Lo standard della struttura produttiva nazionale? Nel futuro sarà sempre meno competitivo, se non si darà una svolta nell’aggregazione di capitali e società produttive
Pregi e limiti delle Pmi a conduzione familiare – Il familismo manca di prospettive di grande crescita e non potrà che continuare a conservare spicchi marginali in alcuni settori del mercato generale e globale, anche se intesi come “nicchie” di qualità superiore
Il tradizionale rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, propone per il 2009 una chiave di lettura della situazione dell’Italia che fa davvero riflettere. Il documento mostra un Paese che è stato capace di resistere alla crisi internazionale riproponendo in realtà “il tradizionale modello adattativo-reattivo”, ovvero, conservando quello che è stato il modello di sviluppo incentrato su piccole imprese e su cui si è incentrato il modello di sviluppo degli ultimi anni e ha rafforzato i sistemi di garanzia ed assistenza che fanno da cuscinetto al sistema. Così si può leggere nelle considerazioni finali che l’organismo ha elaborato sull’Italia del 2009: ” … non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono patrimonializzate. La crisi ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una «seconda metamorfosi», dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75”. In altri termini, i punti di forza del sistema Italia dunque sarebbero: poca economia finanziaria; una forte presenza dell’industria manifatturiera; presenza di molte piccole imprese sparse sul territorio; un mercato del lavoro flessibile per la presenza di un forte lavoro sommerso; molto risparmio; un sistema bancario radicato sul territorio; un paese che soffre del c.d. “mal di mattone” e che è caratterizzato nell’avere l’85% delle famiglie con case di proprietà; forte presenza dello Stato nell’economia (economia di tipo misto).
Per chi intenda approfondire il tema, sarà sorpreso sapere come questo quadro del Paese sia offerto anche da altri commentatori di cose italiane sia nostrani che esteri e da altrettanti centri di ricerca probabilmente meno affermati del Censis, ma sicuramente caratterizzati da altrettanta serietà. Tali considerazioni sembrano addirittura essere condivisi dagli studi prodotti dalla Banca d’Italia e dall’Istat. Tante convergenze di opinioni, pertanto, di cui non può non tenersi conto, certamente non possono non inquietare chi ritiene che le tendenze dell’economia mondiali abbiano già messo fuori gioco il modello italiano. In fondo, infatti, a bene vedere quello che viene decantato come il nuovo miracolo italiano di fronte alla crisi è, in realtà, ciò che fino a qualche tempo fa è stato considerato da molta letteratura economica il punto di debolezza del sistema Italia, ovvero, un Paese mal organizzato e caratterizzato da familismo, localismo e nanismo imprenditoriale.
Vediamo meglio di che cosa in realtà si parla. Sul familismo ovvero, sul vincolo di solidarietà fra i membri di una stessa famiglia della società italiana considerato come la caratteristica prima della società italiana sono state fatte infinite osservazioni da parte di sociologi, politologi ed economisti. Tali analisi hanno alla base le riflessioni del sociologo americano Edward C. Banfield elaborate nel saggio “Moral Basis of a Backward Society” (Le basi morali di una società arretrata), del 1958 e del ricercatore di Harvard Robert Putnam nel suo “Making Democracy Work del 1993”. Il termine “familismo” pare sia stato coniato proprio dal Banfield per interpretare il sistema delle relazioni di una piccola comunità lucana ( quella di Montegrano), caratterizzata da estrema povertà ed arretratezza. Il familismo si presenta per Banfield come un comportamento dei singoli individui di quella comunità che è volto a massimizzare gli interessi all’interno della propria cerchia familiare escludendo di per sé la possibilità di costruire solidarietà allargate al di fuori di essa come, ad esempio, relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all’esterno della famiglia ed per tale via, invece di una corretta partecipazione al processo democratico che avvantaggerebbe l’intera collettività, si privilegia il favore ai propri familiari. E per farlo si finisce con il ricorrere spesso a corruzione, clientelismo e altri comportamenti contrari alla legge. Con due importanti conseguenze. Primo: la priorità data al privato sul pubblico, quello che è stato definito un “limitato senso civico” tipico di un certo modo di sentire italiano. Secondo e, forse, più grave ancora: la propensione a stabilire i rapporti sulla base di solidarietà di tipo familistico. Nella sostanza, tale comportamento di privilegiare i legami familiari a quelli di una comunità più ampia ed esterna alla stessa, sembrerebbe caratterizzare tutto il nostro Paese, e non solo il profondo Sud ma anche, diversamente da come in un primo tempo si era indotti a ritenere, le aree più ricche e produttive del Nord.
