito per le sorti future della organizzazione stessa”. Del resto delle ostilità che provenivano dall’antifascismo parigino abbiamo conferma anche nella testimonianza di Mario Vinciguerra.
Ma in realtà l’atteggiamento dell’antifascismo parigino era frutto o di rivalità o di fraintendimento sulle finalità politiche del movimento di de Bosis. In Lauro vi era una forma di realismo politico, non una personale adesione o fedeltà alle istituzioni considerate corresponsabili del fascismo. Naturalmente si può discutere se questo, nel 1930, fosse veramente realismo politico; se cioè veramente avesse un fondamento credere in un sostanziale antifascismo della Monarchia e della Santa Sede a un anno dalla Conciliazione. E di questo discuteremo.
Per quanto riguarda il primo punto, ossia la valutazione che de Bosis faceva della Monarchia, abbiamo la probante personale interpretazione di Lauro che il 2 febbraio 1931 scriveva a Salvemini per chiarire che “né Vinciguerra né alcuno di noi altri siamo d’un pelo più monarchici dei nostri amici di ‘Giustizia e Libertà’; crediamo soltanto alla necessità di manovrare con delle forze esistenti e non con delle idee, che condividiamo anche noi, ma dietro alle quali oggi in Italia non ci sono delle vere forze su cui far presa”.
Ed era ancor più esplicito nella lettera inviata a Francesco Luigi Ferrari a fine maggio del 1930:
“Io, naturalmente, preferisco la repubblica alla monarchia, e non ho il minimo attaccamento ai Savoia, (…) Quello che mancava finora è un aut aut dei monarchici, che, se non raccolto, fa più male alla monarchia che non tutta l’opposizione repubblicana”.
E disponiamo della ancor più probante testimonianza di Salvemini:
“Il dissenso politico (fra de Bosis e me) era sul metodo più che sulla sostanza. Lauro era giunto alla conclusione che una repubblica era diventata ormai inevitabile in Italia, ma per il passaggio dal dispotismo fascista alla repubblica riteneva probabilmente necessaria la fase intermedia di una monarchia costituzionale, grazie alla quale il paese avesse un minimo di libertà, che gli permettesse di cercare, a ragione veduta, la sua storia”.
Per quanto riguarda poi la linea di Lauro verso il mondo cattolico, e la gerarchia ecclesiastica, ogni accusa di clericalismo rivolta a Lauro è destituita di ogni fondamento. Anche in questo caso ci soccorre la testimonianza di una bozza di piano delle cose da fare nell’Italia liberata dal fascismo che Lauro delineò all’amico Cecil Sprigge, conosciuto a Roma quando era corrispondente del “Manchester Guardian”.
Vale poi la considerazione di massima che Lauro considerava le forme codificate, dogmatiche, di religiosità come retaggio di civiltà arretrate, destinate ad essere superate dalla religione della libertà, intesa come credenza laica dell’immanenza del divino nel consorzio umano, non della sua trascendenza. In questo, Lauro raccoglieva l’eredità del pensiero di Vico tramite la mediazione di Croce. Del resto, tutta crociana era la sua sottovalutazione del movimento modernista e del suo tentativo di conciliare la Chiesa con le esigenze dell’età moderna:
“Se avesse accettato i suggerimenti dei Modernisti la Chiesa cattolica avrebbe commesso un atto di suicidio immediato. La Chiesa cattolica, rifiutandosi di discutere, ha ancora dalla sua parte molte maestose e venerabili forze di carattere sentimentale se non intellettuale”.
Lauro non aveva raccolto la lezione di Amendola e la sua strenua difesa del modernismo come moto profondo di rinnovamento della Chiesa cattolica che avrebbe avuto un effetto benefico anche nel progresso della società italiana; tramite Croce, aveva fatto sue certe incomprensioni della classe dirigente giolittiana per tutto quanto avveniva all’interno della Chiesa cattolica, con cui si trattava ormai solo sul piano politico e diplomatico. Mi pare quindi di poter interpretare il ruolo che la Santa Sede avrebbe avuto, secondo de Bosis, nel crollo del regime in un quadro di pura valutazione realistica delle tendenze in atto nel mondo cattolico – anche se questa interpretazione era estremizzata – senza alcun apprezzamento da parte di Lauro di questo presunto antifascismo come di un progresso reale del mondo cattolico che si sarebbe riverberato nella società italiana del post-fascismo.
Il problema storiografico, dunque, è un altro. Non si tratta di assolvere o di condannare Lauro de Bosis e l’Alleanza Nazionale in funzione dei collegamenti che intendeva creare e considerava opportuni fra monarchia e Santa Sede e il supposto antifascismo latente nell’opinione pubblica italiana, ma piuttosto di valutare la fondatezza delle sue analisi politiche. Naturalmente è un quesito di carattere storiografico che può trovare una risposta semplice – o addirittura semplicistica – nella banale constatazione che il moto fallì. La razionalità del reale, per dirla in termini hegeliani , sta dalla parte di Mussolini. Ma ad una critica storiografica più accorta, desiderosa di accertare nella loro reale portata i motivi di dissenso verso il regime che indubbiamente esistevano, anche dopo il pur grande successo ottenuto dal fascismo grazie ai Patti dell’11 febbraio 1929, questa constatazione non basta. Tanto più che la possibilità che oggi ha lo storico di accertare l’attenzione e la preoccupazione con cui la polizia fascista seguì e perseguì il fenomeno si oppone ad ogni valutazione riduttiva dello stesso.
Le carte di polizia sono illuminanti anzitutto sull’apporto dei cattolici all’organizzazione clandestina. Anzi i primi ad essere scoperti – molto prima dei capi, Vinciguerra e Rendi – a Verona agli inizi dell’ottobre 1930 furono degli ex-popolari assieme a socialisti. In particolare sono interessanti i risvolti dell’arresto del professor Umberto Gelmetti, ex- popolare arrestato il 25 settembre 1930 su accusa di altri arrestati per aver riprodotto le circolari 1, 2, 3, 4 dell’Alleanza nazionale. Dal verbale di polizia risulta, in base alle sue dichiarazioni che:
“egli non era mai venuto in possesso, né aveva visti libelli antifascisti di alcun genere, dichiarava che soltanto nella decorsa primavera, trovandosi a Trento, vide nelle mani di un alto prelato del luogo, del quale sconosceva (sic) il nome, una circolare dattilografata in due o tre fogli, diretta con firma anonima ‘I VOSTRI DIOCESANI E I CATTOLICI MILANESI’ contro il Cardinale Schuster di Milano”.
In detta circolare, secondo Gelmetti, si accennava all’errore commesso dal Cardinale Schuster nell’aver affermato in una lettera da lui diretta al Segretario Politico del Fascio di Milano, in occasione del Decennale dei Fasci di Combattimento, che il Papa e la Chiesa “avevano benedetto il Fascismo nelle sue origini”.
Il documento cui faceva riferimento il Gelmetti era in realtà noto al Ministero. I motivi della protesta dei cattolici milanesi – trecento erano i firmatari della lettera e pare che fra questi vi fosse anche Stefano Jacini – erano motivati soprattutto dall’affermazione del cardinale che “l’Italia cattolica e il Santo Padre sino dalla prima ora hanno benedetto il fascismo ed hanno concepito grandi speranze sulle giovani forze del Fascismo stesso”. Il cardinale veniva accusato di dimenticare le violenze che in più occasioni i fascisti avevano messo in atto contro i cattolici, e soprattutto l’ostilità più volte manifestata contro l’azione cattolica.
Ma di tutta la vicenda delle ostilità che suscitava la figura di Schuster – sia in ambienti cattolici ostili al regime sia anche in sacerdoti fascistissimi – è interessante in questa sede il fatto che essa superasse i confini della diocesi di Milano e divenisse quasi simbolo presso certo ex-popolarismo di contestazione verso i settori della gerarchia ecclesiastica più favorevoli a forme di legittimazione ideologica del regime. Quale collegamento ci fosse fra questi ex-popolari e padre Enrico Rosa S. J., direttore de “La Civiltà Cattolica” non è possibile dire. Il primo storico dei rapporti fra mondo cattolico e fascismo a parlare dell’apporto dato da padre Rosa alla diffusione delle circolari dell’Allenanza nazionale è stato Richard Webster che a sua volta, si basa sulla testimonianza di Luigi Salvatorelli. Comunque si tratta di tradizione orale, fondata sul dato incontestabile che padre Rosa era personalmente ostile al regime ed era arrivato a provocare il sequestro di un numero de “La Civiltà Cattolica” ove paragonava il Concordato sottoscritto con Mussolini con quello napoleonico: “Mussolini, come l’imperatore, intendeva fare del concordato un instrumentum regni,” suscitando le proteste della Chiesa che rifiutava ogni compromissione – nella interpretazione del gesuita – con un sistema politico. Mancano prove documentarie d’appoggio dell’attività di diffusione delle circolari dell’Alleanza esercitata da padre Rosa.
Il cospicuo numero di ex-popolari che cade nella rete della polizia fascista a Verona non è comunque un caso limitato al Veneto, come pensa Webster. Ad Ancona la percentuale di ex-popolari era parimenti alta, anche se pare che il centro motore della organizzazione fosse certo Aldemiro Nacci, di professione tipografo, che la polizia fascista qualifica come “anarchico sfegatato”. Mentre in Liguria la maggiore personalità affiliata al movimento era il professor Giuseppe Rensi, docente di filosofia, qualificato come “socialista non biografato”, ma che, in realtà, aveva precedenti politici democratico-repubblicani. Figurava fra gli arrestati anche un certo Tito Rosina, ex attivista del movimento clandestino “Italia Libera”.
Comunque, dal quadro generale che possiamo trarre dalle carte di polizia emerge una partecipazione all’organizzazione clandestina che coinvolge ex-popolari, socialisti d’ispirazione riformista, repubblicani, democratici di diversa estrazione, e qualche anarchico. Parteciparono o sodalizzarono con l’Alleanza anche il duca di Cesarò e Zanotti Bianco; il finanziere Ferlosio fu il finanziatore del movimento che fu visto di buon occhio anche da Benedetto Croce. Sono completamente assenti i comunisti che, evidentemente, non potevano sottoscrivere un movimento i cui principi erano profondamente legalitari, e che, anzi, nella ispirazione di fondo, intendeva provare che in Italia esisteva un antifascismo non comunista, e soprattutto era possibile dare uno sbocco statutario di tipo liberaldemocratico alla lotta contro il fascismo.
La dinamica dell’arresto dei capi dell’organizzazione, Vinciguerra e Rendi, oltre che della madre di de Bosis, cui Lauro sfuggì perché si trovava in America da metà settembre, è nota. Vinciguerra fu sorpreso mentre impostava le lettere; Rendi fu arrestato perché, sospettato per i frequenti contatti con Vinciguerra, furono trovate a casa sua le macchine da scrivere con cui erano state battute alcune circolari della Alleanza; mentre la madre di Lauro, Liliana Vernon, fu tratta in arresto perché teneva in casa il ciclostile con cui erano stati riprodotti esemplari delle varie circolari. Questi arresti avvennero fra la fine di novembre e gli inizi di dicembre del 1930. L’organizzazione fu sostanzialmente decapitata, anche se continuò una certa attività, promossa da de Bosis da Parigi, nella prima metà del 1931. Nel corso del processo il regime potè gettare fango su Lauro e sua madre per la lettera che il primo aveva scritto all’ambasciatore italiano a Washington ove si dichiarava fedele al regime per ottenere l’incarico di rappresentanza in Italia della “Lega per l’educazione nazionale”: sarebbe stata una buona copertura per poter viaggiare e contattare molte persone. Mentre la madre di Lauro si compromise con una lettera di sottomissione al duce, condizione perché gli altri suoi figli non avessero la carriera stroncata.
La lettera, nonostante le promesse contrarie, fu resa di pubblica ragione. Vinciguerra e Rendi furono condannati a quindici anni di carcere, che furono poi ridotti a sette. Era una pena durissima che si giustifica solo con la volontà del regime di dare una lezione feroce agli ambienti costituzionali che intendessero manifestare intenzioni ostili al regime. Mi sembra acuta, a questo proposito la notazione del quotidiano di Tunisi “Le Petit Matin” del 22 dicembre 1930 – che non era sfuggita alla polizia – a proposito del fatto che questo processo era il primo “a far tradurre innanzi al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato non dei rivoluzionari o dei comunisti, ma dei semplici cittadini cattolici e monarchici operanti in nome delle opinioni liberali”. Con qualche riserva per la troppo restrittiva delimitazione a cattolici e monarchici, l’osservazione era comunque valida.
Ma allora quali reali possibilità di successo aveva il movimento suscitato da Lauro de Bosis? E se scontiamo, come pare legittimo, che queste in realtà non ci fossero, quale fondamento aveva la sua convinzione della ostilità della Chiesa e della Monarchia verso il fascismo?
Per quanto riguarda la prima, va anzitutto detto che motivi di ostilità c’erano e per quel tanto che si manifestavano, riguardavano due punti essenziali: l’educazione cattolica della gioventù e l’Azione cattolica, che la gerarchia ecclesiastica considerava tramite essenziale per mantenere uno stretto contatto con la società civile. Il secondo punto avrebbe scatenato una crisi molto grave fra Chiesa e regime nella estate del 1931 – dopo le crisi che pure c’erano state prima della firma dei Patti – anche perché la Conciliazione aveva rinfocolato nel mondo cattolico la convinzione che fosse giunta l’ora per la creazione di una monarchia cattolica. La Conciliazione, insomma, crea un clima di effervescenza e di grandi aspettative nel mondo cattolico che si traducono anche in uno sforzo di espansione organizzativa, certo non visto di buon occhio dal regime fascista. Perché se andiamo al fondo delle crisi, dei contrasti, o delle potenzialità di contrasto che pure vi furono fra mondo cattolico e fascismo – ma badando bene a non esaltarne troppo la portata – vediamo come esse non fossero tanto radicate in motivi di ordine ideologico. Per intenderci, i conflitti non si muovevano sulla base delle incompatibilità fra il vecchio popolarismo e l’ideologia totalitaria del regime, ma piuttosto per la stessa presenza di una organizzazione di massa, con oltre un milione di iscritti, che non era antifascista, ma che non era integrata nelle organizzazioni del regime. La Santa Sede difese strenuamente la sopravvivenza del laicato cattolico organizzato e fu vittoriosa in questa battaglia, grazie alla grande duttilità con cui seppe piegarsi alle pressioni del regime nel 1931, senza cedere sull’essenziale e recuperando le posizioni perdute a partire dalla metà degli anni trenta.
L’errore di valutazione compiuto da de Bosis stava, dunque, nel confondere Azione cattolica e dissidenza degli ex-popolari. Questi ultimi in parte ancora sopravvivevano nelle file dell’Azione cattolica, ma a condizione che non si trattasse di personalità eminenti e note del popolarismo e a condizione che non manifestassero in alcun modo il loro antifascismo, salvo ad essere emarginati dall’or-ganizzazione. La Santa Sede accettava il conflitto con il regime per mantenere saldi i punti di raccordo con la società civile, ma non per difendere posizioni politiche o ideologiche che essa stessa non condivideva. Il fatto poi che esistessero sacerdoti o vescovi o gesuiti dalle personali opinioni contrarie al regime non modificava nella sostanza il quadro delineato.
Per quanto riguarda la monarchia, è sufficiente rinviare alle osservazioni sempre acute di Renzo De Felice a proposito della volontà di Mussolini, tanto più in questa fase, di risolvere i rapporti con la monarchia “senza scosse e col tempo – quando cioè il suo peso nella diarchia fosse diventato superiore a quello del re, assai probabilmente, quando, con la morte di Vittorio Emanuele III, il problema fosse venuto naturalmente sul tappeto”. E, a conferma di questa tesi, De Felice fa riferimento proprio alle forze armate e alla opposizione del duce ad ogni progetto di radicale fascistizzazione che pure gli veniva presentato “perché sapeva che ciò gli avrebbe creato gravi difficoltà con la monarchia”. Mi pare evidente che se Mussolini, disponendo di un osservatorio certo migliore di quello di de Bosis e dei suoi amici dell’Alleanza nazionale, avesse creduto in una minaccia che poteva venire dal re o dall’esercito avrebbe tenuto una linea diversa.
I mesi che succedono all’arresto di Vinciguerra, Rendi e della madre sono mesi che potrebbero essere definiti, con una formula cara a certa agiografia mazziniana, della tempesta del dubbio. Compie il primo tentativo aereo fallimentare in Corsica nel luglio 1931 ed è poi costretto a riparare in Inghilterra per sfuggire alla cattura. (Dalle carte della polizia sarebbe risultato anche un suo viaggio in America in quella estate del 1931 perché viene intercettata una sua lettera alla madre, proveniente dagli Stati Uniti, del 10 settembre 1931, ove Lauro si rammarica con la madre di aver trascinato anche lei nella via da lui percorsa e per causa sua averla esposta a tanti guai).
Traspare da questi studi la concezione di un liberalismo che non si lascia cristallizzare in un apparato istituzionale fisso ed immutabile, ma che si evolve con la storia, che deve sempre rispondere ad una sfida permanente di rinnovamento e di adattamento alle circostanze. Questa “religione della libertà” esprime la sua fede laica in una crescita umana e civile nella quale la “negatività”, che nella fattispecie concreta è rappresentata dalla dittatura fascista, non rappresenta altro che una caduta momentanea, una parentesi, come avrebbe detto Croce. Questo, tuttavia, non comporta in de Bosis una assuefazione passiva alla realtà del regime. Egli è un eroe mazziniano, come l’ha descritto acutamente Piero Calamandrei nel magistrale ritratto di Lauro de Bosis disegnato nel quinto anniversario della Liberazione. È un eroe del Risorgimento che opera una sintesi di pensiero e di azione; il suo ottimismo liberale non prescinde dall’impegno concreto fino al sacrificio della vita per gli ideali in cui crede.
È facile osservare che la sua visione di una battaglia individuale contro il fascismo è più il frutto di una cultura ottocentesca, che non il portato della consapevolezza della forza dei mostri totalitari del novecento. Nella sua statura di eroe romantico, de Bosis non è toccato dal pessimismo della ragione individuale proprio dell’uomo del novecento. Ma a torto lo ridurremmo negli ambiti angusti di una cultura tutta ottocentesca. Nello scritto sull’Unità europea rivela una sensibilità tutta gobettiana quando esalta il progresso attuato dall’internazionale socialista, “la forza che ha fatto la parte del liberalismo contro le vecchie forze conservatrici”, pur additando i rischi che essa corre di divenire portatrice di dispotismo.
Come è del tutto ingiusto e ingiustificato ridurre il suo ottimismo a leggerezza, come fa Prezzolini, per tornare al punto di partenza del mio intervento; come è ancora fuorviante ridurre la figura di Lauro a quella di “un martire cavalleresco che si è sacrificato per l’onore”. Egli, come abbiamo visto anche nella lettera scritta alla madre, non ha alcuna speranza di successo immediato. Cionostante ritiene che il suo sacrificio non sia inutile; la sua fede laica gli permette di credere nella immortalità delle opere, anche le più anonime, anche se perdenti, purché votate ad un grande ideale. In una delle sue pagine più significative ed illuminanti del senso della sua vita, scrive:
“Coloro che hanno collocato il loro amore nelle cose eterne sono più immortali di quelli che lo hanno dedicato alle cose periture, e delle due categorie di individui sono più immortali quelli che amano cose grandi e sono pronti a morire per esse (…) L’immortalità non è figlia della morte ma dell’amore”.
La sua volle essere una testimonianza di verità, costasse quello che costasse, perché era certo che alla fine la verità avrebbe trionfato, e Lauro sarebbe stato partecipe di questo trionfo.
 
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Così, infine, ebbe a esprimersi Piero Calamandrei, illustre giurista e uomo politico, nella commemorazione del volo, il 25 aprile 1951, ventennale della scomparsa di Lauro.
“… dobbiamo ricordare che chi primo lanciò il grido nel silenzio sconsolato furono gli uomini isolati ed esemplari che anche negli anni del buio seppero segnare la strada e mantenere la continuità tra il primo e il secondo Risorgimento. La Resistenza è stata possibile perché Cesare Battisti, eroe che ricongiunge due secoli, è stato impiccato; perché Matteotti è stato pugnalato; perché Amendola è stato abbattuto dai sicari e Gobetti stroncato a bastonate; perché i Rosselli sono stati assassinati; perché Gramsci è stato fatto morire in galera; perché Lauro de Bosis si è inabissato nella notte dopo avere assolto il suo voto. Sono essi i precursori della Resistenza; essi i fratelli di tutti i caduti dell’ultima guerra, di tutti i torturati dai tedeschi, di tutti i trucidati dai fascisti, di tutti gli scomparsi nei campi di deportazione.
Così, come Salvemini, Spadolini e gli altri testimoni e autori citati, anche Calamandrei pone in luce l’aspetto “risorgimentale” dell’azione di Lauro e il suo legame tra la Resistenza al fascismo e la Guerra di Liberazione, dodici anni dopo.
 