In particolare, rispetto alle analisi condotte negli anni sessanta, il familismo del 2000 resisterebbe ancora oggi in tutto il Paese come caratteristica del tessuto sociale “in quando soggetto economico e relazionale in grado di fornire ai suoi membri un riparo alla inospitabilità del mondo” estendendosi peraltro, anche a determinare i comportamenti economici. Illuminante sarebbe, al riguardo, il confronto tra il sistema di legami familiari nella strutture proprietarie delle imprese italiane rispetto a quelle che sembrano caratterizzare altri Paesi dell’Occidente che evidenziano come nei nostri partner tali vincoli siano molto più deboli e difficilmente superino il nucleo familiare in senso stretto (legame tra padre e figlio). Anche se siamo ben lontani dal pensare che almeno nel grande capitalismo l’Italia sia un’una eccezione (e ci conforti pensare ai Ford in America, ai Toyota (ovvero la Toyota), ed alla famiglia Murdoch che è saldamente al potere del più grande network mediatico del mondo) nella generalità di tali Paesi, tuttavia, i sociologi ritengono che i legami familiari sembrerebbero essere più l’eccezione che la regola e che certamente non assumono il ruolo predominante che avrebbero in Italia.
Le caratteristiche del capitalismo familiare nostrano sono state indagate per lungo tempo, e sebbene esso non abbia più la compattezza che gli conferiva Mediobanca sotto la guida di Enrico Cuccia, si può tuttavia convenire che ne continua la propensione con le catene societarie che assicurino il controllo. A confortare le analisi dei sociologi sulle caratteristiche intrinseche della società italiana, va evidenziato che l’universo di imprese italiane non è, tuttavia, rappresentato dalle grandi imprese che quotano i loro titoli su molti mercati finanziari internazionali (Fiat, Pirelli, Mediaset, ecc), ma anzi soprattutto da 4600 aziende di medie dimensioni e da 600/700 aziende un po’ più grandi (il numero dipende dalle variabili che si sceglie di includere o escludere nelle definizioni di grandi imprese).
Ebbene, se si va a vedere nel gruppo più numeroso, quelle delle 4600 imprese (concentrate in buona parte nel Nord e Nord Est, e quindi con caratteristiche anche locali), la proprietà è quasi esclusivamente di tipo familiare e tali imprese hanno già preso le loro determinazioni per quanto riguarda la successione all’interno del nucleo familiare. I fondi di “private equity” hanno in mano una quota insignificante del capitale di queste imprese, e contano davvero molto poco. Molto più contano le Banche e la loro capacità di assicurare il finanziamento al capitale circolante. Per inciso, va segnalato che l’indotto che gira intorno a tali imprese è pari a circa metà del valore aggiunto dell’intero comparto manifatturiero italiano. Una cifra veramente enorme, che rende evidente l’anomalia italiana. In altre parole, il familismo plasma l’ulteriore fenomeno del c.d. nanismo imprenditoriale, altra caratteristica del nostro Paese. Vediamo come. Secondo molti commentatori di cose economiche il c.d. eccesso di familismo incide, infatti, anche sulle modalità di trasmissione ereditaria, dove ai figli viene prevalentemente lasciata non solo la proprietà ma anche la gestione manageriale di imprese familiari. Non mancano neanche osservazioni su quanto i legami familiari influenzino le scelte di investimento patrimoniale che privilegiano, direi naturalmente, gli investimenti immobiliari ed in titoli di Stato rispetto ad investimenti in azioni o in fondi azionari più rischiosi e meno conservativi. Risulta, peraltro, che queste imprese non hanno la forza ed il bisogno (e direi la voglia) di diventare molto più grandi, in quanto la loro energia sta nell’essere di tipo medio, quindi agili e flessibili e di avere una proprietà “familiare” che può prendere decisioni molto in fretta. In qualche caso ci sono anche dei manager addetti alle decisioni operative, ma la strategia risulta saldamente in mano alle famiglie.