Testimonianze
 
 
 
1 bis, rue Vaneau VIIº
15 octobre 33
 
 
Mon cher Aveline,
Tous mes remerciements pour l’envoi (pas encore reçu) du Lauro de Bosis. Je connais déjà et Icare et l’admirable testament, ayant eu en mains tous les documents de cette héroïque et mortelle aventure; mais suis heureux d’avoir ce volume et de le tenir de vous.
Bien cordialement votre
 
André Gide
 
 
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Copie d’une lettre à Gide
16.10.33
 
 
Mon cher ami,
Je n’ai pas oublié que vous avez eu entre les mains tous les documents concernant l’aventure et la mort de Lauro de Bosis. Je n’ai pas oublié non plus notre entretien, le jour où je suis venu vous demander la préface que nous rêvions d’avoir de vous. Vos scrupules ont arrêté ma prière. Mais ces scrupules, ces objections, qui ne pouvaient prendre place dans un avant-propos, ne les verrons-nous pas exprimés dans quelche page de votre journal? Tous les amis de Lauro de Bosis souhaitent de voir son nom ecrit par André Gide et ils savent bien que vos réserves seront encore sous votre plume un grand hommage à une charmante et belle mémoire.
Votre toujours fidèle
 
Claude Aveline
 
 
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Bougie 10.12.33
 
Cher et illustre confrère,
Je ne sais comme vous remercier de l’envoi de l’Icare dont la lecture m’a ravi. Il a eu la change de trouver un traducteur grand poète M. Ferdinand Hérold, dont j’ai toujours admiré la sensibilité et le talent. C’est un monument digne de Lauro de Bosis que la France a dédié à sa mémoire. Encore merci, et en vous souhaitant un heureux Noël et toutes sortes de félicités pour 1934,
Agréez, cher et illustre confrère, l’assurance de mon admiration et de mon dévouement.
 
Teixeira-Gomes
 
 
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Northampton Mass.28 Novembre 1933
 
 
Cher Monsieur Aveline,
J’ai reçu le livre de mon cher, héroïque, inoubliable ami Lauro de Bosis. Je trouve la traduction très belle: elle fait ressortir admirablement toutes les intentions du texte.
C’est avec émotion que je vous remercie de m’avoir fait l’honneur de me l’envoyer.
 
G. Ant. Borgese
 
 
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le 10 Décembre 1933
 
 
Monsieur,
J’ai tardé à vous remercier du très beau livre, Icare, que vous m’avez envoyé. J’ai moins tardé à écrire un article pour la N. R. F. destiné à réveiller énergiquement le souvenir du héros. Je ne puis m’empêcher de regretter ces méthodes de lutte, qui, par la mort de l’homme libre, donnent force au tyran. Mais la beauté du geste est toute pure. La lettre finale, Histoire de ma Mort, est sublime: et le drame d’Icare égale les plus hauts qu’on puisse lire. Honneur au traducteur qui a tant sauvé de la poésie originale. Graces à Romain Rolland, qui paraît toujours justement où on l’attend, et à vous, Monsieur, qui avez transformé en objet ce précieux livre. Lauro de Bosis nous a quittés; c’est donc que nous avions oublié la liberté chérie. J’ai résolu de ressentir ce départ comme un mépris. Mais d’un autre côté, je sais, et voudrais faire entendre, que le devoir d’un homme libre n’est jamais de mourir. C’est ainsi que cet ange flamboyant me divise contre moi-même. Encore merci à vous, et message fraternel à tous les amis du héros.
 
Alain
 
 
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Cassis 31 Octobre 33
 
Cher ami,
J’ai reçu votre lettre et j’apprends que le beau livre de Bosis est arrivé chez moi à Belleme – Je vais le faire venir avec toutes les précautions nécessaires. Je suis bien heureux d’être des privilégiés qui possèderont cette édition de choix. La vie, la pensée, la mort, de Lauro de Bosis éveillent en moi d’autant plus d’émotion, qu’en ce moment, repris entièrement par l’achèvement des Thibault, je vis avec eux dans cette semaine terrible qui a précédé les mobilisations européennes de 1914, où justement, jour après jour, grâce aux machiavéliques dosages de la presse, la fièvre mauvaise de vengeance et haine fratricide montait de degré en degré, collective, contagieuse, irrésistible. C’est vous dire quel accueil je réserve à votre livre.
Le “Testament” de Bosis, lu dans je ne sais plus quelle revue, m’avait déjà profondément bouleversé.
Je pense rester encore cet hiver dans le Midi. Je ne puis donc vous dire “à bientôt”. Mais tout a une fin, même les réclusions laborieuses, et, en attendant, mon amitié ne s’altère pas. Vous n’en doutez pas?
Vôtre
 
Roger Martin du Gard
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Villeneuve (Vaud) Villa Olga
24 Octobre 1933
 
Cher Claude Aveline,
Merci de vos beaux livres. Je félicite sincèrement l’éditeur et les imprimeurs.
Si vous pouviez disposer encore pour moi de deux ou trois exemplaires, je vous en serais reconnaissant. – Mais il ne faut pas que cela puisse vous gêner.
Et combien j’aurais souhaité qu’un de ces volumes pût parvenir à la mère de Lauro! J’ai reçu d’elle, le mois dernier, une lettre bien émouvante, que des amis avaient portée, par dessus les Alpes, pour la mettre à la poste de Chamonix. Si vous aviez quelque moyen de l’atteindre, son adresse est:
Madame Liliana Vernon de Bosis, 36 viale Principe Eugenio, Firenze.
Je vous serre affectueusement la main
Votre dévoué
Romain ROLLAND
 
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Paris le 18 Octobre 1933
 
Monsieur,
Je reçois votre lettre et l’exemplaire Icare que vous avez eu l’amabilité de m’offrir.
Je vous suis infiniment reconnaissant de m’avoir procuré l’occasion de savourer les beautés poétiques de ce livre édité par vous soins, et vous prie d’agréer, Monsieur, l’assurance de ma considération très distinguée.
 