Quali sono, in estrema sintesi, i punti di forza e quelli di debolezza del “capitalismo familiare” ? In primo luogo la coincidenza tra il proprietario ed il manager. Per definizione non c’è conflitto di interessi e quindi non esiste il pericolo che le decisioni gestionali possano essere in contrasto con il profitto dell’impresa, a meno naturalmente di errori umani. Viceversa, le decisioni di un manager stipendiato possono discostarsi dalla massimizzazione del profitto, per il semplice fatto che il manager amministra soldi che non sono suoi. Le casistiche in cui la condotta di un manager può discostarsi da quella che il suo datore di lavoro desidererebbe posso essere molteplici: dall’utilizzo dei beni aziendali per scopi privati, allo scarso impegno nella gestione aziendale, dall’assunzione clientelare alla vera e propria distrazione di fondi dalle casse aziendali . In estrema sintesi: per un medio imprenditore (e la sua famiglia) l’impresa è un progetto di vita. Per un manager, invece, è soltanto un’occasione di carriera e di guadagni. Altro punto di forza dell’impresa familiare è la capacità di un’impresa di attingere in maggior misura all’autofinanziamento non essendo necessario provvedere alla remunerazione annuale del capitali di rischio di cui necessità , invece, una struttura cui partecipano al capitale soggetti terzi.
Ma molte sono le problematiche del capitalismo familiare. In primo luogo le risorse personali e quelle finanziarie. Crescendo, infatti, l’impresa raggiunge prima o poi una grandezza tale che normalmente le forze di una famiglia non bastano più a fornire le capacità gestionali ( ovvero, come insegna la scienza manageriale, le capacità di programmazione, organizzazione, controllo, decisione, orientamento ai risultati ed al cliente) nonché le risorse finanziarie necessarie per l’ulteriore espansione. E’ questo il “tallone d’Achille” del capitalismo famigliare? La penuria di capacità gestionali tende a verificarsi in coincidenza con la successione nella conduzione aziendale; figli incapaci o litigiosi coinvolgono tutti coloro il cui destino è legato alla sopravvivenza dell’impresa. Peraltro, anche una analisi di tipo probabilistico ci conferma la fragilità della una struttura di tipo aziendale familiare. Se si osserva, infatti, che l’abilità gestionale (ed il quoziente intellettivo) sono distribuiti in modo casuale tra la popolazione (secondo una curva che statisticamente viene detta normale), esiste pertanto un’alta probabilità che un familiare incapace porti alla rovina un’impresa familiare. A volte, se non è l’incapacità gestionale degli eredi, è la loro litigiosità a rovinare l’impresa: perché il controllo sull’impresa è uno, mentre coloro che desiderano comandare sono più d’uno e ciò impedisce scelte univoche nella conduzione dell’impresa. Altro limite è il patrimonio familiare che può non essere più sufficiente a finanziare la crescita dell’impresa; a quel punto, l’impresa può indebitarsi oppure cercare di attrarre capitale azionario esterno, ma entrambe queste soluzioni reintroducono, in una forma o nell’altra, il conflitto di interesse tra finanziatore e finanziato, e quindi quei costi la cui assenza è la forza intrinseca dell’impresa familiare. L’indebitamento, specie se eccessivo, spinge peraltro l’imprenditore ad assumere rischi eccessivi, introducendo una sorta di deresponsabilizzazione della gestione (che finisce sempre più appiattita sui desiderata del finanziatore), e le partecipazioni azionarie esterne pongono il proprietario, in una certa misura, nella stessa posizione di conflitto di interessi di un manager. A questo punto, l’alternativa dell’impresa è rinunciare alla crescita o, magari, vendere l’impresa a chi è in grado di trasformarla in senso manageriale o ricapitalizzarla inglobandola in un’impresa più vasta. La soluzione, pertanto, è scontata: arrestare o, rallentare, la crescita dell’impresa per renderla compatibile con le capacità gestionali e di finanziamento della famiglia.
Ma perche un’azienda dovrebbe crescere? Essenzialmente il motivo è che solo la grande impresa riesce a far sentire il suo peso nella competizione internazionale, nel controllo dei mercati internazionali e nella ricerca, mentre alle imprese più piccole resta solo un mercato di nicchia (non per questo tuttavia meno redditizio). Le PMI, in definitiva, purché tecnologicamente aggiornate, sono, certamente, proprio per la ridotta dimensione, più flessibili, dinamiche e pronte ad adattarsi all’ambiente economico mutevole ma non sono però in grado di giocare alcun ruolo nel contesto globale .
Vediamo meglio di comprendere il tutto prendendo in prestito le nozioni base dell’economia politica. Com’è noto dagli studi di microeconomia un’impresa, ad esempio manifatturiera, raggiunge il suo equilibrio economico alla quantità venduta ” x” che rende massima la differenza tra i ricavi totali che ottiene dall’attività d’impresa rispetto ai costi totali sostenuti nella produzione. Per le imprese che operano in un mercato concorrenziale in cui il prezzo di vendita è un dato, la quantità d’equilibrio si colloca nel breve periodo ad un livello in cui il costo medio è inferiore al prezzo di vendita precisamente nel punto in cui prezzo ed il costo marginale sono uguali. In quel punto l’impresa massimizza il profitto e non ha alcuna convenienza a produrre di più. Si tratta perciò di un equilibrio stabile. Una volta raggiunto il punto di equilibrio, l’impresa se ne sposta solo a seguito delle modifiche di prezzo del bene venduto (o, naturalmente, di aumento dei costi di produzione). In particolare, nel caso di un abbassamento del prezzo di vendita se la riduzione è tale che comunque l’impresa riesce a coprire almeno i costi variabili, l’impatto sull’attività sarà che la stessa potrà continuare a produrre ma solo per qualche tempo, viceversa, se la riduzione del prezzo di vendita sarà tale da permettere la copertura dei soli costi fissi, l’impresa dovrà inevitabilmente uscire dal mercato.
Ora, in un contesto globale, le variabili di prezzo e di costo sono naturalmente più mutevoli e richiedono una grande capacità di adattamento che rappresenta il naturale punto di forza dell’impresa di piccole medie dimensioni. Ma in un ambito di concorrenza internazionale, le economie di scala connesse alla produzione su grandi quantità generano un enorme impatto sul livello dei costi consentendo produzioni a costi totali più bassi e, pertanto, con maggiori profitti. Nel lungo periodo, l’esistenza di extraprofitti aumenterà la produzione e determinerà una riduzione del prezzo che eliminerà le imprese marginali. Insomma, all’interno stesso del sistema marginalistico classico dei mercati concorrenziali, è possibile sostenere l’intrinseca debolezza delle imprese di piccole e medie dimensioni quando si trovino a competere con imprese di grandi impianti.
Le fonti di economie di scala, ovvero le cause che determinerebbero che ad un aumento delle risorse impiegate nel processo produttivo si provoca un aumento più che proporzionale dei risultati, sarebbero squisitamente di natura tecnica. Esse sono connesse, ad esempio, all’indivisibilità di alcuni componenti che non possono essere ridotti al di sotto di una scala minima, anche se la capacità produttiva è molto bassa; in altre parole, ci sono dei costi fissi come quelli pubblicitari che, se pur al livello minimo di spesa sono, tuttavia, alti ed uguali sia per le piccole imprese che per le grandi. Le economie sono connesse anche alla maggiore produttività degli input per effetto della maggiore specializzazione , alle proprietà geometriche dei contenitori (esempio un Tir con capacità di carico di 100 metri cubi costa di meno di 5 furgoni con capacità di 20 metri cubi l’uno), ai minori costi unitari di acquisto (per un venditore avere a che fare con un solo cliente costa meno che trattare con più acquirenti, per minori costi quali bolle, trasporto, consegna). Inoltre, un acquirente che acquista grandi quantità ottiene migliori condizioni di acquisto come gli sconti quantità perché l’azienda fornitrice, vendendo ad un contraente unico, deve sostenere minori costi. Un grande acquirente ha, inoltre, un maggior potere contrattuale che pesa in fase di contrattazione. Le economie di scala derivano anche dalla maggiore efficienza degli impianti di maggiori dimensioni che spesso ad un raddoppio della loro potenza produttiva non fanno corrispondere un raddoppio dei consumi, come ad esempio accade nei motori elettrici ed a scoppio.