 
S. Madariaga
 
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Meudon
10, rue du Parc
17 Octobre 1933
 
Mon cher Claude,
Je viens de recevoir l’exemplaire d’Icare que vous avez bien voulu m’envoyer et je vous en remercie de tout coeur. Je serai heureux de lire le drame et le “testament” de l’héroïque Lauro de Bosis…
Quand vous verra-t-on à Meudon? J’espère que ce sera bientôt. Je pense souvent avec émotion à votre dernière visite.
A vous bien affectueusement.
 
Jaques Maritain
 
 
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20 Octobre 1933
62, rue Pierre Charron
Paris 8º
 
Monsieur,
Je viens de recevoir l’Icare de Lauro de Bosis. J’ai aimé Lauro de Bosis. Je regarde aujourd’hui son livre avec une dévotion profonde. Je vous remercie d’avoir édité le livre et de me l’avoir envoyé. Je ne manquerai pas de faire de mon miex pour que la renommée de Lauro de Bosis et la valeur de sa voix soient répandues.
Agréez, Monsieur, mes sentiments bien dévoués.
 
Lionello Venturi
 
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32, Chepstow Villas
London W.ll
22.X.33
 
Monsieur,
Je vous remercie beaucoup d’avoir pensé à moi en envoyant un exemplaire de la traduction d’Icare de Lauro de Bosis.
Le souvenir du jeune poète et héros est toujours présent à ma pensée et à mon coeur: et l’Italie de l’avenir ne l’oubliera jamais.
Veuillez agréer, Monsieur Aveline, mes sentiments très dévoués
 
Luigi Sturzo
 
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Paris, le 24 Octobre 1933
 
Cher Monsieur,
J’ai reçu de votre part la belle édition française de Icaro.
Ami des lettres et italien qui a cru être son devoir de tout sacrifier à l’amour de la liberté, j’éprouve une profonde reconnaissance vers tous ceux qui coopèrent à l’exaltation du souvenir de Lauro de Bosis. Il est voué à l’immortalité comme tous les poètes qui ont sanctifié leur rêve par une mort glorieuse.
Lauro de Bosis, qui est aujourd’hui un héros pur parmi les antifascistes, sera demain pour tous les italiens un des saints martyrs du deuxième “Risorgimento” de notre patrie.
Merci donc, Monsieur, à vous, à Miss Draper et à Messieurs Rolland et Hérold.
Votre très dévoué
 
Alberto Tarchiani
 
 
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(telegramma)
 
14º PC S Roma Quirinale
 
Si compiono oggi quarant’anni dal giorno in cui Lauro de Bosis, nobile figura di antifascista, scomparve nel cielo del Tirreno dopo il solitario volo da lui effettuato su Roma per dimostrare contro la dittatura. Mi è caro in tale occasione, non solo rendere omaggio alla memoria, ma testimoniare l’ammirazione e la gratitudine che l’Italia restituita a libertà deve a lui e alla purezza del suo eroismo. Il suo fu un atto di sfida del cui rischio egli fu pienamente consapevole. Tanto consapevole da dettare, prima di compierlo, quella “Storia della mia morte” che non possiamo rileggere senza commuoverci e che è bene richiamare ai dimentichi e additare ai giovani. Trentenne, poeta, innamorato della vita, egli fece nondimeno volontario e cosciente dono di essa per l’affermazione degli ideali di libertà. Esempio per tutti, desidero dirle nella presente ricorrenza che il ricordo di Lauro de Bosis non perirà.
 
Giuseppe Saragat
 
 
(telegramma)
 
Signora Charis Cortese de Bosis
Via Giovagnoli, 25
00152 Roma
 
Cinquant’anni orsono, la sera del 3 ottobre 1931, Lauro de Bosis, giovane generoso, con grande coraggio, compiva un’impresa che si sarebbe conclusa tragicamente, come lui stesso aveva presagito. Con la sola forza dell’ideale e della fede nella libertà, lanciava la sua sfida alla tirannide fascista, realizzando il suo audace volo propagandistico per risvegliare le coscienze degli italiani al culto di quei valori per i quali si erano immolate intere generazioni di patrioti. La “Storia della mia morte” di Lauro de Bosis resta un esemplare testamento spirituale per quanti si volgano a cercare, in momenti di crisi morale, un sicuro punto di riferimento nella lotta per la democrazia. Con questi sentimenti desidero esprimerLe, gentile Signora, il mio comosso ricordo e quello degli italiani tutti per la figura sempre viva di suo fratello Lauro
 
Sandro Pertini
 
 
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I sottoscritti membri del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale dichiarano di avere tenuto più volte, durante l’occupazione tedesca di Roma, riunioni plenarie del Comitato nell’appartamento abitato dalla sig.ra CARIS DE BOSIS in Via Due Macelli, 66 da questa cortesemente e coraggiosamente offerto.
 
Nel documento qui sopra riprodotto, in ordine, compaiono le firme autografe di: Ivanhoe Bonomi, Meuccio Ruini, Pietro Nenni, Giovanni Gronchi, Mauro Scoccimarro, Alcide De Gasperi, Sergio Fenoaltea, Giorgio Amendola.
 
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[qui le riproduzioni di alcuni manoscritti. Nota per l’edizione elettronica (e-text)]
 
EPILOGO
 
 
 
“Icaro cadde qui”. Così scriveva Jacopo Sannazaro nel sonetto caro a Lauro de Bosis: caduto, non dimenticato. Il nome di Lauro rivive nell’affetto dei suoi congiunti ed è rievocato ogni giorno nella più celebre università degli Stati Uniti. Il destino ha voluto che l’ideatore di Alleanza Nazionale per la libertà desse vita, con la sua morte, ad un alleanza culturale tra Italia e America: che si concreta con l’ospitalità offerta da Harvard ad esponenti della nostra cultura, presso la cattedra intitolata al nome di Lauro: “the Lauro de Bosis lectureship on Italian civilization”.
Il loro compito è dei più importanti per l’Italia e per l’America: confermare e arricchire quell’intimo rapporto di interdipendenza culturale tra due paesi appartenenti alla stessa civiltà. Una generosa e intelligente iniziativa di Ruth Draper – compagna di Lauro in Italia e in esilio – ha reso possibile fin dal 1934 l’istituzione del Comitato Inter-disciplinare sulla Civiltà Italiana che per più di sessant’anni ha ricordato il gesto di Lauro. Ruth Draper aveva intuito che legare il nome di Lauro alla diffusione della cultura Italiana in America era il tributo più nobile e più gradito alla sua memoria.
Il Presidente della Harvard University, Professor Conant, non esitò ad accogliere l’iniziativa, anche se autorevoli simpatizzanti americani del fascismo tentarono tenacemente di impedirglielo. Ma l’ateneo è sovrano. E la decisione favorevole di Conant rese possibile questa istituzione veramente unica nei rapporti tra Italia e America.
Il primo titolare fu Gaetano Salvemini, come sappiamo, amico e maestro di Lauro, una delle poche ma eloquenti voci italiane che dall’estero denunciavano puntualmente, con scrupoloso senso della verità storica, quella politica dissennata del fascismo che avrebbe portato l’Italia a coinvolgersi in otto guerre o interventi unilaterali nello spazio di sei anni: 1935-1941. Fino alla catastrofe finale.
Da Gaetano Salvemini a Dante della Terza, autorevole Direttore del Dipartimento di Filologia Romanza di Harvard. L’elenco degli uomini di cultura, veri ambasciatori della nostra civiltà antica e moderna, non ha bisogno di commenti. Fra gli altri: S. Quasimodo, F. Venturi, G. Spini, R. Prodi, P. Sylos-Labini, F. Farneti, V. Frosini, S. Romano, V. Branca, F. Chiapelli e altri illustri docenti.
Se oggi il governo Italiano potesse e sapesse promuovere la creazione di analoghe “ambasciate culturali” in seno alle maggiori università del più importante paese del mondo, l’immagine dell’Italia in America, ne risulterebbe riequilibrata e arricchita.
Si tratterebbe in fondo, ricordando le parole con cui Lauro descrisse il suo gesto, di fornire un “atto di spirito civico.”
Per l’Italia.
 
Introduzione
di Plinio Perilli
 
 
 
“Ce lo leveremo d’addosso, ma ci vuole tempo”…
Come invocando presto il conforto propedeutico d’un urgente e nudo controestetismo, d’una provvidenziale e volitiva cura omeopatica, così il giovane Lauro De Bosis, figlioccio ideale del Vate Imaginifico, additava e stigmatizzava il proprio stesso “cimurro dannunziano”. Primi anni Venti, vocazione generazionale, versi adolescenziali, lirismi atavici, davvero ancestrali, predestinati:
Ciascun mattino mille vivi cuori
S’empion di gioia alla novella luce.
Ciascun mattino nuova forza adduce
Novelli canti e più novelli amori.
 
Dunque, fanciullo sta sereno e pensa
Che i tuoi tormenti e la tua gioia frale
Son le pallide note di un’immensa
Singonia che trascende il bene e il male
 
Lauro era figlio di un personaggio importante e stimato, nel panorama dell’Italia tra fine Ottocento e inizio secolo: quell’Adolfo De Bosis amico e sodale di D’Annunzio, direttore dell’allor celebre rivista “Il convito”, antipositivistica e votata ad accarezzare e codificare le istanze d’un aulico, accentuato romanticismo decadente ed estetizzante. I collaboratori, oltre all’autore del Piacere e de Le vergini delle rocce (che uscì appunto sul “Convito” fra il 1894 e il ’95), erano il Giovanni Pascoli degli appunto battezzati Poemi Conviviali, ed altri artisti e grandi figure intellettuali quali E. Scarfoglio, A. Venturi, G. Sartorio… Adolfo era anch’egli poeta, sensuale, raffinato, fra il dannunziano e il preraffaellita (Amori ac silentio sacrum, 1900), nonché apprezzato traduttore del Prometeo liberato di Shelley.
Per questo abbiamo parlato del figlio Lauro come d’un predestinato: culturalmente, liricamente, finanche politicamente. Nato nel 1901, col Secolo, non poté davvero esimersi dal nutrirsi e impastarsi d’ogni cara, fulgida retorica potentemente in auge. Ma forse proprio questa dispiegata preparazione psicologica – il privilegio d’un Idealismo incarnato, d’un Estetismo praticato, risolto già in casa, anzi per medesima connotazione, felice patologia, tara e dono di sangue – lo condusse fuori bellamente, verso altri lidi, altri convincimenti, egualmente nobili ma certo più aderenti ai tempi nuovi, e alla difficile situazione politica dell’Italia anni ’20, in avanzato grado di fascistizzazione.
Sfebbrò da solo, Lauro, redento in proprio, emancipato da ogni vacuo trionfo estetico o idealizzazione dorata quanto inattendibile. Non poco, certo, lo aiutò anche l’internazionalità, l’estraneità sapienziale della madre (Lilian Vernon, americana, figlia d’un pastore protestante metodista) a quel Gotha Italico, a quel Parnaso elegante ma troppo accondiscendente con una dittatura di destra inventata, sublimata con drammatico cinismo da un ex trascinante oratore socialista, vecchio compagno di galera con Nenni, e ora circondato e duce di scombiccherate, gaglioffe squadracce da combattimento pagate, in nome d’una sacra crociata contro il bolscevismo, coi soldi degli industriali del Nord e dei gattopardi o latifondisti del Sud, e benedette dalla trasparente, cauta ma consenziente ambiguità della Chiesa, presto avviata all’utile, affaristico concordato dei Patti Lateranensi (1929)…
“Gli anni formativi della sua adolescenza” – rievoca il grande, affettuoso rispetto memoralistico d’un Gaetano Salvemini – “videro la prima guerra mondiale (1914-1918) e quella crisi di smarrimento che aprì la via al trionfo di Mussolini (1919-1921). Lauro seguì con simpatia la prima fase del movimento fascista. (…) Ma non prese mai parte attiva in quel movimento. La politica non lo interessava. Gli studi lo assorbivano intero. D’Annunzio era allora l’idolo della gioventù. Lauro ne subì l’influenza. (…) In politica era ‘liberale’ come Croce, nel senso che la parola aveva allora in Italia, cioè era un conservatore dell’Italia quale era stata creata dal Risorgimento”… I suoi miti, le sue aspettative e in fondo anche i suoi errori di valutazione, furono in realtà quelli di tutti, anche della migliore intellighenzia; conferma Salvemini, il grande storico e antifascista, fondatore nel ’25, coi fratelli Rosselli, del periodico clandestino “Non mollare”, poi esule in USA dal ’34 al ’47: “Croce prese posizione netta contro il fascismo solo nel 1925, dopo che Mussolini ‘era andato troppo avanti’, demolendo ogni reliquia delle libertà costituzionali italiane. Lauro stesso, nel 1931, nella prefazione all’opuscolo dell”Allenza Nazionale’, indicò il 1925 come l’anno critico della politica italiana”…
Così si era formato Lauro, frutto adolescente d’un’intera epoca dello Stile, del Gusto, di Amori Sensuali o Letterari, di Liberata, Sconfinata Retorica:
 
 
Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi (mirti,
o semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra,
Italia, Italia,
sacra alla nuova aurora
con l’aratro e la prora!
– sono i versi roboanti ed enfatici del “Canto augurale per la nazione eletta”, che D’Annunzio intonò proprio nel 1901, anno natale di Lauro, nome, cuore poetico per eccellenza…
L’Imaginifico, poi Orbo Veggente dopo l’incidente aviatorio e le gesta di guerra, aveva salutato il nuovo secolo col romanzo Il Fuoco (l’amore con la Duse, la morte di Wagner a Venezia), aveva abbracciato la grande poesia col terzo libro delle Laudi, Alcyone (1904), per sperdersi poi nelle liiriche celebratorie e propagandistiche di Merope (1912) e Asterope (1914-18): la canzone d’oltremare, quella del sangue, del sacramento, dei trofei, dei Dardanelli… Cielo e Mare, Terra ed Eroi – tutto vi confluiva… supremo “Annunzio” dedicato alle Pleiadi e ai Fati! Aggiornatissimo pre-futurista, classicheggiante padre in pectore di tutte le avanguardie e gli esibizionismi di Modernità, il Gabriele nazionale aveva all’uopo dedicato un intero romanzo, Forse che sì forse che no (1910), ai primordi dell’arte e della tecnica aviatorie, infuse nel personaggio di Paolo Tarsis, alter-ego o proiezione del Vate, esteta fanatico di macchine ed aeroplani… L’intero finale del libro, con Paolo disperato perché Isabella, ormai impazzita, viene rinchiusa in casa e gli è impedito di rivederla – e con Paolo senza speranza che prende allora il suo aereo e decide di tentare un volo senza ritorno, immolandosi come supremo esorcismo esistenziale… Ma il viaggio, il volo giustappunto romanzesco riesce, e Paolo, trasvolatore fatale, approda dal continente alla Sardegna, liberato e quasi riscattato verso e contro il sole…
Inquietante, profetico “prologo” letterario, scritto, d’una vicenda, d’un’emozione suprema che Lauro De Bosis, allora bimbetto, vivrà poi davvero, e con ben altre implicazioni morali, etiche, politiche – fuor da ogni banale o superomistico estetismo allora di moda…
 