Secondo alcuni autori, poi, esisterebbe una relazione dimostrabile per via empirica tra la quota di mercato conquistata da un’impresa e la redditività dell’impresa stessa che fa sì che ad un aumento della quota di mercato corrisponda un aumento della redditività delle imprese. In particolare, Ravenshaft (1983), usando una base di 3000 imprese americane, segnala che ad un aumento della quota di mercato del 10% seguirebbe un incremento di 1.8% i profitti, mentre gli economisti Martin & Gale (in un successivo studio empirico del 1987) mostrano che per 2611 imprese quelle con una quota di mercato superiore al 50% avevano un ROI tre volte più alto delle altre imprese. Tali studi, invero, sono stati molto contestati da altri economisti (in particolare Jacobson) che ritengono che la relazione tra quota di mercato e redditività è una relazione spuria, ovvero, non robusta e che le differenze di redditività tra le imprese siano dovute a fattori specifici dell’impresa ‘non osservabili’ (come ad es. competenze del management, la fortuna, ecc). Tuttavia, non sembra discutibile l’osservazione che il mercato globale stimola e rafforza le grandi imprese.
Se così stanno veramente le cose, l’uscita dalle crisi troverà il nostro Paese impreparato perché esso non ha modificato il proprio sistema produttivo.
Il problema si pone, allora, a livello più alto, ovvero, a livello Paese. In Italia, le aziende capaci di acquistare ed inglobare un’impresa più piccola scarseggiano, in quanto mancano certamente il capitale finanziario necessario e la capacità di risolvere i conflitti di interesse di una gestione manageriale . Quali le opzioni per risolvere il problema? Quale, ancora, il problema? L’Italia, dopo aver sfruttato il punto di forza dell’impresa familiare, nella fase di crescita postbellica, in cui la maggior parte di queste imprese si trovava allo stadio nascente, si trova ad affrontarne l’incapacità di superare la soglia dimensionale critica, che è quella finanziabile e gestibile da una famiglia. Per avere dei giganti industriali capace di competere sui mercati internazionali, bisognerebbe poter disporre di forti investimenti infrastrutturali pubblici e di aziende globali (meglio se in mano pubblica ) capaci di fare da volano; ma tutto questo è al momento assente in parte o dissipato nell’orgia della privatizzazione selvaggia degli anni ottanta (…anche se, per gli aspetti inerenti l’alto grado grado di corruttela e clientelismo raggiunti nell’utilizzare le industrie di Stato – e le inefficienze produttive di alcune fra esse – in modo assolutamente spregiudicato da parte dei governi e dei partiti, ciò costituì in parte un percorso obbligato), salvo la lodevole azione perseguita dal gruppo Finmeccanica nei più diversi contesti internazionali odierni.
Mancando al Paese soprattutto una competitività generale (c.d. capitale sociale), ritengo che essa possa essere assicurata solo da una leadership politica capace di realizzare ulteriori raggruppamenti di imprese per il raggiungimento di fini condivisi sui mercati internazionali.
Tuttavia, anche se è un paradosso, oggi, è da dire che è meglio il troppo poco, anziché aspettare con le mani in mano che la politica riscopra il suo compito!
i. Vorrei ricordare che Gramsci, a proposito dei contadini meridionali, scrisse: “è noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia tra le masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’ltalia: i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci…”
ii. Rapporto Eurispes 2008
iii. Si veda per un approfondimento: “Family Firms” di Mike Burkart, Fausto Panunzi e Andrei Shleifer, 2002, CEPR Discussion Paper N. 3234; “Dynastic Management”, di Francesco Caselli e Nicola Gennaioli, 2003, NBER Working Paper N. 9442
iv. Vedi, sui comportamenti scorretti dei Manager di società quotate: “Crack finanziario”, E.Franza, 2009 Libri del Borghese
v. L’autofinanziamento nell’economia dell’impresa, P. Capaldo, Giuffrè
vi. Per avere un’idea della distribuzione delle imprese a seconda delle dimensioni, in un’economia industriale avanzata, si consideri che negli Stati Uniti le imprese con meno di 20 addetti sono circa il 90% del totale mentre, in Italia, le imprese con meno di 20 addetti ammontano al 98% del totale. Nel settore manifatturiero, in Italia, le imprese di questa classe dimensionale occupano circa il 40% degli addetti, negli Stati Uniti solo l’8%
vii. Ricordiamo l’esempio che fece Adam Smith della fabbrica di spilli, per cui dividendo la produzione in 18 fasi diverse, ciascuna svolta da operi differenti, la produttività aumentò da 280 a 4800 volte
viii. Alexander Aganin e Paolo Volpin, “History of Corporate Ownership in Italy”, 2003, London Business School.