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Certo è che questi nuovi Icari futuristi seducevano in pieno l’immaginario dei tempi, anche se D’Annunzio, cominciando nel 1909 il campo d’aviazione romano di Centocelle, e intrattenendosi col famoso tenente Calderara per mettere a punto una nuova terminologia aviatoria per il romanzo, rimaneva insoddisfatto delle espressioni tecniche come “sterzare”, “planare”, “aeroplano” – preferendo, ad esempio, la più lieve e lirica parola “velivolo”, consacrata da Ovidio e da Virgilio… Il Futurismo chiedeva lumi alla classicità.
Già, il futurismo! Neanche quel germe mancava, nel non piccolo elenco di malattie virali esantematiche che aveva dovuto patire, attraversare il giovane Lauro: “Risveglio dell’idealismo” – scriveva Boccioni nei suoi taccuini – “La vita prende forma nell’ideale. Quindi lo stile contiene il rinnovarsi della fiamma-idea”. Mutava l’arte, mutava il mondo, ma le fiamme-idee lottavano, vincevano o soccombevano con gli stessi sentimenti di sempre, i medesimi perigliosi gorghi di civiltà, le correnti, marine o aeree della Storia: “Accennare con la forma ai voli dell’anima”, annotava Boccioni nel 1907. E ricopiava dall’epistolario di Wagner una confessione drammaticamente egocentrica: “Io mi rendo sempre più conto che la vera causa di tutte le mie sofferenze consiste unicamente nel fatto di non poter rinunziare definitivamente alla vita e alle ambizioni”. Oppure raccontava ammirato una corsa automobilistica al circuito di Brescia: “Mi sembrava di vedere gli eroi nuovi! Sarà vero? Certo che in quelle corse meravigliosamente fantastiche c’era l’idealità eterna della conquista. Bisogna trasformare in materia d’arte il tutto”. Quando Boccioni morirà, l’amico, sodale e capoplotone Marinetti, gli dedicherà con la penna un ritratto indimenticabile, che ora vale anche per quel momento artistiico, quel morbo seducente e nuovo: “Il futurismo plastico che egli amò era la nuova Italia ebbra cosciente improvvisatrice e volitiva, tutta ad angoli prepotenti, a spirali volanti, a colori belli, così assolutamente opposta alla vecchia Italia scialba cascante molle e stupidamente fronzoluta”…
Un manifesto futurista del 1916 teorizzava “La nuova religione morale della velocità”; quei poeti cantavano l’aereo, il treno, la torpediniera: “voleremo insaziabilmente!” invoca Enrico Cavacchioli in “Fuga in aeroplano”, e come lui Libero Altomare, Paolo Buzzi, eccetera. “La velocità” – commenta Mario Verdone – “consente di uscire dalla dimensione terrestre, di acquistare una coscienza cosmica”…
Intanto, in attesa della marinettiana, ardente quanto improbabile “ricostruzione futurista dell’Universo”, il nostro giovane e baldo Lauro smaltiva i postumi di queste e tante altre influenze: un’antica ipoteca postromantica, anzitutto (i privilegi paradossali in 23 articoli che invocava e “brevettava” Stendhal: “Articolo 23 – Dieci volte l’anno il privilegiato potrà venir trasportato nel luogo in cui vorrà, alla velocità di cento leghe l’ora; durante il viaggio dormirà”; o il pathos irrefrenabile di De Musset quando stila in quartine “L’heure de ma mort”):
Da un anno e mezzo l’ora della morte
suona da ogni lato alle mie orecchie
… Tutto,
persino il mio riposo è una battaglia;
si consuma e si prodiga lottando
la mia forza, e così come un destriero
spossato di fatica, barcollando
stramazza a terra spento il mio coraggio.
 
Ainsi je caressais une folle chimère… Oh, sì, davvero troppe chimere poetiche affollavano le menti dei giovani del nuovo secolo, dai Canti orfici di Campana (“Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra”, – delira ne “Il viaggio e il ritorno” – Tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore”), all’Apollinaire di Alcools:
È Cristo che sale in cielo meglio d’un aviatore
Del primato mondiale d’altezza è lui il detentore
Pupilla Cristo dell’occhio
ventesima pupilla dei secoli questo secolo
Ci sa fare e mutato in uccello come Gesù in aria sale
I diavoli negli abissi alzano il capo a guardare
Dicono che imita Simon Mago in Giudea
Gridano se sa rubar gli spazi di ladro abbia (nomea
Gli angeli intorno al bel volteggiatore volteggiano
Icaro Enoch Elia Apollonio di Tiana
Intorno al primo aeroplano aleggiano
Senza dimenticare il ventoso rutilante Nietzsche poeta di “Al maestrale” (“Liberiamo il litorale / Da Respiri estenuati / E da sguardi scoraggiati!”), o le meditazioni di Miguel de Unamuno sull'”uomo di passione” quale “unico vero ribelle” (“Io ho bisogno dell’immortalità della mia anima, della persistenza infinita della mia coscienza individuale”).
 
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Alla fine del 1924, appena ventitreenne, Lauro De Bosis, invitato dalla società “Italia-America” di New York, visita per la prima volta gli USA e vi tiene conferenze stoorico-letterarie e filosofiche. Tornò molte altre volte: “negli Stati Uniti” – ha ragione Salvemini – “meglio che se fosse vissuto in Italia, Lauro non poteva non aprire gli occhi al significato di quanto avveniva in Italia”. Così come più tardi avverrà con Ignazio Silone e l’esilio svizzero nel quale nascevano i suoi importanti libri, da Fontamara, edito a Zurigo nel 1933, alle opere di battaglia poliitica come Il fascismo (1934) o La scuola dei dittatori (1938).
Nel 1927, con la traduzione dell’Antigone, Lauro intraprende un’autentica svolta, non solo estetica, ma propriamente intellettuale, civile. Nella storia di quest’eroina di Sofocle che viola la legge scritta per obbedire al sacro comando del principio morale e del diritto naturale, nell’adesione a questo classico, Salvemini capta “il primo indice del passaggio all’antifascismo militante”. Vero è anche il suo definitivo svincolarsi da ogni retaggio dannunziano nel suo primo (e unico) testo poetico, Icaro, edito nel ’30. In una lettera del 1931, Lauro ripercorre l’ispirata genesi del suo poema:
“… La mamma mi suggerì l’idea di prendere come soggetto Icarus. Questa le era venuta mentre leggeva un sonetto francese su Icaro del secolo decimosesto… Poi c’era stato proprio allora il volo di Lindbergh. E c’era la memoria di mio fratello che morì a ventitre anni cadendo nel mare come Icaro. Le parole di Erigone nel quinto atto sono veramente quelle della mamma allora. Per diverso tempo avevo desiderato scrivere una tragedia lirica per glorificare il progresso, l’élan vital, nella sua forma indiividuale ed eroica. Il mito di Icaro è quello che incorpora, più di qualunque altro, lo spirito d’oggi. Eppure non era mai stato messo in tragedia”…
Naturalmente i fascisti non compresero il valore metaforico, la viva pregnanza simbolica di quei due miti, Antigone, Dedalo e Icaro. L’episodio ovidiano del giovinetto malinconico per l’esilio forzato a Creta da re Minosse, poi inebriato dal volo e imprudente in alto, più in alto, contro troppo sole – fu considerato un consueto, innocuo soggetto poetico. Nessun alto gerarca o ufficiale della Regia Aereonautica Militare avrebbe profetato fin da allora, dopo i colloqui con Chester Aldrch, presidente della società “Italia-America”, e poi, nel luglio 1930, lo stesso volo dalla Svizzera su Milano di Giovanni Bassanesi e Gioacchino Dolci, lanciando miriadi di manifestini dell’organizzazione repubblicana socialista “Giustizia e Libertà”, il piano di Lauro De Bosis per volare su Roma esortando tutti gli italiani con un messaggio al Re e un altro ai cittadini della Capitale, a porre fine alla loro pigra, ignava acquiescenza al regime fascista. Con diverso intento si ripetevano le dannunziane gesta del volo su Vienna il 9 agosto 1918, con la squadriglia “Serenissima” – e perfino la provocazione del fido legionario fiumano Guido Keller, nel novembre del ’20, ai tempi della Reggenza del Carnaro, quando l’irruento aviatore e avventuriero dannunziano lasciò cadere, volando su Roma, una rosa bianca sul Vaticano, omaggio a S. Francesco patrono nazionale, sul Quirinale sette rose rosse, omaggio alla Regina e al popolo d’Italia, e su Monteciitorio un pitale di ferro smaltato, dedicato ai Signori della Politica…
Lauro “uomo di passione” civile, paladino e alfiere dell'”infinita persistenza” della propria “coscienza individuale”, per dirla con Unamuno, portò a definitiva maturazione la sua scelta di vita in uno dei decenni più torbidi e ingrati nella storia d’Europa. La eroica eredità ottocentesca, mazziniana, garibaldina, savoiarda e massone, che aveva portato nel ’18 a chiudere, con 600.000 morti, la c.d. quarta guerra d’indipendenza e dunque il lungo processo storico e bellico del Risorgimento s’era presto disciolta, annacquata o corrotta nella nuova dissennata marea dell’Era Littoria. Gli intellettuali tacevano, o si schieravano a favore. Bontempelli e il suo movimento ‘900 tuonavano col furore risolutorio ed epocale degli Editti Sommari: “Il secolo XIX finisce col 1915. Il XX comincia col 1922. Tutto il disordine mentale e pratico del 1919 e del 1920 fa parte dell’azione violenta che doveva compiere l’opera della guerra nell’uffizio di chiudere il secolo decimonono in modo deciso e irrevocabile. La guerra e il travaglio del 1919-20 bruciarono fino alla cenere più impalpabile gli ultimi avanzi delle ultime degenerazioni del romanticismo. Col 1922 comincia una grande era antiromantica”…
Le analisi culturali, letterarie, a questo punto, s’intrecciano inestricabilmente con gli eventi politici, e sarebbe assurdo perfino voler inseguire, proporre una cronologia settoriale senza tener conto dei vari campi e versanti in cui tanto drammatici avvenimenti maturarono.
1922:
In Italia, colpo di stato fascista, pieni poteri a Mussolini; creazione dell’URSS. Alvaro, L’uomo nel labirinto. Pirandello, Enrico IV… Gobetti fonda e dirige “Rivoluzione liberale”…
1923:
Stalin primo segretario del partito comunista dell’URSS. Freud, L’io e l’es. Lukàcs, Storia e coscienza di classe. Rilke, Sonetti a Orfeo. Svevo, La coscienza di Zeno…
1924:
Morte di Lenin; riconoscimento dell’URSS da parte degli stati europei; in Italia, scioglimento delle Camere; assassinio di Matteotti. Thomas Mann, La montagna incantata. A Breton, Primo manifesto surrealista. M. Sironi Paesaggio urbano. Maccari, “Il selvaggio”…
1925:
In Italia instaurazione della dittatura fascista. Trotzkij esautorato in Russia. Kafka, Il processo. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte. Montale, Ossi di seppia…
“Soppressa nel ’25 ogni manifestazione di vita democratica, fuoriusciti o ridotti al silenzio col carcere e con la violenza i più prestigiosi oppositori,” – rievoca Salvatore Guglielmino – “Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di ‘mistica fascista’ cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà (…) egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria in quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’ordine ufficiali”… Gramsci su “L’Ordine nuovo” e Gobetti su “La Rivoluzione liberale”, teorizzano un’attività letteraria in rapporto alle questioni più vive della realtà nazionale. Guerra e dopoguerra accentuano la definitiva crisi dei valori borghesi, e i migliori movimenti artistici d’avanguardia portano all’estrema conseguenza questo riifiuto intellettuale, psicologico, oltreché politico. Dal divagante, infiorato Simbolismo si giunge all’urgente inquietudine dell’Espressionismo (“Mai la pace è stata così lontana e la libertà così morta” – dirà Hermann Bahr, morto nel 1934, pochi anni dopo il sacrificio di Lauro De Bosis – “Ed ecco che l’angoscia leva il suo grido: l’uomo invoca urlando la sua anima, tutta la nostra generazione non è che un unico grido d’angoscia. E grida anche l’arte, verso le tenebre profonde, invoca aiuto, invoca lo spirito: e questo è l’espressionismo”).
 
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Lauro invocava, in Italia, la fine dell’Indifferenza al Regime, primo passo verso uno strascicato ma gigantesco consenso collettivo, e la temperie, anche artistica, d’un tronfio, ambiguo “ritorno all’ordine”. L’Indifferenza, il sentimento che il giovane romanziere Moravia, nel ’29, elegge a simbolo e protagonista subdolo quanto invasivo, infettivo, insomma endemico, della sua stessa classe sociale (“Gli indifferenti di Moravia”, argomenterà Asor Rosa nel volume einaudiano della Storia d’Italia, dedicato alla cultura dall’Unità ad oggi, “assommano la rappresentazione realistica, il commento critico e al tempo stesso la piccola epica dei personaggi che essi descrivono”). Moravia, per splendida, mimetica sintesi neuro-vegetativa, s’emancipa, esorcizza le proprie forti radici.
Anche Lauro, elegante, bennato rampollo borghese, smascherava e lottava contro un’Indifferenza atavica, rinnegata, rifiutata ma dura a vincersi, a estirparsi. Come il Michele Ardengo di Moravia, soffre e anela il passaggio dall’indignazione interiore, insomma dal pensiero narciiso o annodato, umbratile, all’azione solare, manifesta, rischiosa, irrevocabile gesto d’eticità, protesta civile, e, in fondo, al contempo, autodifesa e autocritica. La retorica insopportabile e malvagia esige ora una virile controretorica, un vaccino forte, efficace. Tale doveva essere e fu, non solo nei voti di Lauro, il progetto e il movimento di Allenaza Nazionale, ben documentato dai ricchi documenti di questo libro che, accentrato sul nucleo eroico, come un cuore pulsante, della Storia della mia morte, testamento di Lauro prima del volo fatale su Roma, si articola in molte altre struggenti e sentite testimonianze d’ordine storico, morale e civile.
Del resto, “un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni” – lo ribadiva Antonio Gramsci nei suoi esemplari Quaderni dal Carcere meditando proprio sul tema “Arte e lotta per una nuova civiltà”. Certo è che per la cultura di quegli anni bui, coartati, più dei titoli delle opere d’arte, più dei libri, dei testi, valgono davvero, come in un tormentato, tragico cimitero dello Spirito, le epigrafi, le nude e crude date di nascita e morte, morti quasi sempre violente, provocate, dei nostri migliori cuori e cervelli: Giacomo Matteotti (1885-1924); Giovanni Amendola (1882-1926); Piero Gobetti (1901-1926); Carlo Rosselli (1899-1937); e Nello Rosselli ((1901-1937); Antonio Gramsci (1891-1937)…
Circolava eccome sangue risorgimentale, in Lauro (ai tempi di Garibaldi, sarebbe certo stato protagonista ammirevole di tali imprese, insieme coi migliori giovani di tante belle famiglie, nobili e borghesi; avrebbe fraternizzato per fede letteraria o politica con Nievo o Mameli!); ma, consapevole o meno, Lauro assomiglia, per raggiunta, seppur sofferta pacatezza, equilibrio intellettuale, rigore d’analisi, al suo grande coetaneo Piero Gobetti (anch’egli del 1901), profondamente diverso dal tipico letterato dannunziano o futurista, nonostante tante spore, tanti seducenti condizionamenti fluttuassero nell’aria. “In Gobetti”, ha scritto Montale, che gli fu amico, “l’idealismo era soprattutto tragico, la persuasione che la battaglia deve essere affrontata, non elusa e che è troppo facile attendere dal tempo soluzioni di compromesso”… Così Lauro mai dette al tempo, mai s’arrese in soluzioni di compromesso, o rinunciò a scendere in campo paladino d’una battaglia vinta già idealmente, perfino contro la morte: “varrò più morto che vivo” esclamò a chiudere l’autobiografica, profetica Histoire de ma mort, un documento morale e civile saldo come una pietra angolare, e trasparente come un cristallo finissimo:
“… Ho cercato d’interpretare il sentimento della massa del popolo, facendo astrazione dal mio personale.” Parlando dei suoi messaggi, soggiungeva: “Credo che un repubblicano e un monarchico potrebbero egualmente sottoscriverli. Noi ci limitiamo a porre il dilemma: ‘Per la libertà o contro la libertà'”.
Tutta la breve vita di Lauro De Bosis, e il suo combattuto progetto di un’Alleanza Nazionale contro il fascismo, bene intende e oggi commemora l’amoroso nipote Alessandro Cortese de Bosis, esplicano e rifulgono “il loro valore di anello di congiunzione tra la prima e la seconda Resistenza, da cui è nata la Repubblica nel 1946” Lauro preferiva chiamarlo Secondo Risorgimento Italiano, come amò battezzarlo in un suo opuscolo appassionato tradotto anche in inglese.
“Le nazioni non hanno grandi uomini che a loro dispetto”, scrive Baudelaire, inesorabilmente polemico nei Giornali intimi.E Thomas Carlyle chiamava tanto più letterato ad un suo veemente dovere d’eroismo: “Vi sono letterati sinceri e ve ne sono di non sinceri; come in tutte le specie di cose, vi è il genuino e l’artefatto. Se l’eroe è preso nel significato di sincero, allora io dico che l’eroe letterato adempie presso di noi una funzione sempre onorevole, sempre altissima, e che, una volta ben conosciuta, doveva essere la più alta. Egli esprime fuori di sé, nel modo che gli è proprio, l’anima sua ispirata, ed è quanto un uomo in tutti i casi può fare. (…) Eroe è colui che vive nella sfera interiore delle cose, nel vero, nel divino e nell’eterno, che esistono sempre invisibili per la maggior parte, sotto il temporale e il triviale; la sua essenza è in questo; egli lo dichiara fuori di sé, con atti o parole secondo il caso, manifestando se stesso fuori di sé”.
Quest’eroismo, ben più che solo letterario, Lauro De Bosis tenne a dimostrarlo anche coi fatti, giacché poco gli bastavano le parole – da sole – affettate, ridondanti, o scabre e taglienti che fossero. Nei lirici “Frammenti d’antropologia”, Novalis, principe del grande romanticismo tedesco, recitava: “Diventare uomini è un’arte. L’uomo è un individuo storico dato a se stesso”… E in un recente, acuto saggio di Wolf Lepenies siamo portati prepotentemente a interrogarci sull’ Ascesa e declino degli intellettuali in Europa – cioè proprio sul ruolo attivo, o così detto status ufficiale (“Malinconia e utopia – fra questi due poli si collocano gli splendori e le miserie degli intellettuali europei”).
Difficile proclamare leggi, norme, decreti etico-culturali. Vale forse più la coscienza, la cognizione altalenante del dubbio: una sorta di sana, feconda incertezza programmatica. QUella che confessava e incarnava un grande scrittore, intellettuale organico, pensatore civile, come Albert Camus: ” Intellettuale? Sì. E non rinnegare mai. Intellettuale=colui che si sdoppia. Mi piace. Sono contento di essere entrambe le cose. ‘Ma possono coesistere?’. Domanda pratica Bisogna darci dentro. ‘Disprezzo l’intelligenza’ significa in realtà: ‘Non posso sopportare i miei dubbi’. Io preferisco tenere gli occhi aperti”.
 
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Teneva gli occhi bene aperti, Lauro De Bosis, nel suo testamento-proclama; e l’anima libera – lealtà e coscienza, calore e respiro: “Seicentomila cittadini si son fatti ammazzare per liberar due città: fino a quando tollererete voi l’uomo che tiene schiava l’Italia intera? (…) Il Disfattismo degli italiani è la vera base del regime fascista. Comunica agli altri la tua fede ed il tuo fervore. Siamo in pieno Risorgimento. (…) L’atteggiamento che consiste nell’ammirare il fascismo pur deplorando gli eccessi non ha senso. Il fascismo non può esistere che grazie ai suoi eccessi. I suoi cosiddetti eccessi sono la sua logica. E per la logica stessa della sua natura che il fascismo è condotto a esaltare il sicario e a schiaffeggiare Toscanini. Si è detto che l’assassinio di Matteotti fu un errore: ma dal punto di vista del fascismo, quel delitto fu un colpo di genio”…
Nulla davvero della trascorsa, ampollosa, affabulante retorica dannunziana che aveva dettato al Vate, ad esempio, “L’orazion piccola in vista del Carnaro” (e in genere tutti i discorsi e messaggi per l’impresa di Fiume, raccolti nella Penultima ventura e ne L’urna inesausta) – nulla, anche, dell’urgenza rivoltosa futurista che animava, sublimava (o inficiava?) Kobilek, il “giornale di battaglia” d’Ardengo Soffici, fra bombarde, mitragliatrici e granate, in un “firmamento arrotato dallo strisciare sibilante, ululante, abbaiante, di migliaia di proiettili”…
Quando uno studioso, fuor d’ogni ideologismo o controretorica, vorrà veramente stilare una storia degli intellettuali italiani sotto il fascismo, dovrà collocare, annoverare in prima fila il pensiero e il sacrificio di Lauro De Bosis – e poi magari percorrere, recuperare, privilegiare, una strada diversa, alternativa, rispetto alle trattatistiche coerenti, agli stereotipi ufficiali d’ogni medaglione storiografico… E dovrà recuperare un altro testo importante come il Diario di un privilegiato sotto il fascismo tenuto dal giovane Leo Ferrero (1903-1933) dall’autunno del 1926 al dicembre 1927, altro anno cruciale dopo l’attentato di Bologna a Mussolini e l’inasprimento della politica del regime contro gli oppositori clandestini e gli intellettuali indipendenti. O ricordare il valore di “evasione e rifugio”, come sottolinea Solmi, della ricerca d’un Pavese, d’un Vittorini, e dei loro migliori coetanei scrittori verso la letteratura americana (la scoperta del primitivo e del selvaggio come “attivo fermento mitico del mondo moderno”). E infine, paragonare, collazionare il saggio d’intervento che un delirante, mistificante Ezra Pound il 18 aprile 1943 dedicò all'”Amor di patria”, o il 10 maggio 1942 alle “Idee fondamentali” (“Lo Stato deve poter assorbire TUTTA l’energia, e tutte le energie dell’uomo. L’idea fascista è questa: lo stato può, e deve, assorbire tutte le energie dell’uomo senza stroncare l’uomo”), al tragico, escatologico, fatale messaggio che uno dei più sventurati ed eroici condannati a morte della Resistenza italiana, il ventiduenne Giorgio Paglia, lasciò ai suoi poveri cari, la mamma e il fratello: “Sappi che combattendo io combattivo solo per ottenere un’Italia Libera da ogni straniero. Ricorda anche tu quanto nostro Padre ci ha insegnato: ‘la Patria sopratutto ed il suo bene'”.
Questo medesimo empito e questi sinceri sentimenti di un uomo, di cittadino, accompagnò, condivise e anticipò Lauro De Bosis. Poeta, scrittore – che oltrepassò la Scrittura: esattamente come, nel suo gesto scritto, suicidio annunciato o neomitico, travalicò i consueti bioritmi della Politica, ogni praticata logica tattica o tecnica dell’Opposizione. Forse davvero in volo ripensò, declamò a memoria, squisito retaggio di prima giovinezza, la dannunziana “Canzone d’oltremare”:
I miei Lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz’ali. È giunta l’ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
 
Italia! Dall’ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l’esilio si colora.
 
Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d’aria;
e di lungi il tuo volto è più divino.
 
Lirismi da far ora avverare, come i versi metaforici del suo poema, parole belle trasmutate, transustanziate in azione: “non andremo a caccia di chimere”… Così le fragili ali di Icaro, che in Lauro stesso s’erano disciolte, abbacinate in poesia, adesso si materializzano in un Pegaso umano, troppo umano, tutto cuore e metallo: “è il nome del mio aeroplano – ha la groppa rossa e le ali bianche: benché abbia la forza di ottanta cavalli, è svelto come una rondine”…
Quando tutto fu in ordine, o comunque tale sembrò, Lauro, che era a Marsiglia, vergò in francese, in una sola notte, dal 2 al 3 ottobre 1931, la Storia della mia morte, e la mattina stessa del giorno 3 la spedì perché l’amico Ferrari potesse farla pubblicare, se il viaggio fosse risultato senza ritorno. Decollò nel pomeriggio alle 15,15, dall’aeroporto di Marignan, presso Marsiglia. In rotta verso Roma, gli arrivò poco dopo il tramonto, verso le ore venti. Scese da duemila metri a circa 300, fino a lanciare in pieno centro cittadino almeno 400.000 manifestini, fra Piazza Venezia, il Corso, Palazzo Chigi… I passanti erano ammutoliti e insieme ammirati, le vie in subbuglio; tutti leggevano i manifestini e se li passavano. Mezz’ora dopo l’aereo Pegaso sparì nella notte.
E forse entrò in una favola, in un nuovo mito che anch’esso appartiene all’arte, alla religione più sacra della Storia. Lauro mai fece ritorno. Volò via, volava, e ancora in volo, un eternato, universale Volo di notte, come quello che Pari a lui scrisse e per sempre vivrà l’estro e il coraggio del suo ideale collega Antoine de Saint-Exupéry, alla ricerca della Felicità, dell’Amore, del Piccolo Principe affaticato nell’immenso giardino della Vita: “Infatti, sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge dapprincipio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo. Se si tratta di un ramoscello di ravanello o di rosaio, si può lasciarlo spuntare come vuole. Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi del baobab. I suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare”…
Volano ancora, Lauro e Antoine, invisibili a noi, separati, irraggiunti, o forse insieme, ogni notte fino all’alba, dal buio al Sole, dal ricordo sognante al progresso severo, liberi e quasi-angeli, verso il nostro Futuro: “L’aeroplano era improvvisamente sboccato, nello stesso attimo in cui era emerso, in una calma che pareva straordinaria. Non un’onda che lo facesse inclinare. Come una barca quando passa la diga, esso entrava in acque riservate. Era preso in una parte sconosciuta di cielo, nascosta come la rada delle isole felici. Sotto di lui, la tempesta formava un altro mondo di tremila metri di spessore, percorso da raffiche, da trombe d’acqua, da lampi; ma essa volgeva agli astri una faccia di neve e di cristallo. (…)
S’immaginava d’aver raggiunto uno strano limbo, perché tutto si faceva luminoso; le sue mani, le sue vesti, le sue ali. La luce non scendeva dagli astri, ma si sprigionava, sotto di lui, intorno a lui, da quei depositi bianchi…”.
 
Plinio Perilli
 
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